La nuove città

Ve lo ricordate il bilancio partecipativo di Milano? Che tenerezza, sembra passato un secolo! Era lo strumento all’avanguardia per la partecipazione attiva dei cittadini alle scelte dell’amministrazione, la via attraverso la quale realizzare piccoli o grandi progetti nelle zone, sistemare un’aiuola – chissà perché ci sono sempre di mezzo le aiuole, attivare un cambiamento.

Poi è arrivata l’urbanistica tattica, sia quella dall’alto sostenuta direttamente dal Comune di Milano, sia quella dal basso di gruppi e associazioni locali: qualche giornata di ridisegno totale di uno spazio, con piazze che tornavano a essere piazze e incroci che diventavano improvvisamente sicuri e pieni di verde; oppure bolli e righe che facevano irruzione sull’asfalto grigio di angoli della città che non sapevamo nemmeno più esistessero. Piazze a pois che sbucavano da tutte le parti, e in tanti perdevano tempo a guardare al colore di quelle forme senza rendersi conto che all’improvviso qua e là compariva una città nuova.

L’urbanistica tattica ha avuto l’effetto di alcune scoperte archeologiche che si fanno durante i lavori per le metropolitane: scavi e scopri un mondo nascosto. Qui invece: colori e ti si apre davanti una metropoli.

Ma il bilancio partecipativo e l’urbanistica tattica non sono nulla se paragonati al potere di un altro strumento straordinario che sta davvero hackerando la pubblica amministrazione, come in tanti hanno auspicato succedesse: i patti di collaborazione.

Sfruttando il magico principio di sussidiarietà singoli cittadini, gruppi informali e associazioni possono firmare un vero e proprio accordo con il proprio comune per intervenire su uno spazio pubblico. Le persone ci mettono il lavoro, l’amministrazione ci mette per esempio i materiali, i privati possono intervenire con altri acquisti: si firma, si lavora, e alla fine sbucano angoli di città nuove ovunque.

Nel giro di 3-4 anni il passaggio dal bilancio partecipativo ai patti di collaborazione ha letteralmente messo nelle mani delle persone le chiavi della città. L’aiuola sotto casa, peraltro – e finalmente, non bastava più a nessuno e l’obiettivo sono diventate le piazze, le strade, gli incroci, le terre di nessuno che una progettazione non sempre organica ha creato ovunque nei nostri comuni. Quelle zone di nessuno adesso sono le zone di tutti.

Su questo processo in corso, già molto evidente in città come Milano, è arrivata l’emergenza coronavirus.

Dai primi di marzo sui flussi informativi degli appassionati di mobilità e urbanistica sono iniziate ad arrivare notizie e fotografie da ogni parte del mondo, e il tema era sempre lo stesso: piste ciclabili sperimentali realizzate nel corso di una notte, strade chiuse al traffico motorizzato, interi quartieri riconvertiti in poche ore. 

Non abbiamo fatto in tempo a lamentarci, ah vedi che cosa stanno facendo a New York, Parigi, Londra, Montreal (Copenhagen e Amsterdam non le nominiamo nemmeno), che le stesse identiche fotografie hanno iniziato ad arrivare da Roma, Milano, Torino. Proprio così: nel giro di poche ore o di qualche notte sono comparse piste ciclabili leggere (tracciate con linee sulla carreggiata e senza interventi in struttura) in Italia come nel resto del mondo. E come nel resto del mondo questi cambiamenti non si sono limitati alle biciclette o alle nuove zone pedonali: si sono presi tutta la città.

A Milano a volte sembra di essere nei giorni del Salone e del Fuorisalone, quando installazioni e situazioni riempiono (quasi) ogni angolo della città. Solo che poi l’evento finisce e i tavolini, le spiagge, l’erba (finta), gli ombrelloni e tutto il resto tornano nel deposito dell’agenzia eventi. Quest’anno non abbiamo avuto il vero Fuorisalone, ma le strade si stanno riempiendo di tavolini, sedie, tavoli più grandi, dehor, reti di materassi, piante. 

C’è solo la strada su cui puoi contare, la strada è l’unica salvezza.

Le installazioni del Fuorisalone sono state una versione bella – o fin troppo patinata, a seconda dei punti di vista, dei parking day, quei momenti di protesta e proposta durante i quali al posto di un’automobile si parcheggiava altro: una sdraio e un ombrellone, un tavolino da ping pong o un calcio balilla.

Ecco: adesso sta succedendo. Cioè, per davvero: senza Fuorisalone e senza protesta, semplicemente le persone si stanno riprendendo lo spazio, la città. La strada tutta intera. 

Viviamo in ambienti urbani che sono stati ridisegnati sulle esigenze delle automobili e abbiamo finito con l’abituarci all’idea che le strade siano auto-strade anche in ambito urbano e che quindi sia normale avere pochi metri di marciapiede, poi auto in sosta, poi auto in movimento, poi altre auto in sosta e infine un altro spazietto di marciapiede. Talmente abituati che poi quando quello spazietto viene invaso da altre auto tutto sommato ci sembra normale anche quello. Ci sono intere zone della città, di Milano in particolare, dove la sosta abusiva sui marciapiedi è tollerata, per dire di come stiamo messi.

Adesso che la voglia di avere più spazio coincide con la necessità vitale di stare più distanti, soprattutto all’aria aperta non c’è davvero limite a quello che potrà succedere nelle nostre città.

Uno strumento potente come i patti di collaborazione, le amministrazioni che assecondano la cittadinanza attiva, la voglia e il bisogno di uscire (cit.): le città possono diventare davvero migliori, e in poco tempo. È la fine di un modello di metropoli basata sull’automobile e l’inizio di un percorso nuovo che davvero non sappiamo dove ci potrà portare, ma è un viaggio che vale la pena fare (in bici o a piedi o in monopattino, naturalmente) liberandosi davvero da tutte le abitudini e le consuetudini. 


Marco Mazzei è un giornalista milanese, esperto di strategie digitali e mobilità sostenibile