Recovery fund, è un accordo storico, ma l’Europa non diventi un bancomat

Dopo 92 ore di trattative tra capi di stato e di governo, il Consiglio europeo è riuscito con grande fatica a raggiungere un accordo storico. Si è preso ufficialmente atto della crisi epocale in cui ci ha trascinato il COVID-19, pandemia percepita diversamente nei vari paesi ma che tocca ugualmente tutto il sistema produttivo continentale, ormai indissolubilmente legato in un sistema economico integrato.

Dal punto di vista comunitario il fatto storico non sta tanto nella cifra dei 750 miliardi previsti dal piano Next generation EU, ma a differenza delle altre crisi, dal riconoscimento condiviso della necessita di un intervento politico europeo. Per la prima volta si è accettato di mettere in comune il debito collegato alle spese necessarie per uscire da una crisi economica ancora tutta da scoprire nella sua gravità. Per la prima volta si introduce uno strumento temporaneo con il quale la Commissione potrà contrarre prestiti sul mercato (Recovery bond), a un tasso impensabile per paesi come l’Italia, a nome di tutta l’UE per finanziare parte del piano congiuntamente all’uso di eccezionali sovvenzioni.

L’accordo prevede, infatti, l’introduzione di nuove risorse proprie comunitarie per finanziare il bilancio europeo, come era già stato richiesto a gran voce non solo dal Parlamento europeo. Dal 1 gennaio 2021, ad esempio, sarà introdotta una tassazione europea sulla plastica non riciclabile. Mentre su carbon tax alla frontiera e digital tax nel mercato interno ci sono impegni per l’entrata in funzione dal 2023. Ciò da finalmente quei strumenti finanziari congiunti che potranno rendere autonoma l’azione della UE rispetto ai contributi economici e corrispettivi interessi dei singoli stati.

Questo è il vero aspetto storico di un accordo che invece viene presentato unicamente sulla base dei benefici economici che ogni singolo paese è riuscito ad ottenere. Come se la Unione europea fosse considerata alla stregua di un bancomat di cui i prelievi possano essere sventolati a proprio piacimento nei dibattiti di politica interna.

Leggendo la stampa nazionale di ciascun paese sembrerebbe che abbiano vinto tutti. Hanno vinto l’Olanda e i paesi frugali, ottenendo una percentuale inferiore di sussidi nel piano, ulteriori sconti per il prossimo bilancio europeo (rebates) e il freno di emergenza sull’erogazione dei fondi per i piani nazionali, senza però ottenere che un solo paese possa bloccarli. Ha vinto l’Italia che ha ottenuto 209 miliardi di euro di finanziamenti, 88 di sussidi e 121 di prestiti, ossia ben più della proposta iniziale. Hanno vinto l’Ungheria e la Polonia che otterranno finanziamenti senza che si tenga di conto delle specifiche discriminanti dovute al loro stato di diritto. Ha vinto il Lussemburgo e Malta che hanno ottenuto due bonus, rispettivamente di 100 e 50 milioni di euro nel prossimo bilancio comunitario. Hanno vinto la Germania e la Francia che avevano proposto questo piano ambizioso e soprattutto riconfermato la loro alleanza e leadership europea.

Per tutti però è suonato un forte campanello di allarme. C’è da preoccuparsi se pochi piccoli paesi, ma con grandi interessi economici, appellandosi ad un ormai anacronistico diritto di veto, hanno potuto minacciare di far saltare tale storico accordo e lo stesso valore della solidarietà europea. Hanno preteso che qualcosa venisse tagliato e alla fine sono state le politiche comuni a beneficio di tutti i cittadini europei che hanno avuto la peggio nello scontro del negoziato intergovernativo.

La proposta dei governi per il prossimo bilancio europeo è stato ridotta a 1074 miliardi di euro. Una cifra inferiore a quella proposta dalla Commissione a inizio anno e inferiore anche al precedente bilancio europeo del periodo 2014-2020 (1082 miliardi). Si sono tagliati fondi in tante materie strategiche per lo sviluppo europeo: Green deal, ricerca & innovazione e altri investimenti a livello europeo, oltre ad alcuni strumenti per fronteggiare le crisi sanitarie transfrontaliere e la ricapitalizzazione delle imprese. Infine avremo meno risorse anche per gli aiuti umanitari e per la cooperazione internazionale.

A fronte di tutti questi tagli, ad aumentare sono solo gli sconti ai versamenti per il bilancio di alcuni paesi: Danimarca, Olanda, Austria e Svezia. Oramai è caduto ogni tipo di alibi e i paesi frugali hanno sostituito la Gran Bretagna in questa gara al ribasso nel processo d’integrazione europea.

Per questo i gruppi politici dei Socialisti, popolari, liberali e verdi che formano la maggioranza nel  Parlamento europeo, che in autunno dovrà votare sul quadro finanziario pluriennale, hanno già annunciato battaglia senza sosta. Battaglia che potrebbe diventare paradossale, visto che nel caso in cui il nuovo bilancio UE non fosse approvato, si procederebbe con l’utilizzo momentaneo delle cifre più alte stanziate nel precedente bilancio.

Dunque con Next geration EU si aprono nuove sfide; per l’Italia che dovrà smentire una deludente gestione dei fondi comunitari del passato e dimostrare di essere in grado di mettere a frutto questa occasione storica per il suo rilancio strutturale; per l’Unione europea che dovrà dimostrare di essere qualcosa di più degli interessi nazionali che la compongono, essendo questi spesso tra loro divergenti e causa del rallentamento dello sviluppo del processo d’integrazione.

A breve l’Europa avrà l’occasione di uscire da questo effetto bancomat ad esclusivo uso delle opinioni pubbliche nazionali. Grazie alla prossima convocazione della più volte evocata Conferenza sul futuro dell’Europa, i cittadini potranno essere coinvolti nella definizione di quelle riforme indispensabili per una efficace governance comune. In definitiva l’accordo sarà realmente storico solo se non ci si fermerà qui, ma diventi il primo passo verso una nuova forma democratica di Unità politica europea indispensabile per essere all’altezza delle sfide del prossimo futuro.

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