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Compiti dei Democratici nella fase politica, affermare e comunicare il nostro progetto politico

Stiamo affrontando un momento storico unico e particolare. Abbiamo un macro scenario di una pandemia diffusa a livello mondiale, che evidenzia in modo drammatico il livello di interdipendenza degli umani presenti sulla terra. Il dramma sanitario sta innescando una crisi economica, accelerando alcuni processi regressivi e ampliando i divari economici e sociali. Approfondendo cioè la crisi economica avviata dal 2008, crisi provocata dal modello di sviluppo di impronta neoliberista che ha prevalso negli ultimi trent’anni, contribuendo ad una straordinaria redistribuzione del reddito tra nazioni e all’interno delle singole nazioni, in generale favorendo profitti e rendite, e sfavorendo i salari. Ad una crisi materiale dei meccanismi economici si accompagna una crisi del pensiero e del pensiero politico in particolare, che forse non è all’altezza dei tempi, o che non connette la costruzione di possibili immagini di un mondo migliore e di un futuro più giusto con le pratiche politiche diffuse in Europa e in Italia in particolare. Ed è in gioco a livello mondiale il confronto tra due modelli politici che rappresentano due visioni del vivere insieme: un modello che vuole conciliare il sistema democratico e lo stato di diritto con l’economia cd di libero mercato, e un modello che vuole conciliare sistemi autoritari o a “democrazia limitata” (cd democratura) con il capitalismo attuale. (cfr: Branko Milanovic, “Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro”, Laterza, 2020) È appena avviata una riflessione che possa far emergere, all’interno delle tradizioni religiose esistenti, le risorse spirituali da mettere in comune per affermare i valori della fraternità e della cooperazione umane in un mondo afflitto da divisioni. Per quanto riguarda l’Italia, siamo forse alla fine di un lungo periodo storico di cicli politici ventennali, con le eccezioni delle crisi delle due guerre mondiali. Dopo i primi anni della destra storica al potere (1861-1876), abbiamo avuto il ventennio della sinistra storica (De Pretis e Crispi), il ventennio Giolittiano, il ventennio fascista. In generale i passaggi da un ciclo politico all’altro sono stati drammatici per le condizioni di vita della popolazione. Dopo la grossa cesura della seconda guerra mondiale, abbiamo avuto il ventennio democristiano “puro”, e un ventennio incentrato su una DC declinante che ha oscillato tra centrosinistra e pentapartito (con l’eccezione del triennio del compromesso storico), con un quadro politico sempre più inadeguato a comprendere e gestire le profonde trasformazioni economico-sociali e il mutamento degli equilibri geopolitici globali. Alla crisi del periodo cd di “Mani Pulite” ha seguito il ventennio berlusconiano, che ha accompagnato l’ingresso dell’Italia nel mondo della globalizzazione nel modo peggiore. Arrivando all’oggi, forse i cicli politici si stanno abbreviando, ma gli ultimi anni la sfida e il confronto nel nostro paese sono tra un modello nazionalista (populista e fascistoide) ed un modello di paese democratico, aperto, inclusivo e solidale. Perché possa vincere un modello democratico credo ci sia bisogno di un intenso processo di elaborazione e azione politica, volto a contrastare le derive politiche fondate sull’egoismo per affermare i valori basati sull’altruismo. Per questo la sinistra raccolta nel partito democratico deve impegnarsi a superare una condizione di subalternità culturale subita negli ultimi cicli politici per recuperare la forza intellettuale non solo di contrastare la regressione sociale proposta dalle nuove destre populiste, ma sopra tutto l’immaginazione e l’affermazione di un modello sociale positivo. Questo è necessario per trovare voci che rappresentino i disagi e i divari del nostro paese, ben descritti dal recente rapporto del Forum delle Diversità e Diseguaglianze (F. Barca, P. Luongo, “Un futuro più giusto”, il Mulino, 2020), per coinvolgere nel processo politico e dare rappresentanza a nuovi ceti sociali, alle parti più fragili e svantaggiate della società, in connessione con le energie migliori e con le forze innovative per costruire insieme un progetto che possa essere maggioritario nel paese. Mi sembra evidente come d’ora in poi al fronte democratico e progressista incentrato in Italia sul Partito Democratico (e in generale alla famiglia del socialismo europeo) sia necessario concentrare l’azione politica nella ricostruzione e manutenzione di un mondo di valori politici, culturali e spirituali che possano prefigurare l’immagine di un futuro migliore, di una società più giusta dove si possa vivere meglio salvaguardando l’ambiente. Bisognerà anche sviluppare la capacità di comunicare in modo efficace valori ideali e programmi concreti per arrivare ad ogni fascia della popolazione. Questo vuol dire imparare a parlare alle persone, ai cittadini, nei modi e nei linguaggi che loro possano capire. Per questo immagino che serva una grande alleanza da una parte tra bravi amministratori che hanno il polso dei loro territori e dall’altra con grandi visioni politiche, culturali e ideali per arrivare a coinvolgere le menti, i cuori e gli stomaci dei cittadini. Servirà parlare alla pancia, agli interessi, del grande mondo del lavoro salariato, frantumato e precarizzato negli ultimi anni, rappresentando gli interessi del lavoro dipendente e di quegli artigiani, piccoli e medi imprenditori e professionisti che vivono del loro lavoro. Dovremo ripensare società dove negli ultimi trent’anni è avvenuta una drammatica redistribuzione del reddito a sfavore dei salari e a favore dei profitti e delle rendite. Servirà affermare il valore di una società più giusta. Servirà parlare al cervello, alla mente delle persone, per immaginare una visione ragionevole di un mondo solidale e cooperativo dove si possa mettere al centro della società e della politica la dignità dell’individuo e dei suoi diritti umani individuali, ma anche la necessità di costruire comunità inclusive e solidali dove prevalga la cooperazione rispetto ad una concorrenza feroce. Servirà affermare il valore della libertà garantito da una società dove prevalga il diritto rispetto alla forza. Servirà parlare al cuore delle persone, per condividere la visione di una società fraterna, dove le tante paure che oggi affliggono le nostre prospettive siano contrastati dalla speranza, la speranza di un mondo migliore, più stabile e sicuro perché fondato sulla fraternità umana, sulla regola aurea del “non fare agli altri ciò che non si vorrebbe fosse fatto a se stessi”, sulla comprensione della mutua interdipendenza tra esseri umani e tra mondo umano e mondo naturale, ambiente. Servirà affermare il valore della costruzione rispetto alla distruzione, dell’amore rispetto all’odio, della costruzione di ponti rispetto ai tanti muri divisivi del nostro tempo. Servirà in sintesi una visione politica che sappia farsi carico delle tante divisioni che frantumano la nostra convivenza civile: diseguaglianze salariali, di reddito e patrimoni; diseguaglianze di genere, tra uomini e donne; divisione tra territori, nelle città tra centro e periferia, ma anche tra città e piccoli centri e aree marginali; digital divide tra chi ha mezzi e possibilità di accedere alle connessioni digitali e che ne è tagliato fuori; fratture generazionali tra fasce di età; divisioni tra aree di eccellenza educativa e aree flagellate dall’abbandono scolastico; e infine fratture tra chi ha qualche tipo di garanzia sociale e chi non ha tutele. Per qualcuno potrà essere un “vasto programma”, ma credo sia il compito necessario per dare una speranza positiva e una prospettiva costruttiva alla nostra epoca, per costruire un altro mondo possibile, un mondo migliore a misura d’uomo. Se vogliamo contrastare chi strumentalizza le tante paure di quest’epoca, dovremo esser capaci di costruire quella che la filosofa Martha Nussbaum ci insegna essere il contrario esatto della paura, cioè la speranza (Martha C. Nussbaum, “La monarchia della paura”, il Mulino, 2020). Credo sia il compito dei democratici e dei progressisti del nostro tempo costruire una nuova speranza politica per il nostro paese e per l’Europa.
Luca Pouchain
2 Dic 2020

Subito l’educazione sentimentale e di genere a partire dalle scuole

In Italia, ogni tre giorni una donna viene uccisa. Il numero di vittime di molestie e violenza di genere nelle mura domestiche fa gelare i polsi già solo a considerare i dati che abbiamo in possesso. Un fenomeno tanto meschino quanto diffuso in maniera capillare nel nostro Paese e che interessa tutti gli strati della società. Questo 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, sarà diverso da quelli che siamo stati abituati a celebrare ma, allo stesso tempo, assume un valore ancora più importante. Le misure restrittive messe in campo per contenere il contagio hanno ulteriormente inasprito la condizione di migliaia di donne, costrette a rimanere in casa con i propri aguzzini. Il rischio che spesso si corre in queste occasioni è ridurre la violenza di genere a mero atto criminoso da combattere insegnando alle donne come tenersi a distanza da un uomo violento, come riconoscerne i tratti, insomma, come salvarsi la vita. La questione di genere ha senza dubbio un doppio filo: da un lato la disparità nell’accesso alla vita pubblica, nelle professioni e nelle retribuzioni, dall’altro quello strisciante e becero di una cultura patriarcale che assegna ruoli e funzioni. Nel mondo che ci vuole sempre disponibili, senza orari, costantemente performanti, le donne cadono molto più facilmente nella spirale dell’esclusione, la marginalità e la dipendenza. La stessa lotta alla violenza passa da questi assunti, supportando le vittime e rompere il circolo vizioso della dipendenza economica. Tuttavia, la violenza di genere è, innanzitutto, un fenomeno profondamente culturale. Potremmo addirittura dire che più è forte la rivendicazione della libertà di scelta della donna, maggiore è la manifestazione della violenza – non è un caso che gran parte delle vittime sono quelle donne che hanno scelto di non sottostare, di liberarsi dal circolo vizioso del potere esercitato ai danni della propria persona – maggiori sono i progressi in termini di libertà e diritti riconosciuti alle donne, maggiore è il meccanismo di autodifesa e di autoconservazione del cosiddetto “sesso forte”, l’esigenza, dello stesso, di ripristinare il controllo ed il potere. L’escalation di violenza nei confronti delle donne poggia su una matrice profondamente culturale che assume i tratti di una vera e propria emergenza nazionale. Pregiudizio e segregazione caratterizzano una crescente cultura misogina che vede nella libertà di scelta delle donne una minaccia ad un modello di società che nella definizione di ruoli e funzioni (madre, moglie, donna di casa) esorcizza paure e insicurezze. Basti pensare alle parole che troppo spesso vengono spese per raccontare una violenza, “se l’è cercata”, “era ubriaca”, “indossava una minigonna”, “che ci faceva alle tre di notte in giro” e così via. Donne vittime di violenza e vittime di un giudizio sociale che fa più male dei lividi sul corpo. Oggi più di ieri occorre una risposta collettiva forte che veda insieme donne e uomini e metta al centro l’educazione sentimentale e di genere, che educhi i più piccoli e le più piccole alla reciprocità, al rispetto della libertà, al rifiuto e al fallimento. Occorre rompere quella spirale di presunta moralizzazione ed imposizione che assegna ruoli definiti, dove una donna che non sceglie la maternità è una donna di serie B e una donna che sceglie di essere madre e coltiva i propri interessi e le proprie ambizione non è all’altezza della maternità; una donna che vive la propria libertà relazionale e sessuale è una poco di buono; una donna che manifesta se stessa, che si esprime nella propria creatività, che avanza nel mondo del lavoro lo deve ad altre ragioni e non alla propria costanza. Insomma, dobbiamo innanzitutto sradicare la cultura maschilista e misogina che pervade il nostro Paese. Inserire percorsi educativi di genere nelle scuole dalla primissima età aiuterebbe a rendere sempre più socialmente condivisi concetti come la libertà di espressione, la corresponsabilità, la parità dei sessi nei tempi di vita e professionali, la differenza come valore e motore delle scelte. Ed è questa la sfida che deve necessariamente assumersi una società moderna, giusta e solidale, che coinvolga le donne ma, soprattutto, gli uomini. Ed è anche l’impegno per celebrare al meglio questo 25 novembre. Antonella Pepe e coordinatrice di segreteria PD Benevento e membra dell’Assemblea Nazionale del Partito Democratico
Antonella Pepe
1 Dic 2020

