Emancipare lo sport di promozione sociale, questo è il momento
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Se c’è un insegnamento che possiamo trarre da questa crisi sanitaria, che ha già prodotto una devastante emergenza sociale, sta proprio nel ridisegnare la centralità della persona nel rapporto con l’economia e la vita reale.  L’idea che il nostro vivere quotidiano non fosse legato alla dignità del lavoro, all’emancipazione di ognuno di noi dalle forme diverse di precariato o che il sistema produttivo dovesse necessariamente avere le forme di un capitalismo predatorio a scapito di una cultura della sostenibilità nel rapporto con lo sviluppo, rappresentano categorie che il tempo che stiamo vivendo ha messo fortemente in crisi. Prima della pandemia continuavamo a vivere come se la crisi finanziaria del 2008, che affondò l’economia globale, non avesse determinato un allargamento della forbice delle disuguaglianze rese ancora più evidenti da una rallentata ripresa economica.

Il Covid-19 non ha fatto altro che rendere esponenziali le forti contraddizioni che avvertivamo da lungo tempo. Allora è assolutamente evidente che non possiamo permetterci di uscire da questo difficile momento storico allo stesso modo di come siamo entrati. Perché ciò possa accadere abbiamo bisogno di avere un respiro lungo. Trovare e impiegare risorse, individuare misure per sostenere la fase emergenziale, ma soprattutto avere la consapevolezza che la traversata nel deserto non sarà breve. E questo vuol dire avere una classe dirigente nel paese, e non solo quella politica, all’altezza del compito, poiché tutti siamo chiamati a prendere parte alla ricostruzione.

Una guida chiara, a mio parere c’è già, non bisogna andare molto lontano ed è rappresentata dai 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’Onu. Intorno ad essi va ridisegnato un nuovo patto sociale che metta al centro il lavoro, attraverso il quale immaginare un rinnovato modello di sviluppo che determini il superamento delle disuguaglianze.

Se la strada è questa, lo sport di promozione sociale, quello a misura di ciascuno, che attraverso le realtà sportive di base è un presidio di prossimità, parte integrante del terzo settore italiano, lievito di comunità a forte legame coesivo, può dare un proprio contributo? La risposta è: assolutamente si!  

Diventa necessario però fare un vero e proprio salto di qualità sul piano culturale. Lo sport, ma soprattutto l’idea di movimento, il bisogno di attività motoria non appartengono più ad una superata dimensione dopolavoristica, bensì sono diventati a pieno titolo veri e propri diritti di cittadinanza attraverso cui declinare il benessere individuale e collettivo delle comunità. Una parte complementare del progetto di vita delle persone, la terza agenzia educativa dopo la famiglia e la scuola.

L’Oms ha predisposto, per la Regione Europea, una strategia 2016-2025 sull’attività fisica quale fattore trainante per la salute e il benessere, con particolare attenzione all’incidenza di malattie non trasmissibili associate a livelli insufficienti di attività fisica e a comportamenti sedentari. Ha elaborato il Piano d’Azione Globale sull’Attività Fisica 2018-2030. Il Trattato di Lisbona disegna una dimensione europea del valore sociale ed educativo dello sport.

Sempre più spesso i progetti di cooperazione allo sviluppo prevedono la pratica sportiva come leva per la mediazione dei conflitti, la costruzione di percorsi di pace, di integrazione, educazione alla mondialità. In molte città lo sport sociale diventa motore di processi per il ripensamento degli spazi urbani, attraverso cui si mette in luce la capacità dell’associazionismo sportivo di integrare lo sport con nuovi modelli di coinvolgimento e di partecipazione democratica dei giovani. E con il loro protagonismo, i loro saperi si rigenerano luoghi, periferie che tornano alla fruibilità pubblica superando il degrado.

Tutto questo incrocia trasversalmente l’azione delle istituzioni, le quali all’interno di  un rinnovato patto di sussidiarietà orizzontale, coerentemente con quanto stabilito dalla recente legge di riforma del terzo settore, devono coinvolgere l’associazionismo sportivo di promozione sociale nella coprogrammazione e coprogettazione delle politiche pubbliche.

Un tale capitale umano rappresenta un cantiere sociale di educazione informale alla cittadinanza e un giacimento di democrazia che vanno liberati da un sistema sportivo che ormai da tantissimo tempo segna il passo nel nostro paese. E l’occasione c’è, è alla portata del necessario cambiamento di rotta che questa emergenza ci impone di fare per modernizzare finalmente il paese sulla base dei valori di progresso, sostenibilità, uguaglianza e solidarietà.

La legge delega dell’agosto 2019 per il riordino del sistema sportivo ha bisogno dei decreti legislativi attuativi. Qui sta il banco di prova. Va rotta la centralità del Comitato Olimpico, la supremazia delle federazioni nel rapporto con la promozione sportiva. Occorre liberare le energie sane, che davvero sono in grado di valutare l’impatto sociale della propria proposta sportiva in modo trasparente, colpendo coloro che non hanno comportamenti eticamente corretti e stigmatizzando le furberie.

Nei diversi articoli di quella legge ci sono tutti i presupposti per fare bene. Sugli ambiti di attività tra i vari organismi sportivi, sul lavoro sportivo togliendolo finalmente dalla precarietà nella quale è rinchiuso, sulle risorse che oggi sono molto sbilanciate e disuguali, sulla semplificazione amministrativa e degli oneri burocratici, sul rapporto con il credito, sulla gestione degli impianti sportivi.

Bene gli interventi da parte del governo a sostegno dello sport, ancorchè siano ancora insufficienti e necessitino di ulteriori risorse. Ma la vera sfida sta nell’assegnare finalmente allo sport di promozione sociale il ruolo che merita. Si mostri il coraggio necessario per dare piena dignità a questo mondo e si individui la mancanza di accesso alla pratica sportiva come uno degli indicatori di grave deprivazione materiale tra quelli che analizzano la povertà, la cui definizione è stata concordata in sede europea.

La ricostruzione ha bisogno di fondamenta solide e di valori condivisi. Di una capacità di lettura globale dei fenomeni trasformativi per determinare conquiste di civiltà nella dimensione nazionale ed in quella europea ed internazionale. Per ridurre il solco che si è creato nelle fratture sociali, non ci si potrà sottrarre dall’intervenire in tutti quei settori, nessuno escluso, che da tempo riproducono disuguaglianze e che impediscono di liberare importanti energie per garantire giustizia sociale e universalismo dei diritti.  

Vincenzo Manco è presidente nazionale UISP

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