Le quote rosa come inizio del vero cambiamento

Il 25 novembre abbiamo ricordato la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Sicuramente è importante fermarci a ricordare per un giorno, proprio il giorno in cui furono stuprate e uccise le sorelle Mirabel, tutte le vittime di violenza fisica, psicologica e sessuale. Ma è arrivato il momento, anzi direi che siamo molto in ritardo, per parlare di dinamiche sociali e culturali che hanno portato per secoli le donne ad essere escluse da certi ambienti di lavoro, da certi incarichi, dalla vita politica e finanziaria e che continuano a persistere, alimentando il pensiero tossico che le donne sono inferiori. Ho letto moltissimi post e articoli sulle quote rosa e voglio provare a parlarvene in maniera diretta. Se cercate su Google, immediatamente la Treccani suggerisce : provvedimento (in genere temporaneo) teso ad equilibrare la presenza di uomini e donne nelle sedi decisionali. “In genere temporaneo” è un elemento indispensabile. Sulle quote rosa spesso ci si divide o comunque più che dividersi, si tende a dare un giudizio superficiale e veloce, dicendo subito sì o subito no. Anche io giudicai le quote rosa subito, senza approfondire la questione, dichiarandomi contraria. La motivazione che seguiva il mio giudizio era che le donne non sono koala in estinzione, e dunque devono da sole prendersi dei posti liberamente, senza che lo si faccia per obbligo. Ho avuto anche esperienze dirette che mi hanno fatto spesso pensare che l’adozione di misure del genere in realtà trattava le donne come numeri : ce ne servono 3 qua, ce ne servono 4 qua. Ma queste donne erano capaci? Sapevano fare quello per cui si candidavano o contendevano dei posti? Per fortuna ho deciso di studiare e approfondire la questione e mi si è aperto un mondo. Andiamo per gradi. In certi ambienti come la politica, o la finanza o l’imprenditoria, ci sono ancora troppe poche donne. Uno sguardo superficiale non lo vede come un problema, ma come una cosa naturale, una questione di luoghi, attitudini e ambienti idonei alle donne o meno. Senza aprire un altro discorso, attenendoci alle quote rosa, in certi ambienti ci sono poche donne perché sin da bambine le donne vengono educate in una certa maniera dalle famiglie, dalla società e dalla scuola e viene loro prospettato un futuro che riguarda non tutti gli ambiti possibili, ma solo alcuni. Questo meccanismo che si innesca sin da piccole, porta le bambine e poi le ragazze ad intraprendere carriere cosiddette alla loro portata, a scegliere ambiti e lavori che non vanno oltre quelli prospettati. La bimba può diventare parrucchiera, principessa, maestra, dottoressa, o può fare lavori artistici: la ballerina, la pittrice. Insomma, a parte la principessa, tutti lavori che non disturbano nessuno e spesso retribuiti poco. Ai bambini si mostrano altri modelli che riguardano lavori non solo più specifici, ma anche meglio retribuiti, cioè che danno all’uomo potere e visibilità. L’astronauta, per esempio. Non importa se poi realmente la bambina diventa pittrice o il bambino astronauta. Il problema è avergli prospettato già a 4 anni un futuro diverso. Come dire: tu bimba puoi fare massimo cose così, tu invece bambino puoi sognare in grande. Questa cosa non è una favola, è esattamente quello che succede da tantissimo tempo nella nostra società. E allora non vi sembrerà un caso che solo il 6% delle donne in Italia è impiegato nei settori tecnico scientifici, nelle cosiddette STEM. Sono meno brave degli uomini? No. Semplicemente sin da piccole gli vengono prospettati altri lavori, gli viene detto che sono cose da maschi, che ci sono altri lavori più attinenti (secondo non si sa cosa) alle donne. E siccome so che qualcuno porterà l’esempio dell’anatomia della donna in relazione al lavoro che può svolgere, dico subito che Samantha Cristoforetti è una donna astronauta e sta bene, mangia, vive ed è felice del lavoro che fa. Tornando alle quote rosa. Quante bambine vengono cresciute con l’idea che in realtà si possano fare tutti i lavori, che si possa ambire ad una buona carriera – senza essere considerate arriviste – che si possa decidere in grande sul proprio futuro? Poche. E se i dati che provengono dalle scuole ci dicono anzi che le bambine sono più studiose e più attente, e che la dispersione scolastica, le bocciature e il rendimento più basso riguardano per la maggior parte i bambini, allora è evidente che non si tratta di preparazione. Siamo tutte e tutti pronti ad affrontare le cose se le vogliamo ma, soprattutto, se ci viene data a tutti la stessa possibilità di farle. E questo lo dice l’articolo 3 della nostra Costituzione. La Sapienza di Roma, dopo 700 anni di vita, ha eletto una rettrice. Non c’erano donne prima di lei? O non è stata neanche data la possibilità ad altre donne prima di lei di intraprendere questa strada? Badate bene: dare la possibilità non vuol dire che qualcuno abbia detto ad altre donne esplicitamente “no, non ti vogliamo come rettrice”. Si tratta di considerare le donne alla pari e di farle sentire parte di un sistema e non isole, fuori dalle competizioni. Stiamo arrivando alla conclusione del discorso. Le donne faticano ad emergere perché all’interno della nostra società continua a persistere l’idea dell’uomo lavoratore e della donna mamma a casa. Ecco perché certi campi appaiono più maschili, perché semplicemente nel corso dei secoli erano solo appannaggio di uomini e questi se li sono adattati alle proprie esigenze, tanto le donne non lavoravano. Pensate che se gli uomini avessero avuto il ciclo, oggi non ci sarebbe il congedo mestruale? Certo che ci sarebbe. Per secoli certi ambiti sono stati proibiti alle donne, in quanto tali. Per centinaia di anni la società ha deciso che alle donne non dovevano competere ruoli importanti, che potessero sottrarre agli uomini potere e soldi. Ecco perché ancora oggi celebriamo quando una donna per la prima volta assume una posizione di prestigio. Perché per noi è una novità. Ecco perché oggi molte femministe intravedono nell’educazione finanziaria una svolta importante. Se una donna è economicamente autonoma e gestisce le proprie finanze, più difficilmente può essere soggiogata da un uomo. Dicevamo al massimo maestra, al massimo dottoressa, impiegata, parrucchiera. Ma la grandi carriere no. Le grandi responsabilità no. Il potere ancora meno. Basti pensare che le donne in Italia hanno cominciato a votare nel 1946 e che, ad oggi, non abbiamo mai avuto una presidente del consiglio e della repubblica donna, e non perché non ci sono state donne in grado. Dunque, attraverso il meccanismo delle quote rosa si sono sfondate pareti di stanze, o il cosiddetto Glass Ceiling, che erano state da sempre occupate da uomini e che si è riusciti a sfondare solo cosi, ahimé. Attraverso un meccanismo obbligatorio, alcune donne che lavoravano negli stessi ambiti degli uomini, ma che non avevano mai avuto ruoli decisionali, sono entrate nei consigli di amministrazione delle società a portare il loro contributo. In tal senso la legge Golfo Mosca ha introdotto nel 2011 una quota pari a un quinto dei membri per la presenza delle donne nelle società quotate. Questa legge ha una valenza di 10 anni, proprio perché le quote sono modi per sfondare porte chiuse ed entrarci per restarci. In certi ambiti, soprattutto dove si prendono decisioni importanti, non essendoci il punto di vista delle donne, i problemi delle donne non sono stati mai discussi né considerati. Ma le donne non sono una piccolissima minoranza, siamo circa la metà di 7 miliardi. Lo sapevate che l’anno di apertura dell’università agli uomini a Oxford è stato il 1167 e nella stessa università per le donne è stato il 1920? E lo sapevate che il tasso di analfabetismo in certi luoghi del mondo è superiore al 50% per le donne, motivo per cui poi queste non possono fare certi lavori? E lo sapevate che le donne in magistratura sono entrate per la prima volta nel 1963 in Italia, in seguito all’abrogazione della legge 1176 del 1919, che le escludeva da tutti gli uffici pubblici che implicavano poteri giurisdizionali, l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che riguardavano la difesa militare dello stato? Lo sapete che le donne sono entrate in polizia solo nel 1960? E sapete che tra i primi 10 miliardari al mondo non c’è una donna? Tutte queste cose non sono frutto del caso. Sono leggi, sono consuetudini, sono pregiudizi da abolire. Grazie all’introduzione di quote di genere moltissime donne sono entrate in questi mondi prima completamente chiusi a loro. E allora: forse le quote rosa obbligano a considerare la presenza delle donne, senza che questa avvenga in maniera naturale. Ma siccome il mondo si può cambiare solo con le azioni, e non aspettando che il tempo passi, oggi siamo all’inizio, ma ieri eravamo fuori dai giochi. Grazie alle quote rosa in parlamento ci sono molte più donne, nelle società quotate ci sono donne, nei Cda delle aziende ci sono donne, nei comuni ci sono più donne e, grazie a queste, il punto di vista femminile sta cominciando a diffondersi e a portare finalmente un contributo attivo per la crescita del nostro paese, per lo sviluppo globale.
Gloria Di Miceli
30 Nov 2020

Con la pandemia la violenza non va il lockdown

La situazione che stiamo vivendo, l’essere in qualche modo costretti a casa tutto il giorno, inasprisce le convivenze già di per sé difficili aumentando il rischio di violenze domestiche. Per questo, oggi più che mai, bisogna tenere alta l’attenzione sul tema. Per sconfiggere la violenza di genere, occorre un salto di paradigma e occorre smetterla di disseminare parole e discorsi ricchi di visione ma scarsi in concretezza. Il nostro futuro ha bisogno di una reale uguaglianza di genere, di conciliazione di carriera e lavoro, di effettiva partecipazione civile e politica e di condivisione del potere. Solo agendo contemporaneamente in questi ambiti potremo iniziare a pensare di percorrere un effettivo progresso sociale. Se non lo facciamo, se ci voltiamo dall’altra parte, se siamo sordi, se pensiamo che questo non sia il compito di ognuno di noi, allora abbiamo fallito. Non basta parlare di violenza ma occorre applicare quanto previsto in tanti indirizzi politici nella vita reale, nei linguaggi, nei pensieri, nelle azioni, nel nostro piccolo vivere quotidiano. Solo allora percorreremo più velocemente quella strada che in futuro non renderà più necessario dover commemorare la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” perché anche solo il pensiero di poter commettere una violenza nei confronti delle donne sarà rimosso dalle fondamenta del nostro essere. (si ringrazia Silvia Serio Ph e Lucrezia Rosano) Anna Toma è coordinatrice Provinciale di Lecce della Conferenza delle Donne Democratiche
25 Nov 2020

Elezioni USA 2020

“The people of this nation have spoken” Così Joe Biden, il 46° presidente americano, ha iniziato il suo primo discorso da presidente eletto. L’America volta quindi pagina dopo quattro anni di Trump, uno dei presidenti più contestati degli ultimi decenni e, negli ultimi 100 anni, uno dei pochissimi a non vedersi riconfermata la presidenza. Un outsider alla dirigenza Repubblicana la cui politica fiscale in favore del grande capitale ha acuito le già profonde disuguaglianze economiche, la cui politica ambientale ha vanificato vent’anni di lavoro per la difesa dell’ambiente e la cui politica estera, muscolare con i paesi considerati nemici della nazione ma rinunciataria con tutti gli altri, avrebbe voluto ridimensionare la Cina e invece ha sortito l’effetto contrario, allontanando numerosi alleati -compresi quelli, come l’Unione Europea, di più vecchia data-. Una parte integrante della cultura americana è la riconciliazione post elezioni, in cui il candidato sconfitto rompe le ostilità e la tensione della campagna elettorale congratulandosi con il vincitore, per preparare la nazione alla nuova presidenza. Tradizione che Trump ha interrotto, per la prima volta, rifiutandosi di riconoscere la vittoria del suo avversario e optando invece di ricorrere a vie legali per contestare l’esito delle urne. I ricorsi non hanno nessuna speranza di andare in porto, ma gli effetti sulla popolazione sono devastanti; l’88% degli elettori repubblicani ritiene che le elezioni siano state truccate, e una simile sfiducia nelle istituzioni è un duro colpo. Joe Biden è una figura agli antipodi rispetto al presidente uscente: non un outsider vistoso e sopra le righe, ma un politico temprato da quarant’anni nelle istituzioni che ha spesso collaborato con i colleghi del Partito Repubblicano. Dopo una presidenza divisiva e polarizzante, Biden potrebbe rappresentare una figura di conciliatore, atta a riunificare un paese lacerato. Ma chi è il popolo che ha scelto Biden? Iniziamo dalla mappa elettorale Vecchie roccaforti, nuovi swing state: la nuova geografia american Queste elezioni hanno confermato alcune delle storiche roccaforti, ma ci sono state anche delle sorprese interessanti. Storici swing states, come ad esempio la Florida, l’Iowa o l’Ohio, quest’anno sono stati vinti da Trump con un buon margine che però non è bastato per assicurare la Casa Bianca al GOP. Grazie all’espansione delle aree urbane, infatti, altri storici swing states sono diventati sicuri per i dem, come ad esempio Colorado, New Mexico e Virginia. Si sono invece rivelati come swing states l’ex blue wall (Pennsylvania, Michigan e Wisconsin), vinti con facilità da Obama ma oramai sempre incerti, e alcuni stati del sud tradizionalmente repubblicani ma dalle città sempre più progressiste come l’Arizona, la Georgia e il North Carolina. Occhi puntati sul Texas, secondo stato più popoloso e sempre più contendibile, dalle prossime elezioni potrebbe essere la nuova chiave di volta per la presidenza. Si conferma anche negli USA la forte contrapposizione tra città progressiste e aree rurali conservatrici, ma come hanno votato le suburbs, che rappresentano più di metà dell’elettorato? Suburbs e ceto medio: l’America che ha scelto Biden Le suburbs hanno rappresentato dagli anni Cinquanta il simbolo del sogno americano. Sono le classiche villette a schiera monofamiliari rese famose da centinaia di film, in cui ogni famiglia del ceto medio americano poteva permettersi un buon tenore vita ad un costo accessibile. Queste zone hanno storicamente rappresentato lo zoccolo duro dell’elettorato conservatore, ma le cose stanno cambiando. Il ceto medio non ha percepito i benefici della crescita economica sostenuta degli ultimi dieci anni, restando fermo agli anni della crisi. Questo ha favorito uno spostamento verso il partito democratico, culminato in queste elezioni. Prendiamo come esempio la contea di Gwinnett in Georgia, una contea storicamente repubblicana composta principalmente da suburbs dove nel 2004 Bush aveva vinto con il 65.7% dei voti. Negli anni il trend si è invertito fino ad oggi, dove Biden ha vinto con il 58%. La riforma fiscale di Trump ha aumentato la sua popolarità presso i ceti più alti che ne hanno beneficiato; la classe media però non ha raccolto nulla di tutto questo benessere, e alle urne gli elettori se ne sono ricordati. Dal 2016 ad oggi la prestazione di Trump tra gli elettori con più di centomila dollari di reddito annuo è aumentata dal 47% al 54%; fra chi ne guadagna meno invece è passato dal 45% al 43%. Il ruolo dei giovani Una parte determinante in questa partita l’hanno avuta i giovanissimi, gli appartenenti alla “generazione Z”, tra i 18 e i 24 anni. I democratici sono da sempre il partito più votato in questa fascia di età, ma negli ultimi quattro anni qualcosa è cambiato. Questa generazione infatti è più volta scesa in piazza, come ad esempio durante gli scioperi per il clima organizzati dai Fridays For Future oppure le proteste contro la discriminazione razziale da parte dei Black Lives Matter, battendosi per tematiche storicamente di sinistra. Quest’anno il vantaggio democratico è stato molto più netto, passando dal 55% del 2016 al 65%, e questo incremento può essere stato cruciale in alcuni swing state vinti per pochi voti. Le prospettive della presidenza Biden Biden è stato eletto da classi sociali molto diverse tra loro, accomunate da un desiderio di cambio di passo e di riforme. Riuscirà il presidente democratico a imprimere questo cambio? Difficile dirlo; a decidere tutto sarà di nuovo la Georgia che il prossimo 5 gennaio rinnoverà i suoi due seggi al Senato, con cui i dem potrebbero conquistare una maggioranza -risicata, ma maggioranza- da usare per portare avanti le proprie riforme. In caso contrario, Biden dovrà fare numerosi compromessi con i repubblicani, e questo sicuramente influirà sulla sua presidenza. In ogni caso Biden avrà a propria disposizione un anno e mezzo per mantenere le proprie promesse, cioè fino alle elezioni di midterm per il Congresso, in cui gli elettori americani daranno un primo verdetto su questa amministrazione. Autori: Giulio Carignano Pietro Falletto Caterina Renna
Giulio Carignano, Pietro Falletto e Caterina Renna Giulio Carignano, Pietro Falletto e Caterina Renna
23 Nov 2020

Project Management nella PA per il Next Generation EU

Sempre più spesso viene denunciata da più parti una sostanziale mancanza di competenza nella cosiddetta classe dirigente, specie quella politica, e di adeguati profili di managerialità per la gestione di processi e progetti nella Pubblica Amministrazione. Qualche giorno fa ho partecipato ad un webinar organizzato dal PD di Perugia nel quale Mauro Agostini, uno dei relatori ed ex parlamentare della Repubblica, oggi dirigente pubblico, lamentava, evidentemente con cognizione di causa, proprio la mancanza di managerialità nella PA. A questo proposito vorrei porre l’attenzione su un aspetto in particolare che riguarda la possibilità di incrementare il livello di competenza e managerialità nelle istituzioni pubbliche, con riferimento alla diffusione del project management per la gestione dei progetti, finalizzato al raggiungimento degli obiettivi (realizzazione dei deliverables) e alla soddisfazione dei requisiti, gestendo al contempo tutti i vincoli in conflitto, non solo in termini di costi, tempi e qualità, ma includendo rischi, risorse e soddisfazione degli stakeholder. Partiamo da due presupposti: • Gestire un progetto applicando lo standard di project management, comprendendo le personalizzazioni che derivano dal contesto, porta solo benefici; • L’attuale tendenza indica una maggiore diffusione dell’applicazione del project management rispetto al passato, e questo è un buon segno. Prendo spunto, allora, dalle iniziative dell’ISIPM (Istituto Italiano di Project Management) nell’ambito del Forum PA 2020, nelle quali si è rimarcato non solo l’importanza del project management come strumento per la gestione dei progetti, ma anche come nella PA l’utilizzo di questa disciplina sia ancora oggi scarsamente utilizzata, nonostante vi sia stato un incremento di personale con conoscenze se non certificazioni di project management. Uno studio di ISIPM nell’ambito della PA nelle varie declinazioni, mediante l’applicazione di uno strumento specifico messo a punto dallo stesso Istituto, ha evidenziato una scarsa maturità nell’applicazione del project management. Lo stesso Forum Diseguaglianze Diversità sottolinea in una delle sue 15 proposte per la giustizia sociale, la necessità di introdurre nella PA professionalità meno attente al rispetto delle procedure e maggiormente orientate al raggiungimento degli obiettivi attraverso l’inserimento di profili con competenze organizzative e gestionali (questo lo aggiungo io) mirate e più incisive rispetto a quelle che si riscontrano attualmente. Siamo prossimi alla presentazione dei piani per il Recovery Fund nell’ambito del Next Generation EU, vale a dire dei progetti che saranno finanziati e che rientreranno nelle direttrici quali innovazione digitale e tecnologica e transizione ecologica, per citarne solo un paio. Ma come saranno gestiti i progetti? Se partiamo dai presupposti enunciati e dall’analisi che ne è conseguita, vale a dire dalla scarsità di profili manageriali e dalla carenza di maturità nell’applicazione del project management oltreché organizzativa, diventa urgente non solo prevedere un piano di formazione che incrementi le competenze professionali del personale esistente, ma anche l’introduzione di adeguati profili attraverso una selezione mirata che abbia l’obiettivo di breve termine di colmare queste lacune. Come indicazione conclusiva mi permetto di rilevare che ISIPM sta mettendo a punto un modello e relativo percorso formativo con certificazione finale, che coniuga e integra conoscenze, abilità e competenze relative alla euro-progettazione e al project management rivolto proprio alle professionalità che potrebbero gestire in ambito PA i progetti del Next Generation EU.
Sandro Santarelli
23 Nov 2020

Cancellazione del debito: i rischi di un’ipotesi da non scartare

Qualche giorno fa David Sassoli su Repubblica ha parlato di Europa e di possibili riforme. Accanto a proposte condivisibilissime (Superamento del diritto di veto, tasse europee sui giganti del web), una proposta in particolare sta suscitando qualche perplessità: Sassoli propone infatti che il debito contratto durante la crisi Covid venga cancellato. La proposta di Sassoli messa così non è diversa da quanto proposto tante volte in passato (un default) con tutto quello che ciò comporterebbe per chi ha investito in titoli italiani: perdere tutto dopo essersi fidati del pagatore Italia. In realtà, è probabile che Sassoli non intenda proporre un default ma una cosa più specifica: che sia la BCE a cancellare la quota di debito che ha acquistato da marzo a questa parte nel programma PEPP (ricordo: si tratta del programma che permette alla BCE di acquistare titoli di paesi europei al dì fuori delle normali regole di funzionamento). L’idea sembra ovvia: la BCE acquista titoli con soldi che è lei a stampare, se a un certo punto decide di cancellarli cosa perde? In sé la BCE nulla, è tutto il resto che crea dubbi. IL BILANCIO DELLA BCE Innanzitutto, la BCE come qualsiasi ente ha un bilancio con attività e passività e queste due voci devono sempre equivalersi: i BTP acquistati sono attività nello stato patrimoniale della BCE (per capirci, quello che per un’impresa è il capannone in cui opera). Ergo, per cancellarli, bisogna anche ridurre le passività. Qua sorge il problema: la passività della BCE è la moneta. Per cancellare il debito con un colpo di penna la BCE dovrebbe contestualmente prendere e “bruciare” denaro: direi che in una situazione come quella attuale, con crisi di liquidità molto frequenti a causa del blocco dell’economia, non è una strada praticabile. Va bene, ma alla fine diciamo che per ipotesi la BCE possa operare con patrimonio negativo (questo succederebbe se la BCE cancellasse il debito italiano senza allo stesso tempo eliminare una equivalente quantità di denaro), non ci sarebbe proprio modo di farla funzionare? Nessuna azienda al mondo può operare (non per lunghi periodi almeno) con patrimonio negativo, ma effettivamente, andiamo alla ciccia della questione, perché non può farlo? La sintesi estrema è che a nessuna azienda è consentito operare con patrimonio negativo (ovvero una situazione in cui le passività-debiti superano le attività) perché significherebbe che quell’impresa non è strutturalmente in grado di pagare i suoi debiti: se fallisse, anche ipotizzando che tutto il suo attivo venga liquidato ai valori di bilancio (cosa già di per sé impossibile), alla fine qualche creditore rimarrebbe a bocca asciutta. Il divieto di operare con patrimonio negativo è in pratica un modo per porre un limite a quanti debiti può contrarre un’impresa. Ma una banca centrale lavora con tutta un’altra ottica: la banca centrale PRODUCE il denaro alla fine, che debiti deve fare? Quando mai potrà trovarsi in condizione di non poter pagare qualcuno? Immaginate di avere una stampante a casa vostra che produce moneta perfettamente legale: avreste mai problemi a pagare un mutuo? IL RISCHIO INFLAZIONE Ma effettivamente perché non abbiamo una stampante del genere nelle nostre case? Perché il denaro non è un bene come gli altri, non ha un valore in sé, ha un valore in base a quanto ce n’è in circolazione. E se in circolazione inizia a essercene “troppo” (come credo sia palese accadrebbe se tutti potessimo stamparci i soldi in casa) inizia a perdere valore e questo si chiama inflazione. Questo è il vero problema. La BCE non tiene in bilancio i titoli del debito italiano per una qualche perversione di un banchiere tedesco, ma perché servono come sistema per tenere sotto controllo la moneta in circolazione. Immaginate se tra qualche anno l’inflazione iniziasse a salire (che poi vuol dire che salgono i prezzi, e come sanno i non giovanissimi questo può essere un serissimo problema; qui un’analisi dell’Osservatorio di Carlo Cottarelli: https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-pachidermi-e-pappagalli-si-puo-finanziare-il-debito-stampando-moneta) cosa dovrebbe fare la BCE? Avendo ancora in bilancio i titoli del debito italiano può rimetterli sul mercato: gli investitori li acquisterebbero dando alla BCE moneta. E questa moneta l’istante successivo sarebbe cancellata (altrimenti, avendo venduto i titoli, la BCE si ritroverebbe con più passività che attività), riducendo appunto la moneta in circolazione e di conseguenza (si spera, perché non è un’operazione aritmetica ma economica) l’inflazione. Per carità l’inflazione oggi non è certo un problema (non superiamo il 2% che sarebbe il target della BCE da ormai 10 anni), ma un domani potrebbe diventarlo vista l’enorme massa di denaro in circolazione. Inoltre, forse persino più importante, che messaggio darebbe la BCE cancellando debito? Semplice: fate debito tanto ve lo compro io e poi lo elimino con un colpo di penna. Nel giro di qualche anno ci troveremmo con paesi che emettono debito di continuo costringendo la BCE a comprare sempre di più, ergo a emettere sempre più moneta: esattamente le condizioni in cui si crea inflazione. Come detto sopra: alla fine tenere i titoli in bilancio serve come meccanismo di controllo dell’inflazione. UN’IDEA DA RIFORMULARE A modesto parere di chi scrive, l’idea di Sassoli non è folle in sè, ma non è la più efficiente in termini di reale fattibilità (più fattibile sarebbe forse proporre di creare titoli di debito permanenti dell’Unione Europea, tenendo a mente che anche questi comportano il pagamento di interessi). Forse ancor più importante, l’idea di Sassoli rischia di comunicare il messaggio sbagliato al resto dell’Europa: quello della solita Italia che non vuole rispettare gli impegni e che cerca le scorciatoie. In una fase di serrate trattive per Next Generation (a fronte dei veti incrociati di Polonia, Ungheria e quelli potenziali dei Paesi Frugali) forse meglio non dare alibi.
Franco Cibin
23 Nov 2020

Quali problemi, quale Partito

I problemi più rilevanti che l’umanità ha di fronte (questione climatica, diseguaglianze sociali, terrorismo, pandemie) possono essere risolti con un semplice passaggio da cattive a buone amministrazioni? Cioè con la sostituzione di classi dirigenti poco competenti con altre più competenti? Oppure servono classi dirigenti in grado di rivedere il rapporto tra logica capitalista e democrazia (negli Stati e tra gli Stati) e in grado di mobilitare la maggioranza delle persone per agevolare il successo di una diversa visione del futuro? Se Macron si pone tali problemi (vedi intervista al Corriere della Sera del 16 novembre 2020), ancora più dovrebbe porselo una forza di sinistra (o anche di centrosinistra) come il Pd. Se è difficilmente confutabile la tesi che l’Ulivo e poi il Pd, in questi anni, ha rappresentato il più robusto presidio per la democrazia e la sostanza della nostra Costituzione, è anche difficilmente confutabile che di fronte alla grandezza dei temi da affrontare, rischia di essere solo il più alto dei nani. Non si tratta certo di tornare a vecchie forme partito, ma di riprendere alcune caratteristiche dei vecchi partiti, per vedere come inverarle nel contesto storico attuale. Quale caratteristiche? Direi tre: a) un rapporto costante con il mondo degli intellettuali, della produzione culturale, per poter elaborare strategie politiche che tengano conto e siano sintesi innovativa della più avanzata conoscenza del tempo; b) riattivare quella ramificazione di rapporti con i territori e la larga popolazione di essi, per conoscere non solo i problemi oggettivi, ma anche il mondo di percepirli, per essere collegati con il “sentiment” del “popolo”. Questa caratteristica dei partiti del passato, svolgeva un ruolo indirettamente formativo, pedagogico, di penetrazione tra le grandi masse di conoscenze e visioni, che si trasformavano in senso comune. Se il compito della democrazia è anche quello di ridurre il divario tra ricchi e poveri, potenti e inermi, “sapienti” e “ignoranti“, possiamo dire che i partiti di massa hanno contribuito a ridurre anche il divario tra sapienti e ignoranti; c) una modalità di selezione dei gruppi dirigenti, che riduca al minimo il discredito che possono arrecare all’immagine del partito comportamenti inappropriati e che siano in grado di offrire maggiori garanzie di adeguatezza al ruolo partitico o istituzionale assegnato. Se ieri per la gran parte delle persone vi era una carenza di informazione o di capacità di leggerla, oggi vi è un problema di abbondanza e di presunzione di sapienza. I partiti se ieri potevano fare solo divulgazione, oggi devono anche saper dare ordine e senso a una cacofonia di opinioni, ordinare una frammentazione enorme di interessi e visioni. Si pensi solo, per stare in Italia, al problema di come elevare la produttività di sistema del nostro Paese. Si tratta di affrontare nodi storici come la Pubblica amministrazione, il rilancio del Sud, la formazione (pochi laureati, dispersione scolastica, formazione professionale), evasione fiscale, criminalità e corruzione, debito pubblico, assetto istituzionale (efficienza e rappresentatività), lentezza giustizia, ecc. Eliminare inefficienze, sprechi, rendite e forme di corporativismo, significa colpire anche settori sociali che da tali elementi traggono (anche senza condivisione) il loro reddito: come superi le inevitabili resistenze, senza una grande campagna culturale di massa, senza offrire alternative immediate, senza una visione che motivi? Senza le tre caratteristiche del partito sopra richiamate il compito diventa impossibile.
Furio Cecchetti
22 Nov 2020

Il dialogo con i Cinque Stelle passa per una unione di idee e progetti

Salve a tutti amiche e amici, compagne e compagni. Guardo e spero guardiamo con interesse al processo di maturazione politica del Movimento 5 stelle, che si avvia ad una sorta di congresso (Stati generali) dopo anni di insulti e violenze verbali nonchè sgarbi alle Istituzioni democratiche del nostro Paese. Ora , stimando il Presidente Fico e altri , aspettiamo delle scuse e una appunto crescita morale e istituzionale e di responsabilità sapendo che il reddito di cittadinanza ha per molti rappresentato più di un sussidio ma (375.000 da Fatto Quotidiano) un via di uscita dalla povertà. Credo che si vuole fare una alleanza bisognerà discutere prima di temi e programmi (ambiente, salute, lavoro, istruzione, cultura e spettacolo) per una coalizione dei progressisti con alleati le forze di sinistra ed ecologiste senza chiudere le porte a nessuno. Il dialogo e la eventuale alleanza nel 2022 o 2023 o già dal prossimo anno passano per una unione di idee e progetti per una società è più equa e solidale nonché giusta. Speriamo che dopo la votazione su Roussau si apra questa strada consci che sarà faticosa e dura ma che può portare a successi e riforme radicali socio economiche oltre che alleanze.
18 Nov 2020

Sussidio covid per chi è onesto

Ho scritto al Ministero del Tesoro una proposta che vorrei fosse portata avanti dal Partito Dem. Perché non legare il sussidio covid alla dichiarazione dei redditi del 2019? Chi ha evaso prenderà poco e chi è stato onesto prenderà di più. È quanto fanno in Germania. Me lo ha detto mio figlio che lavora a Brema.
Francesca Acquistapace
17 Nov 2020

Come cambiano l’Europa e il mondo con la presidenza di Joe Biden

Da destra a sinistra, possiamo affermare che siano stati davvero pochi i cittadini del nostro pianeta che hanno festeggiato la vittoria di Donald Trump in quell’ormai lontano 9 novembre del 2016, quando, con le sue idee di nazionalismo e protezionismo, riuscì ad avere la meglio sulla sua avversaria democratica Hillary Clinton. Parve allora a molti che la campagna di The Donald si ponesse come obiettivo proprio quello di isolare gli States nel mondo globalizzato. Il problema è che per affrontare determinate tematiche come quello del riscaldamento globale, servirebbe, almeno in teoria, la cooperazione di tutti i leader. Ed è da considerarsi cosa incauta e irresponsabile che il Capo dello Stato più importante del mondo abbia spesso partecipato malvolentieri e con scetticismo ai tanti vertici tenuti su questo argomento, mostrando spesso il proprio dissenso. Ora che è stato licenziato dai cittadini americani, sarà difficile che Trump riesca a mantenere il proprio posto alla Casa Bianca, pur se abbia fatto ricorso contro il voto postale, che in realtà non ha nulla di illegittimo o illegale. La netta vittoria di Joe Biden manifesta proprio la volontà dei cittadini di tornare ad aprirsi al mondo, perché in molti – gli stessi probabilmente che nel 2016 sostennero l’isolazionismo del presidente uscente – hanno ora realizzato che quel tipo di politica non portasse da nessuna parte. Joe si assumerà ora la responsabilità di risanare tutti gli errori commessi da Trump in politica estera, più che in quella interna. Ma, in che modo la presidenza “Biden” sarà favorevole all’Europa e al mondo intero? Sicuramente, Biden, una volta “guariti gli Stati Uniti”, avrà il compito di riprendere parte a tutti gli accordi internazionali abbandonati da Trump, che proprio pochi giorni fa ha fatto sì che gli Usa fossero il primo paese ad uscire dall’accordo di Parigi, il famoso accordo sul clima sottoscritto nel 2015. Il Tycoon si è a lungo battuto, già nella sua campagna elettorale del 2016, per uscirvi, sacrificando la lotta al cambiamento climatico a favore dell’economia industriale. La prudenza e la fermezza di Biden faranno sì che un Paese dove viene prodotta una parte significativa dell’inquinamento globale “torni a patti”, già subito dopo l’inauguration Day, del 20 gennaio 2021. Il neo-eletto, inoltre, cancellerà i decreti presidenziali che hanno favorito un utilizzo di gran lunga superiore alla norma di energie fossili, sempre a scapito dell’ambiente. Un altro tema di cui Biden si occuperà già a partire dai prossimi giorni sarà quello del Covid-19, che ha messo in ginocchio il Paese negli ultimi mesi, a causa della mancanza totale di provvedimenti: circa 10 milioni di casi, migliaia di morti e una Casa Bianca che un mese fa si è arresa al virus e alla sua diffusione. Ora, oltre a rientrare nell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sarà prettamente introdotta una task force per dare all’emergenza un vero e proprio coordinamento, introducendo, ad esempio, l’obbligo di indossare la mascherina. Sarà, per la prima volta dopo anni, anteposta la salute al profitto e Biden farà di tutto per riaprire il dialogo con gli alleati transatlantici, che hanno spesso riscontrato difficoltà a interagire invece con Trump: non dimentichiamo la sua introduzione dei dazi doganali a scapito del vecchio continente, dazi che potrebbero essere rimossi proprio in vista di una nuova collaborazione internazionale. L’ex braccio destro di Obama darà inoltre la propria disponibilità ad aprire i colloqui con l’Iran, Paese con il quale gli States erano ormai sul piede di guerra solo meno di un anno fa, dopo l’uccisione del generale Qasem Soleimani. La condanna di un Presidente moderato e quindi liberal democratico, sarà, a prescindere delle alleanze economiche, nei confronti di tutte le autocrazie, dove non siano garantiti i pieni diritti umani. Anche in questo caso, ancora una volta, agli affari prevarrà la salvaguardia di tutti i cittadini. È stato surreale vedere che proprio il Paese che ha lanciato tra i primi l’idea di un mondo globalizzato per superare i particolarismi si sia improvvisamente chiuso in se stesso. Possiamo così affermare che l’Europa, che si è vista abbandonata e talvolta tradita dal suo più grande alleato, è pronta a riallacciare i rapporti.
Matteo Galasso
12 Nov 2020

Unità dei progressisti

Rilancio l’idea di Giuliano Pisapia di un “campo progressista” che vada da Elly Schelin fino ai liberali di sinistra passando per i Verdi e il Movimento 5 stelle alle prese con una scelta di campo che non può che essere il centrosinistra e da qua una alleanza strategica e programmazione comune. Le spaccature fanno male e consegnerebbero il Paese alle destre sovraniste e populiste. Viceversa se i vari Renzi, Calenda, Bonino e Verdi, Fratoianni e Schlein si facessero portavoce di un senso comune delle battaglie come quella per l’ambiente, il lavoro e la cultura, ricerca e istruzione, i giovani e le donne oltre che della attualissima sanità pubblica a partire dal Mes , allora ci sarebbero le premesse per una coalizione con chi ci sta in grado di competere a viso aperto contro le destre ma la strada passa per la rinuncia alle derive personalistiche e autoreferenziali (il PD non lo è).
12 Nov 2020

La critica alle diseguaglianze è invidia sociale?

In sé, il riconoscimento del merito è ovviamente un valore positivo, specie quando non è confinato alla sola realizzazione personale, egoistica, escludente, senza scrupoli etici e “costi quel che costi”, ma invece approccio collaborante, inclusivo e umile esempio di impegno derivante dalla fiducia in se stessi. Quando il merito è sano e genuino è giusto ed ovvio che vada premiato, che si tratti di un ragazzo volenteroso che dimostra costanza e impegno nello studio o nel lavoro, oppure il mettere a frutto un talento che, lasciato solo a sè stesso, lascia il tempo che trova, fino alla grande azienda che rispetta l’imposizione fiscale senza evadere, investe, assume senza sfruttare e volge un occhio di riguardo alla questione ambientale. Nessuno nega ragionevolmente che il valore del merito personale, o imprenditoriale in generale nei termini appena esposti, vada incentivato e riconosciuto come importante, virtuoso e fondamento di una società sana. Tuttavia è anche giusto evitare di essere fraintesi per non cadere nella facile retorica, sleale e disonesta, che sfrutta il discorso sul merito per scopi ignobili di conservazione acritica dell’esistente, per difendere i privilegi. Spieghiamo meglio. Anche se in parti di mondo la situazione è migliore rispetto al passato, si sa benissimo che lo stato di cose, oggi come ieri, impedisce sistematicamente a tantissime persone di sviluppare quella fiducia in sé stessi e capacità personale, che serve per costruire la propria vita e personalità liberamente, ognuno in base alle proprie attitudini, qualunque esse siano. Una persona che sviluppa intelligenza e sensibilità lo sa, e l’elogio superficiale “a chi ce l’ ha fatta” come slogan, se onesto, dovrebbe premette nel discorso delle cause anche una buona dose di fortuna, perché è la realtà dei fatti… Fortuna riguardo al contesto economico e familiare d’origine in cui si è nati e inseriti, all’ ambiente favorevole in quanto affettivo e incentivante, oppure semplicemente alle agevolazioni di posizione sociale ereditate. Ricordiamo nuovamente che il merito quando c’è va valorizzato e non sminuito in quanto concausa importante e necessaria alla giusta realizzazione personale. Tuttavia, non è mai solo il frutto dell’ impegno personale e rimane comunque una concausa, sono rarissimi i casi di persone che riescono a salire nella scala sociale dal nulla, dalla povertà o emarginazione. Chi dice il contrario, sta mentendo. Questa premessa è importantissima, e servirebbe per dare la giusta dignità al riconoscimento del merito, è una delle ragioni della necessaria, moderata e ragionevole ma incisiva, tassazione progressiva a tanti scalini insieme ad una efficace lotta all’ evasione, da impiegare per i servizi ma anche investimenti, incentivi o deterrenti, per raggiungere il più possibile le pari opportunità, o per lo meno ridurne il Gap, in favore di una maggiore mobilità sociale, cioè il fatto che anche il figlio di un umile lavoratore manuale possa mettersi in gioco e sviluppare talenti e capacità propri. Perché non tutte le ricchezze, carriere, reputazioni e posizioni sociali sono “meritate”, e questo lo sappiamo benissimo tutti. Onestà vorrebbe che nel riconoscimento del merito come valore, questa analisi sia premessa, figuriamoci chi le ingiustizie sociali e classiste le ha vissute in prima persona. Il solo slogan “di chi ce l’ ha fatta” senza quelle doverose premesse, è altamente criticabile perché strizza l’ occhio ad un certo elettorato benestante e privilegiato che per interesse egoistico la butta sempre in caciara con le semplificazioni, facendo passare a priori tutte le problematiche di disoccupazione ed emarginazione sociale come frutto della “nullafacenza” di non meglio identificati parassiti, e cioè l’ estremo della tradizione calvinista, cercando anche di far passare il messaggio che la critica alla retorica sul merito , come è quella contenuta in questo video (Ndr. versione video su you tube), provenga solo da invidiosi “falliti”, o che non ce l’ hanno fatta. E’ ovvio che esistono persone che se ne approfittano del prossimo e pretendono solo di ricevere senza nulla dare in cambio, è fisiologico alla società ma non riguarda la maggioranza delle persone e spesso la sua dimensione è frutto del contesto sociale e culturale di un dato momento storico, non è un fatto “naturale” immodificabile, la stessa società come abbiamo più volte sottolineato è dinamica, non condizione che eternamente rimane per forza sempre uguale, ed è ovvio che sia giusto scoraggiare quella tendenza egoista senza sottovalutarla, specie per le nuove generazioni che hanno maggiore potenzialità di emancipazione e cambiamento, tuttavia difendere giustizia e pari opportunità non è invidia, o banale odio verso “i ricchi” perché le uguali condizioni di partenza non sono una realtà già data, è più spesso il contrario. L’opportunismo che omette l’ analisi sociale nella retorica del merito stimolando orgoglio miope e arrivista, magari tra un condono o una piagnucolante richiesta di “pace fiscale” in favore di già benestanti e a prescindere dal merito, non è propriamente un valore di sinistra, ma ne è abbastanza il contrario. La contestazione, è verso la base del contesto sociale ed economico capitalistico che senza freni o paracaduti tende ad emarginare le persone, e questa tendenza è sotto gli occhi di tutti. Anche se storicamente alcuni lievi e precari miglioramenti ci sono stati, le persone solitamente risultano intimidite e scoraggiate in base allo “status” di provenienza, al luogo di nascita o condizione economica, in poche parole in base a criteri farlocchi e discriminatori. Non sempre la circuizione di incapace che accusa tutti di invidia sociale, con la retorica semplicistica ed ingenua, ottiene gli effetti persuasivi sperati, specie verso le fasce di popolazione più in difficoltà. Ed è pericoloso e spregevole spingere il disagio verso capri espiatori, come quelli che alimentano guerra tra poveri, mettendo in contrapposizione gli ultimi con i penultimi. Una nota importante riguardo alla tassazione progressiva a tanti scalini. I padri costituenti, giustamente, l’hanno inserita nel testo riconoscendone l’importanza. Per semplificare significa che chi ha e guadagna di più, deve contribuire di più con le tasse, e i motivi, oltre agli ovvi e necessari servizi pubblici, li abbiamo appena spiegati, è il riconoscimento della realtà che mostra l’evidenza delle condizioni iniziali come fortemente inique, per ragioni storiche ed ereditarie non sempre caratterizzate dalla giustizia. La questione dei tanti scalini riconosce una giusta gradualità, e servono apposta perché il principio non venga distorto e reso controproducente, l’ incentivo al maggiore impegno e riconoscimento del merito rimane, diverso il discorso quando è fatta con pochi scalini in quanto scoraggia e disincentiva l’ impegno scaricando il peso dell’onere fiscale maggiormente sulle fasce medio basse della popolazione, cosi come è stato negli ultimi decenni, soprattutto in Italia. Detto ciò, è ovvio che con tutta probabilità non si raggiungerà l’ ottimo delle pari opportunità per tutti, ma per lo meno si contribuisce a ridurre le enormi e pericolose diseguaglianze e si pone un freno all’ ingiustizia, oltre che aumentare la probabilità di maggiore possibilità per tutti di emanciparsi dalla propria condizione di partenza (appunto, la mobilità sociale). Per questo le tasse non servono solo a garantire i servizi pubblici, pur importanti che siano, ma per sviluppare una società più sana ed equilibrata, che non significa tutti uguali come automi senza dignità e unicità proprie, al contrario. E’ l’apertura allo sviluppo di maggiori unicità e talenti, possibilmente per tutti. La contestazione che parte dal presupposto che le risorse pubbliche vengano in genere sprecate, fermo restando la ovvia lotta necessaria agli sprechi, che ovviamente esistono, solitamente è un pretesto disonesto, dato che con quella “logica” dovremmo abolire ogni politica economica, seppur moderata, ma anche ogni servizio pubblico, abolire le scuole, gli ospedali, le infrastrutture ecc..in sostanza mandare un paese allo sbando e bancarotta. La seconda tipica obiezione è più razionale e meritevole di attenzione, fermo restando che anche questa viene spesso usata a pretesto per difendere i privilegi. L’obiezione pone l’accento al pericolo che le parti benestanti di un paese, che partecipano attivamente al controllo del tessuto produttivo, a fronte di una giusta tassazione progressiva e lotta all’evasione se ne scappino portando capitali e mezzi all’estero (anche se spesso frutti degli aiuti pubblici precedenti), e questo è un rischio reale. La risposta più giusta non è mai la “soluzione dittatoriale” che illude di impedire questa libertà di movimento (anche se è importante attuare una qualche misura di vincolo agli aiuti) perché oltre che profondamente ingiusta e a rischio di abusi di potere tenderebbe ad isolare un paese contribuendo alla sua rovina, specie quando nel mondo moderno in pochissimi detengono risorse necessarie alla illusione autarchica di chiudersi al mondo, ed é ovvio che le premesse di giustizia sociale debbano accompagnarsi alla graduale unificazione, politica e anche fiscale, dell’ Europa. Solo una dimensione di quel genere, oggi, che risulterebbe economicamente la più grande e forte, é in grado nel mondo moderno di fare da contraccolpo ai grandi interessi economici, ridimensionando in modo più paritario i rapporti di forza negli inevitabili confronti tra la politica e gli eventuali ricatti occupazionali dei grandi gruppi, mostrando anche un virtuoso esempio nel resto del mondo come spinta propulsiva alla collaborazione in quel senso. Tutto questo ed altro sono le argomentazioni che smontano le retoriche demagogiche riguardo alla famigerata Flat tax, cioè tasse basse e uguali per tutti. Oltre a queste argomentazioni, è facilmente dimostrabile che in ogni paese dove si è cercato di smontare la tassazione progressiva le cose non sono andate per niente meglio e gli orientamenti tipicamente di destra che spingono in quella direzione, stanno ingannando le persone, prospettando un grande regalo ai già benestanti, a prescindere dal merito, una mancetta ridicola al ceto medio che ci perde in servizi e mancata mobilità sociale, e una tragedia per le persone più fragili economicamente. La realtà non è già data come paritaria e di eguale condizione di partenza come la destra più disonesta e sleale cerca sempre di spacciare. L’uguaglianza nel diritto, è la strada maestra in cui dirigersi il più possibile, non un obbiettivo già raggiunto.
Giorgio Zorza
11 Nov 2020

La grandezza della vicinanza: l’Italia riparta dalla medicina del territorio.

Oggi più che mai il tema della sanità è di fondamentale importanza e la discussione che ruota intorno ad esso deve porsi nell’ottica di cogliere i moltissimi elementi presenti e le notevoli sfaccettature di un ambiente certamente non semplice. L’emergenza provocata dal coronavirus ha messo sotto pressione gli ambiti più fragili del nostro sistema sanitario: i reparti di terapia intensiva, il sistema di emergenza urgenza, i pronto soccorsi e soprattutto la medicina territoriale. In fondo anni di tagli e inefficienze a vari livelli hanno comportato delle pesanti mancanze sulle maggiori basi utili ad affrontare con più serenità questa fase, nonostante l’impegno e la competenza dei nostri operatori sanitari. L’Italia con i suoi venti sistemi regionali è un Pantheon organizzativo ricco di eccellenze, ma anche di enormi sprechi e di situazioni di grande fragilità. Un esempio è l’organizzazione del sistema di emergenza, il primo ad intervenire sulle criticità, che si differenzia non solo tra regioni, ma anche tra province nell’utilizzo dei mezzi, delle risorse e della qualifica degli operatori. Un caso che raggiunge enormi differenze, si passa infatti per esempio dalle ambulanze con a bordo soccorritori volontari presenti in Emilia e Toscana con l’ appoggio di mezzi avanzati professionisti, a quelle solo ( o in gran parte) medicalizzate della Calabria. Costi e servizi differenti nonostante il paese si chiami sempre Italia. Nell’Italia che immagino nei prossimi anni, la medicina territoriale dovrà tornare ad essere centrale e funzionante. I medici di base, le guardie mediche, il pediatria di libera scelta e tutte le altre figure annesse saranno da potenziare nei numeri in modo da consentire visite a domicilio e un rapporto paziente-sanitario in grado di monitorare le situazioni e liberare la pressione sui pronto soccorsi e i reparti ospedalieri. Un potenziamento che richiederà tempo e che passa per un aumento dell’accesso ai corsi di medicina e chirurgia e soprattutto delle borse di specializzazione. Un altro strumento di grande importanza sarà l’assistenza infermieristica o medica domiciliare per chi ne necessita. Un servizio di qualità che ha dimostrato di essere molto produttivo ed efficiente anche nel rapporto positivo che si crea tra l’operatore e la persona beneficiaria. Un ultimo pensiero va al sistema hub&spoke (centrale e periferico) utilizzato nella costruzione dei poli ospedalieri. E’ dimostrato che avere centri ad alta capacità con personale specializzato sia fondamentale per affrontare le patologie più critiche come gli ictus, i traumi più complessi e le patologie coronariche acute, ma questo non significa che si debba depotenziare completamente gli ospedali di periferia e della montagna, lasciando sguarniti di servizi i cittadini e i residenti di quelle zone. Le scelte politiche saranno fondamentali, ma quando si mette la persona e l’essere comunità al centro, difficilmente risultano poi sbagliate. Davide Nostrini, Consigliere comunale di Maranello, leader d’Italia del futuro e studente al secondo anno presso il dipartimento di Morfologia, chirurgia e medicina sperimentale dell’Università degli studi di Ferrara.
Davide Nostrini
10 Nov 2020

Più impegno sul lavoro precario

Mi chiedo: quanti giovani hanno superato i 35 anni con alle spalle 5/6/7/8 anni di lavoro precario con decine di contratti di somministrazione (il contratto degli schiavi) che grazie al jobs act prima e decreto dignita’ poi e ancora grazie alla pandemia non sono riusciti ad ottenere un contratto a t.i.?. Questi ragazzi avendo superato i 35 anni hanno totalmente perso la speranza di essere assunti dalle imprese che non potrebbero sfruttare le agevolazioni contributive. La mia idea è quella di introdurre un doppio meccanismo di assunzioni con agevolazioni contributive: assunzioni per i giovani under 35 e giovani che pur avendo superato i 35 anni dimostrino di possedere un certo numero di anni di lavoro precario. Si potrebbe pensare a un doppio canale come nella scuola e imporre alle imprese, per ottenere le agevolazioni contributive, di assumere il 50% dei giovani da una apposita graduatoria da gestire presso i centri per l’ impiego. Diversamente, tante generazioni di giovani sarebbero condannati a vivere di lavoro precario. Su queste cose dov’è il PD?; nessuno si degna di una risposta a cominciare da Del Rio e io da iscritto e da tanto ancora mi sono rotto le scatole e sono sul punto di girare definitivamente le spalle ad un partito che ormai non ascolta più, nessuno ed è diventato un insieme di “baroni autoreferenziali”.
Leonardo Di Monte
9 Nov 2020

Lavoro e economia

Da interclassista ho riflettuto spesso su come fosse possibile realizzare una solida cooperazione tra le classi sociali, la gestione del mercato finanziario e diritti come i doveri sul lavoro, da patriota e amante della storia romana ho tratto spesso spunto sulla secessio plebis durante l’età repubblicana e di come i nostri avi ottennero per un lungo periodo l’equità sociale e politica. Ora però dopo secoli della nostra storia sono arrivato alla personale conclusione che più che la cooperazione dovremmo realizzare la strutturale separazione nel mercato e nel lavoro tra le classi laburiste e quelle economiste, dove le prime lavorino come soci e co proprietari di cooperative assieme allo Stato e la sua pubblica e sostituibile direzione messa ad amministrare in modo da evitare gerarchie tra i soci dando ad ognuno la sicurezza para statale sul lavoro e la competitiva produzione sul mercato,queste aziende potrebbero averle ad esempio con la cessione di quelle in difficoltà o anche quelle confiscate dalla legge per non parlare di quelle affermate disposte ad associarsi per poi col tempo costruirne di proprie. Le classi economiste finanziarie assumerebbero quindi solo immigrati ottenendo grossi sgravi fiscali, eliminando le vecchie lotte di classe tutelando i loro nuovi dipendenti i quali avrebbero meno legittime pretese e infine realizzare un concetto di un mercato meritocratico sulla finanza e il fabbisogno di prodotti e professioni economicamente utili… tutto questo potrebbe sembrare utopistico ma come Roma non è stata costruita in un giorno la costruzione è il lavoro di una vita… Buon lavoro e buone idee a tutti
Alberto Conforti
9 Nov 2020

Come riformare la scuola

Troppe ore di insegnamento Mio nipote fa la 2a media.Entra alle 8 ed esce alle 14,mangiando un panino in mezzo.L’attenzione di un adulto decade grandemente dopo 30/40’.Tante ore poco risultato. Troppi compiti scaricati sui genitori a casa. Malgrado ciò, i risultato sono molto scarsi se comparati a livello europeo. Alcune proposte: 1)impariamo dalle buone pratiche di altri paesi. 2)Fare molte ore di esercitazioni di gruppo a scuola E usare anche strumenti didattici alternativi da convalidare subito con esercitazioni. 3)Avvalersi di quanti tra gli studenti sappiano sviluppare didatticamente argomenti. 4)Ridurre di un anno il ciclo delle superiori,come in molti paesi e come tentato in passato da Luigi Berlinguer. 5)Introdurre corsi preparatori di 1/2 anni alle varie facoltà .La selezione per l’ingresso dia sui risultati medi del preparatorio.
Uri Breit
7 Nov 2020

Piano nazionale di azione contro il razzismo

L’Unione Europea si è dotata di un piano d’azione contro il razzismo per i prossimi 5 anni, che poggia su una delle definizioni cardine dell’Unione: “Uniti nella diversità”. Il piano fornisce agli stati membri le basi giuridiche ma anche una cornice culturale comune per progettare le attività a livello nazionale. In particolare invita i paesi a cerare e a mettere in pratica un “Piano nazionale contro il razzismo” entro il 2022. Sembra un piano fattibile nel perimetro della attuale legislatura italiana e sarebbe ottimo se un gruppo di senatrici/senatori e deputate/deputati (possibilmente unendo le forze tra diversi partiti) si impegnasse a raggiungere l’obiettivo.
Marcello Testi
26 Ott 2020

Il ruolo dell’Europa in relazione al mutamento degli assetti politici

Negli ultimi mesi, anche a causa della pandemia, si è aperto incredibilmente un dibattito sul futuro dell’Europa e del Mondo, dal momento che, da un lato in Europa, si è messo in discussione il paradigma ordo-liberale che ha egemonizzato l’azione politica dalla fine degli anni 80 fino ai giorni nostri, dall’altro nei rapporti geo-politici, vi è stato un superamento del bipolarismo “ USA- RUSSIA”, poiché è cresciuta sempre di più la forza contrattuale e politica della Cina, tanto da non dimenticare che nel 2019 si diffondeva il più grande progetto politico di espansione commerciale e sociale della “ Nuova Via della Seta”, con la quale la Cina si proiettava nel mondo Occidentale come interlocutore principale, in contrapposizione alla politica americana. In Europa, ormai l’emergenza pandemica e la conseguente crisi economica ha posto in crisi il paradigma ordo-liberale, che si fondava sui Parametri di Maastricht , per chiarezza qui si riportano: – La stabilità dei prezzi. Il trattato prevede che “Il raggiungimento di un alto grado di stabilità dei prezzi, risulterà da un tasso d’inflazione prossimo a quello dei tre Stati membri, al massimo, che hanno conseguito i migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi”. In concreto, il tasso d’inflazione di un dato Stato membro non deve superare di oltre l’1,5% quello dei tre Stati membri che avranno conseguito i migliori risultati in materia di stabilità dei prezzi nell’anno che precede l’esame della situazione dello Stato membro. – La situazione della finanza pubblica. Il trattato stabilisce che: “La sostenibilità della situazione della finanza pubblica, risulterà dal conseguimento di una situazione di bilancio pubblico non caratterizzata da un disavanzo eccessivo.” In pratica, al momento dell’elaborazione della sua raccomandazione annuale al Consiglio dei ministri delle finanze (Ecofin), la Commissione esamina se la disciplina di bilancio sia stata rispettata in base ai due seguenti parametri: il disavanzo pubblico annuale: il rapporto tra il disavanzo pubblico annuale e il PIL non deve superare il 3 % alla fine dell’ultimo esercizio finanziario concluso. In caso contrario, tale rapporto deve essere diminuito in modo sostanziale e costante e aver raggiunto un livello prossimo al 3% o, in alternativa, il superamento del valore di riferimento deve essere solo eccezionale e temporaneo e il rapporto deve restare vicino al valore di riferimento; il debito pubblico: il rapporto tra il debito pubblico lordo e il PIL non deve superare il 60 % alla fine dell’ultimo esercizio di bilancio concluso. In caso contrario, tale rapporto deve essersi ridotto in misura sufficiente e deve avvicinarsi al valore di riferimento con ritmo adeguato. – Il tasso di cambio, il trattato prevede “il rispetto dei margini normali di fluttuazione previsti dal meccanismo di cambio del Sistema monetario europeo per almeno due anni, senza svalutazione nei confronti della moneta di qualsiasi altro Stato membro”. – I tassi di interesse a lungo termine. Il trattato prevede che “i livelli dei tassi di interesse a lungo termine riflettano la stabilità della convergenza raggiunta dallo Stato membro”. Dunque, si è in una fase ibrida nel Vecchio Continente, in quanto vi è un passaggio dalla rigidità del rispetto dei parametri economici, così da permettere il contenimento e risanamento dei conti dei bilanci statali, ad un nuovo paradigma economico che si basa, sostanzialmente, su uno Stato imprenditore, ovvero un ritorno all’investimento pubblico come fonte di moltiplicazione del reddito nella società. La strada intrapresa con il Recovery Fund che impegna l’Europa nell’aiutare i Paesi membri a determinare investimenti e contenere l’impatto economico che avrà l’emergenza coronavirus, potrebbe andare proprio nella direzione di una nuova visione politica ed economica nel nostro Continente. In precedenza, si diceva che si era in una fase ibrida, proprio per cui vi sono visioni ed orizzonti ancora assai differenti, basti immaginare ai Paesi del Nord Europa che si basano fortemente sui parametri economici come l’output gap, le politiche fiscali restrittive e la stabilità dei prezzi. Philipp Heimberger, economista dell’Istituto di studi economici internazionali di Vienna e dell’Istituto comprensivo di analisi economica (Johannes Kepler University Linz) in un breve passaggio cristallizza interamente la situazione pregressa ed attuale dell’Economia del Vecchio Continente: “Le immagini che abbiamo in mente quando pensiamo all’economia italiana e non solo spesso non sono accurate. La cancelliera tedesca, Angela Merkel, e il suo allora ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble, hanno dato libero sfogo a questi cliché dieci anni fa. All’epoca, anche il gruppo degli economisti tedeschi accettava in gran parte rappresentazioni distorte dell’Europa meridionale, così da evitare di prendere in considerazione una possibile deviazione dal mix di politiche economiche predominante nell’UE – un focus sul consolidamento fiscale e sulla deregolamentazione del mercato del lavoro. Diversi anni dopo, quegli stessi economisti e quella stessa cancelliera possono vedere i risultati di queste politiche controproducenti. La situazione è diventata così acuta che la questione della ricostruzione dell’economia europea dopo Covid-19 ha il potenziale per fare a pezzi l’UE. Ora la Germania, prendendo le distanze dai suoi “quattro frugali” vicini dell’Europa settentrionale, vuole spingere per maggiori investimenti nei paesi della zona euro meridionale attraverso il proposto recovery found, ma servirà molta energia alla Merkel e agli economisti tedeschi per convincere la popolazione dell’Europa (settentrionale) – a causa di quelle false immagini dell’Italia e del sud dell’Europa, distribuite tatticamente nel corso di così tanti anni.”, per cui l’orizzonte che si intravede è quello di una politica che si concentri sulla piena occupazione e su politiche di redistribuzione per una maggiore equità sociale. La fase di incertezza e di ripensamento degli equilibri economici e politici in Europa, causata dalla possibile crisi economica derivante dall’emergenza pandemica , si acutisce anche a livello mondiale, in quanto sono andati in crisi due pilastri fondamentali, su cui si basava l’ordine economico e politico mondiale, ossia il neo-liberismo e l’equilibrio geo-politico che si basava sul primato dell’ Occidente. Ebbene, che il peso degli americani si sia ridotto ovunque nel mondo è un fatto. Nel Medio Oriente per esempio ha ripreso un protagonismo la Russia, che sembrava un Paese emarginato, dopo la caduta del Muro di Berlino e questo riporta al ruolo dell’Europa. Non si tratta per l’Europa di giocare una partita di autonomia dagli Usa. L’Europa è stata forte quando ha spinto gli americani a una politica meno muscolare, più intelligente. Quando ha condizionato gli Usa con la forza della sua tradizione diplomatica, la sua cultura, la sua visione del mondo. In questo momento c’è il problema di definire una strategia del mondo occidentale, la pressione americana spinge perché essa sia una strategia di chiusura e di ostilità verso i cinesi. Suddetta politica potrebbe portare ad una frattura dei rapporti geo-politici, spingendo la Russia a un rapporto di collaborazione sempre più stretto con la Cina. Ma questo nuovo bipolarismo fra Occidente e tutti quelli che non sono occidentali, rischia di essere molto diverso da quello con la Russia sovietica perché quello era un Paese in declino. Oggi, se mettessimo insieme le risorse naturali e militari della Russia con la potenza innovatrice dell’economia cinese ci troviamo di fronte un antagonista molto più pericoloso. Sarebbe una politica lungimirante? A tale quesito è difficile rispondere, in quanto tutto è in movimento e in divenire, sicuramente il cambiamento della politica economica e sociale europea , deriva senz’altro da ciò che sta accadendo nel Mondo. Ecco che anche le elezioni americane diventano dirimenti e snodo cruciale, al fine di comprendere meglio verso quale direzione saremo proiettati. Il ruolo dell’Europa potrebbe essere fondamentale in questo scenario, solo se sarà unita e compatta sia economicamente che politicamente, altrimenti questa nuova “ Guerra Fredda” rischieremo solamente di subirla e di avere conseguenze negative.
Carlo Conte
25 Ott 2020

Come migliorare il sistema del finanziamento ai partiti

Mettere un limite ai finanziamenti privati ai partiti. Questo per evitare che i partiti siano influenzabili e ricattabili da oligarchi e lobby. Quindi per evitare la plutocrazia. Riformare il 2 per mille ai partiti che ovviamente non é uguale tra chi guadagna 100 e chi guadagna 1000. Ogni cittadino deve poter donare la stessa cifra al partito che intende sostenere, altrimenti chi è ricco avrà un partito da lui finanziato più potente. Per approfondire consiglio la lettura del libro “Il prezzo della democrazia” di Julia Cagè, Baldini & Castoldi.
Sandro Della Barba
24 Ott 2020

Elezioni Regionali in Veneto

Si va verso, dopo la direzione regionale del PD in Veneto, un congresso spero aperto di rinnovamento e cambio di passo. Prima di tutto mi piacerebbe partecipare attivamente , portando le mie idee alcuni delle quali le scrivo qui sotto in generale, ma nello specifico vorrei esporle a Rovigo nel mio circolo aime e ainoi chiuso e che deve ancora darmi la tessera fatta online a Maggio. Qui in Veneto c’è stato uno scollamento , dappertutto il territorio, fra il centrosinistra tutto e PD e la gente. Zaia ha abilmente e oltre i suoi meriti capitalizzato il consenso e il Prof.Lorenzoni non è riuscito a portar avanti la sua coraggiosa campagna elettorale. Il mio contributo versa principalmente le condizioni del Polesine, terra ieri e oggi , di emigrazioni e di crisi economica essendo fatta di piccole-medie imprese. La città di Adria e Rovigo hanno amministrazioni civiche di centrosinistra e grazie all’impegno dell’ottimo sindaco di Rovigo Professor Edoardo Gaffeo la città sta rinascendo dopo 9 anni di centrodestra e incuria ( strade, cultura ). Mi piacerebbe che arrivassero investimenti privati e pubblici, grazie all’ottenuta Zls ( zona logistica ) , nel territorio polesano in modo da frenare il calo demografico e rivivesse tutto il Polesine a partire dai piccoli paesi e non solo la cultura nella città di Rovigo che è indispensabile per fare da traino. In sostanza per un Veneto più prospero e un Polesine al centro del Veneto può ripartire la riscossa del PD e del centrosinistra con tutte le sue anime ( sinistra radicale, PD, Veneto che vogliamo e civici ) passando per la ottima amministrazione della città di Padova e Belluno. Occorre partire dai giovani per il lavoro e cultura, e per la politica . I giovani e le donne insieme a le persone già in gamba nel Pd che ci sono devono dare una sveglia al Veneto a partire dalla sanità pubblica tagliata e privatizzata in Polesine e nel Veneto , dalla tutela ambientale trascurata dalla giunta Zaia ( Mose , Pedemontana, PFAS nelle campagne ) e la ricerca e istruzione. I temi sociali e ambientali devono essere la priorità della minoranza a Venezia e del PD che per tornare con il centrosinistra deve ritrovare la sintonia con la gente e con le sue esigenze, senza imitare populismi e demagogie della destra ma offrendo una visione alternativa del Veneto sociale e solidale e competitivo a partire dal lavoro giovanile , sanità pubblica ( come farebbe comodo il MES ) e con incentivi come la ZLS per le picccole medie imprese e artigiani vero cuore del Veneto in crisi che si è rifugiato nelle soluzioni date dalla Lega. Un caro saluto e un augurio al Segretario Nicola Zingaretti e il mio sostegno umano e politico.
Matteo Santato
24 Ott 2020

Legalizzazione Cannabis, ecco perché sarebbe una buona mossa

Terrorizzano i cittadini prospettando l’incremento degli incidenti, della spesa sanitaria e delle tossicodipendenze, soprattutto tra i giovani. La realtà è totalmente diversa, e questo articolo è una sintesi dei benefici che certamente deriverebbero dalla legalizzazione della cannabis, e che spero possa giungere a tutta la classe politica italiana, in particolare al Ministro della Salute, al presidente del Consiglio, e ai due Vice Premier. In realtà, in Italia, la legalizzazione della cannabis porterebbe: 1) Ad un minor consumo proprio da parte dei giovanissimi, che oggi acquistano liberamente da spacciatori. A chi vende illegalmente qualcosa, interessa solo il denaro dell’acquirente e non l’età. In tutti i Paesi in cui la cannabis è legale, ai minorenni è vietato entrare in locali autorizzati alla vendita. E dove esistono attività commerciali che vendono legalmente le migliori infiorescenze di cannabis, non esistono spacciatori illegali. 2) Alla tutela di tutti i consumatori di cannabis che oggi acquistano e consumano un prodotto scarso o addirittura potenzialmente nocivo, spesso mal conservato. Le statistiche dicono che, nonostante le leggi proibizioniste e la dura repressione, siamo tra i primi consumatori di cannabis in Europa. L’elevata percentuale di consumatori non coincide con le percentuali di tossicodipendenti da cannabis, ne tantomeno con casi di morte o intossicazioni gravi per abuso di questa sostanza. Dato l’elevato numero di assuntori, se oggi non vi è alcuna crisi sanitaria nonostante non ci sia alcun controllo sul prodotto consumato, perché dovrebbe essere pericoloso permettere agli stessi di acquistare legalmente cannabis? 3) Ad un incremento dell’introito economico: già la legalizzazione della cannabis light, nonostante sia ancora mal normata, ha portato ad un giro d’affari di 50 milioni di euro l’anno. Il mercato è ancora in crescita, ma non è paragonabile a quello della cannabis illegale che frutta alle mafie oltre 9 miliardi di euro l’anno. Se la vendita di cannabis venisse normata, questi soldi finirebbero direttamente nelle casse dello Stato, ed i consumatori sarebbero finalmente tutelati. In quegli Stati che hanno abbandonato le politiche proibizioniste, come alcuni stati USA e da poco anche il Canada, sono nate centinaia di aziende agricole e attività commerciali specializzate nella produzione e nella vendita di cannabis, e migliaia di persone hanno trovato lavoro. In Italia la conferma arriva dai dati in merito all’incremento delle coltivazioni di canapa e alla nascita di aziende che lavorano e commercializzando cannabis light. 4) A sferrare un duro colpo alla criminalità organizzata che, grazie allo spaccio di cannabis, guadagna miliardi di euro. Tutti questi soldi vengono investiti in mazzette, armi, stipendi per la manovalanza criminale, ecc.; e sono i cittadini che ne pagano sempre le conseguenze più gravi. 5) A dare maggiore spazio alla ricerca e alle cure con cannabinoidi. Dobbiamo infatti ammettere che il forte pregiudizio nei confronti della cannabis ne limita l’impiego: ancora oggi molti medici non conoscono gli effetti terapeutici della cannabis e ne sconsigliano l’uso. Inoltre, portare avanti ricerche sui derivati della cannabis è, logicamente, più difficile che farlo con qualsiasi altra sostanza legale. 6) A facilitare l’impiego terapeutico per risolvere piccoli disturbi in quanto, chi necessita di assumere saltuariamente cannabis per vaporizzazione, senza necessariamente dover essere seguito da un medico, potrebbe scegliere di acquistare liberamente la cannabis che preferisce e che sente più efficace. 7) A liberare la Giustizia da quell’inutile lavoro di ricerca e repressione di chi ama “l’erba”. Sono migliaia le persone che, per coltivazione o detenzione di cannabis, subiscono procedimenti penali o amministrativi praticamente inutili. Il reato di coltivazione è stato concepito da politici che avevano, ed hanno, una visione distorta della realtà. Concretamente, coltivare e consumare cannabis non lede nessuno. 8) A rendere più democratico questo Paese che, sempre meno, rispetta la volontà popolare. Già nel 1993, con un referendum promosso dal Partito Radicale, gli italiani si erano espressi a favore della legalizzazione; eppure oggi sottostiamo ancora a politiche proibizioniste. 9) A sgravare le forze dell’ordine di un lavoro inutile perché, data l’enorme richiesta da parte dei consumatori, ci sarà sempre qualcuno disposto a rischiare per produrre, importare e vendere cannabis. Ed è altrettanto inutile vietare, in modo coercitivo, il consumo di qualsiasi sostanza. Cosa accadde in America, quando vietarono l’alcol? … 10) A cancellare il pregiudizio che molti hanno nei confronti dei consumatori di cannabis, additati spesso come “fattoni” (apatici, stupidi, distratti, pericolosi alla guida, …con un problema da “curare”). Questo porta inevitabilmente all’emarginazione di chi non vuol conformarsi ad una legge che non rispetta la libertà personale. Il vero problema è rifiutare la realtà. Basterebbe ammettere che il proibizionismo ha fallito e che, per ottenere davvero una “riduzione del danno”, non c’è altra soluzione che legalizzare.
Franco Miglio
23 Ott 2020

Eravamo 80 giovani a Tor Bella Monaca: “Vogliamo ricostruire Roma”

Si è svolta ieri mattina al Polo Ex Fienile di Tor Bella Monaca L’asSociata di Roma, assemblea di giovani studenti e attivisti del territorio che si è confrontata con alcuni esperti per elaborare proposte concrete per rilanciare Roma. Abbiamo articolato l’evento su tre tavoli di lavoro concernenti la mobilità, la rigenerazione urbana e le opportunità per i giovani cittadini romani, le cui risoluzioni verranno presentate ai candidati sindaco per le elezioni di Roma 2021. #scriviamoRoma, con questo hashtag noi organizzatori, tutti studenti universitari tra i 19 e i 23 anni, abbiamo invitato i nostri coetanei a partecipare all’evento presso una zona fortemente critica della città, che necessita di importanti riqualificazioni e attenzioni da parte delle istituzioni. La location del Polo Ex Fienile vuole essere un simbolo delle priorità da cui Roma deve ripartire: le opportunità per i giovani che abitano le periferie, la mobilità e il decoro urbano. Con le iniziative de L’asSociata di Roma abbiamo già coinvolto oltre 400 ragazzi negli ultimi 2 anni di iniziative con l’obiettivo di costruire proposte concrete per la capitale, accrescendo il dialogo tra cittadini e istituzioni, e formando i giovani per incidere sull’amministrazione. Collaboreremo questa volta con la Scuola di Politica – Confini al Centro diretta professore di antropologia Piero Vereni, ampiamente partecipata dagli studenti dell’università di Tor Vergata. Paolo Calabresi, noto comico e regista, ha partecipato all’assemblea e ci ha sollecitati ricordando che “la creatività insegna ad uscire dalle macerie, a costo di essere un po’ folli”. Anche Marta Bonafoni, consigliera regionale ha ricordato che “senza cultura non ci sono opportunità per i giovani”. “Siamo a Tor Bella Monaca perché se vogliamo che questa città torni ad offrire le dovute opportunità ai cittadini, non può dimenticarsi delle zone maggiormente colpite dall’assenza di pianificazione da parte delle istituzioni. Abbiamo portato ragazze e ragazzi desiderosi di partecipare attivamente alla scrittura del futuro di Roma”, così abbiamo affermato noi ragazzi de L’asSociata, coordinati dal sottoscritto Giovanni Crisanti insieme a Luca Onori, Lorenzo Ancona, Cecilia Iacometta, Tommaso Sensi, Luca Patrignani, Davide Marinali, Federico Di Costanzo e tanti altri.
Giovanni Crisanti
19 Ott 2020

Con il Recovey Fund una nuova stagione di incentivi ed opportunità occupazionali

La possibilità di erogare sgravi contributivi per le imprese che assumono rappresenta una grande opportunità di impiego di risorse del Recovery fund e di completamento delle riforme sul lavoro lanciate negli anni passati. L’utilizzo di denaro pubblico per favorire le assunzioni si è in passato tradotto in migliaia di nuove assunzioni e, in particolare di assunzioni a tempo indeterminato e il tempo a disposizione di 6 anni dato dal Recovery fund potrebbe, inoltre, consentire di avere a disposizione un periodo di tempo adeguato per stabilizzare le assunzioni nel tempo e non solo in base alla fruizione dell’incentivo (che è stato anche un limite delle agevolazioni collegate al jobs act). Già in passato è stato utilizzato il profiling della Garanzia Giovani per suddividere gli incentivi all’assunzione in ragione dell’indice di svantaggio del disoccupato e già oggi nei Centri per l’Impiego ogni disoccupato che si iscrive viene profilato in ragione della condizione familiare e del livello di istruzione. Se è vero, infatti, che sono i giovani coloro che hanno maggiormente sofferto e che soffrono la carenza di lavoro post crisi economica e per la pandemia in atto, dall’altro ci sono categorie di soggetti (30 –40 enni) che sono esclusi da qualsiasi sgravio o incentivo assunzionale (apprendistato – incentivo occupazione giovani ex Garanzia Giovani – fino a 29 anni) e lavoratori disoccupati over 50 spesso con difficoltà occupazionali che si aggiungono alla mancanza di qualificazione o competenze nell’utilizzo di tecnologie. Per questo motivo bisognerebbe integrare l’esigenza di inserimento lavorativo tra tali fasce di età con differenze date dalla situazione individuale di ciascuno disoccupato, agendo sia sul lato della presa in carico dell’utente, che su quello del contratto di lavoro. A tale fine sarebbe auspicabile la possibilità che, per alcune tipologie di utenza in inserimento o reinserimento lavorativo e a seguito di un certo numero di mesi di stato di disoccupazione, sia previsto un contratto di inserimento con sgravi e facilitazioni nei primi anni di lavoro e con penalizzazione economiche o di diniego di possibilità di assunzioni agevolate per l’azienda che abusasse dello strumento. Andrebbe, inoltre, ridefinito lo strumento dell’apprendistato, da utilizzarsi come contratto formativo a qualsiasi età purché il lavoratore non abbia avuto esperienze professionali pregresse per le medesime mansioni. Per quanto riguarda il lato della presa in carico dell’utente, invece, si andrebbe a colmare la grande lacuna delle riforme passate (Jobs Act, reddito di cittadinanza) ossia quello della piena attuazione del Dlgs 150/2015 e delle politiche attive del lavoro da collegarsi agli incentivi ed alle politiche passive. La presa in carico del disoccupato da parte del servizio competente (i Centri per l’impiego che vedono in questi anni una profonda opera di potenziamento in termini di personale) consente al sistema di conoscere le competenze, le abilità, il livello di istruzione, la situazione familiare, il percorso lavorativo e le aspirazioni dell’utente. Ciò permette di creare percorsi assunzionali per il disoccupato ed individuare target di occupabilità e maggiori incentivi evitando erogazioni a pioggia di contributi alle aziende. Ci sono, infatti, figure professionali maggiormente ricercate, come, ad esempio, la manodopera specializzata e gli ingegneri nel settore meccanico che verrebbero assunti anche in assenza di incentivi o con incentivi inferiori, mentre in settori in difficoltà o in crescita o per soggetti più svantaggiati sarebbero necessarie maggiori facilitazioni per favorire le assunzioni. Il sistema della profilazione (o profiling) adottato per la Garanzia Giovani ed adesso anche per i disoccupati che si iscrivono ai Centri per l’Impiego sarebbe di grande aiuto per l’individuazione dei target di erogazione e, agendo sugli indici di svantaggio, permetterebbe una differenziazione economica del contributo, tanto più alto quanto è maggiore la situazione di svantaggio economico, sociale, formativo e lavorativo del disoccupato – da collegarsi anche con l’erogazione di ammortizzatori sociali universali ed una revisione del sistema di collocazione al lavoro dei percettori di reddito di cittadinanza, che attualmente non ne facilita l’occupabilità. In tale contesto, relativamente al reddito di cittadinanza, si è pensato che il solo “magico” ricorso ai Navigators consentisse di creare opportunità di lavoro per i disoccupati, quando in realtà è necessario prima costruire un contesto favorevole in cui vengano messe in trasparenza le opportunità occupazionali di un territorio e finanziate politiche attive ed incentivi funzionali alle assunzioni. Il sistema di incentivi permetterebbe, agendo sui vari indici, di favorire agevolazioni non solo per target di età (18 – 25; 25- 30; 30 – 40 per ipotesi) o genere o svantaggio (percettori di reddito di cittadinanza, disabili, categorie protette, donne disoccupate di lunga durata, famiglie numerose, percettori di Naspi), ma anche per settore (esempio possesso di qualifiche in settori innovativi o sui quali si vuole incentivare la crescita tipo quelli della promozione culturale o della salvaguardia del territorio) o un più forte incentivo legato alla partecipazione ad una politica del lavoro proposto dal servizio o legate a settori che hanno più fortemente subito la crisi dovuta alla pandemia (ad esempio turismo, piccola e media distribuzione). Si passerebbe, inoltre, da un sistema orientato al contributo generalizzato all’azienda, come avvenuto in passato, ad un sistema orientato alla presa in carico ed alla definizione di un progetto di inserimento lavorativo per il disoccupato che diviene così portatore di una facilitazione, agendo sullo stesso in termini orientativi e di supporto alla ricerca attiva del lavoro. Tale massiccia opera di profilazione dovrebbe essere coordinata a livello di standard e di costruzione della banca dati unica da parte di ANPAL. La gestione della profilatura degli utenti sarebbe in carico ai CPI pubblici, mentre possibilità di fruire della banca dati dei profilati dovrebbe essere concessa a tutti i servizi pubblici e privati accreditati, in ottica cooperativa e di gestione di una unica banca dati generale anche per quanto riguarda le proposte di lavoro. Ciò permetterebbe anche un avvicinamento del sistema delle imprese a sistemi formali di ricerca del personale che favoriscono la trasparenza del mercato del lavoro agendo sull’80% di assunzioni mediante sistemi informali che oggi sfuggono all’intermediazione pubblica e privata. In tale contesto occorre un nuovo e più autorevole ruolo dell’agenzia nazionale ANPAL (che dovrebbe assumere anche alcune funzioni legate alla gestione di incentivi e ammortizzatori sociali oggi in capo all’INPS) superare il modello (?)Missisipi che non si è attivato per trovare lavoro ai percettori del reddito di cittadinanza ed utilizzare un sistema più “europeo” fondato semplicemente, come avviene nei paesi dell’Europa del Nord, sulla corresponsabilità del sistema economico nel costruire un mercato del lavoro solidale e trasparente: lo stato fornisce alle imprese gli strumenti di politica attiva per formare i lavoratori nonché i contributi economici per assumerli, le aziende forniscono periodicamente una ricognizione telematica ai soggetti pubblici competenti sui propri fabbisogni assunzionali per consentire un migliore orientamento dei disoccupati e di realizzare politiche formative mirate e coerenti con le necessità aziendali. Tali fabbisogni fanno parte di una banca dati tenuta dai servizi pubblici per il lavoro ed a disposizione dei disoccupati e del sistema economico, formativo, scolastico ed universitario. Ciò permetterebbe di far uscire la cultura di impresa dalla (brutta) abitudine tutta italiana di un massiccio utilizzo di canali informali per far incontrare domanda e offerta di lavoro, cosa che non favorisce il libero mercato ma, al contrario, il ricorso ad una cattiva flessibilità fatta prevalentemente di lavoro precario, demansionamento, finti part time, finti tirocini formativi fino ad arrivare anche al lavoro nero. Costruire un mercato del lavoro più trasparente e solidale consentirebbe di attribuire un ruolo diversicato ed una maggiore importanza sia alla funzione di regia delle istituzioni pubbliche che operano nel mercato del lavoro sia al privato autorizzato che opera nell’intermediazione, diversificandone le funzioni secondo una logica cooperativa e non competitiva. Christian Biagini si occupa di Servizi Specialistici di Orientamento, tirocini e politiche del lavoro presso ARPAL Umbria. È attualmente Commissario provinciale del PD di Perugia
CHRISTIAN BIAGINI
9 Ott 2020

Più coraggio nella riforma fiscale

Mi pare sia giunto il momento opportuno per avviare il cambiamento necessario alla legislazione fiscale. credo che sia indispensabile una dose di coraggio ( non ho ancora percepito una ferma volontà in proposito) per cancellare le innumerevoli forme di detrazioni e di deduzioni che permettono , l’elusione a favore dei grandi contribuenti credo, inoltre, che solo una contestuale riduzione delle aliquote possa aumentare il parco contribuenti fra piccoli e medi imprenditori assisterò con grande soddisfazione al passaggio dalle enunciazioni a quello dei provvedimenti concreti
Libero Baccini
9 Ott 2020

Un vero campo progressista

Di fronte al dilagare in Italia delle forze di destra populiste e sovranista a tratti illiberali (voto contrario alle sanzioni alla Bielorussia e sempre contrarie eccetto Forza Italia alla condizione di ricevere aiuti con il Recovery Found solo se si riconosce lo Stato di ottenuti nelle elezioni Regionali e amministrative ancora in corso urge una alternativa politica, in Italia e in Veneto come caso lampante dove il segnale politico è chiarissimo. L alternativa non può che essere un campo largo progressista con le forze europeiste e liberaldemocratiche ed ecologiste e di sinistra con al centro come perno il partito del PD oggi leader del centrosinistra e avviato dopo la segreteria di Nicola Zingaretti, nonostante le scissioni, ad essere primo partito politico italiano. Non basta radunare le forze e movimenti politici occorre al Governo imporre un agenda riformista di natura sociale , economica e ambientalista a partire dal Mes per la sanità pubblica e il Green New Deal per la transizione ecologica. Le riforme che verranno assieme al Recovery Found devono permetterci di dare una spinta riformista di sinistra al Governo e al Paese nel senso di equità e competitività per uscire dalla crisi economica e pandemica forti e pronti alla successive sfide. C’è l Italia del futuro in gioco che deve vincere le sfide politiche e sociali con entusiasmo e lungimiranza. Dobbiamo lavorare tutti in piccolo o in grande in questa direzione. A partite dai territori, dai bisogni delle persone e della odierna società come detto prima più aperta, equa e solidale. A voi tutti amiche e amici , compagne e compagni in bocca al lupo e buon lavoro!
Matteo Santato
9 Ott 2020

Un position Paper su clima e ambiente

Sono un tesserato del PD di Mestre e faccio parte dell’Ordine degli Ingegneri di Venezia, commissione Ambiente e Clima. Questo contributo è per dire che l’Ordine ha pubblicato un Position Paper dal titolo “Carta di Venezia Climate Change” (che ho scritto io nell’ambito della commissione, ndr) il sui senso è: ok che ONU e IPCC e l’Accordo di Parigi etc hanno detto che occorre azzerare le emissioni nette di CO2 entro il 2050 era etc; ok che l’opinione pubblica (e non solo) non ha ancora capito cosa sta succedendo; ma, stanti questi obiettivi, COME SI FA e CHI STUDIA per passare dagli obiettivi a progetti concreti, temporizzati e con costi e risultati noti? La politica a chi si affida e come? Bene, serve mettere insieme gli economisti, gli scienziati, i sociologi, i filosofi e, con tutta ovvietà, anche gli ingegneri, ovvero le grandi società di ingegneria: per produrre le linee operative, anche alternative, e i progetti conseguenti, in collaborazione con le altre discipline necessarie. La politica quindi potrà scegliere MOTIVATAMENTE seguendo i percorsi più efficaci, con cognizione di causa. Il documento si trova qui: https://ordineingegnerivenezia.files.wordpress.com/2020/07/documento-carta-di-venezia-climate-change-web.pdf Su youtube, digitando marino mazzon esce la presentazione del position paper che ho fatto al convegno organizzato dall’Ordine alla Scuola di San Rocco a Venezia il 23 luglio. Ed è fatto per sollecitare la politica a decidere; e l’opinione pubblica a capire. E in sostanza, la soluzione del problema è sì complessa, ma è senza alcun dubbio una eccezionale opportunità: come dice la finanza, non sono solo “costi” ma soprattutto “investimenti” e, soprattutto, servono a ridurre i costi mostruosi conseguenti al fare poco e lentamente oggi per poi non poter farci più nulla fra solo dieci anni e trovarsi a riparare danni sempre più grossi e senza poter più recuperare l’obiettivo dei 2°C . Solo che non è che i progetti escono come il coniglio dal cappello: ma servono strategie (l’Europa si sta dando molto da fare) ma poi studi di scenario, analisi delle conseguenze, definizione dei progetti e dei risultati attesi CONCRETI, costi, tempi! E, appunto, soggetti da coinvolgere. Come facciamo a che il PD ne faccia una bandiera vera, prioritaria non solo a parole, e si procuri i molti consensi in più che, se ben comunicata ai cittadini, questo può portare? E’ il caso di fare una specie di task force? CE l’abbiamo già? Io sono spesso a Roma e ogni tanto (ovvero raramente) incontro per caso sia con Nicola Pellicani che Andrea Ferrazzi: ma loro sono politici, e io sono un ingegnere ma rappresento la categoria.
Marino Mazzon
9 Ott 2020

Basta aspettare per il Mes

Utilizzare il MES per migliorare il servizio Sanitario Nazionale. Centralizzare nuovamente alcune funzioni per evitare litigi regionali. Aumentare il servizio a domicilio.
Lastene Bevoni
7 Ott 2020

Digitalizzare tutti i Comuni con la fibra

Necessario digitalizzare con la fibra tutti i Comuni e non solo. In particolare anche le frazioni importanti e soprattutto quelle che hanno zone artigianali o industriali. Abito in una frazione (Fiumana) del comune di Predappio e c’è una zona artigianale importante. Lavoro come Libero professionista e soffro in maniera particolare la mancanza di rete ad alta velocità. Nonostante sia servito da ADSL, il disservizio è notevole. A volte per caricare lavori consistenti ci vogliono ore.
Lastene Bevoni
7 Ott 2020

Come aiutare i disoccupati

Fare uno studio psicologico per i disoccupati e/o inoccupati simile agli alcolisti anonimi. I disoccupati anonimi dovrebbe dare un supporto psicologico a chi non cerca più un lavoro per aiutare a capirne il motivo, aumentare la propria autostima e a trovare il proprio talento
Ezio Gava
7 Ott 2020

Nino Spirlí, come mascherare le offese dietro alla libertà di espressione

“Diró negro finché campo”. Nino Spirlí sta tentando di far passare il discorso che ha tenuto qualche giorno fa a Catania, durante un evento organizzato dalla Lega, come una manifestazione della sua libertà di pensiero. Non si possono però mascherare e confondere le offese con la libertà di espressione. Le parole “negro”, “ricchione” e “frocio” utilizzate dall’onorevole Spirlí nel corso del suo discorso, hanno un’accezione totalmente dispregiativa e sono quindi delle offese. Un vicepresidente di regione non si sognerebbe mai di dare dello “stronzo” a qualcuno pubblicamente, perché è un’offesa. La stessa cosa dovrebbe valere per i tre termini succitati. Sono offese. Ci sono altri modi, per nulla dispregiativi, con cui si può parlare degli omosessuali e delle persone di colore. Perché non utilizzare quei termini, quindi? Non è un mistero che nella lingua italiana, due sinonimi possano avere accezioni completamente differenti: dire di una persona che è “semplice” ad esempio significa esaltarne l’umiltà, la purezza, le sue qualità. Dire alla stessa persona che è “facile” vuole significare tutt’altro. Non ci nascondiamo dietro a un dito. Il discorso di Nino Spirlí era incentrato proprio sull’importanza delle parole, perché – ritiene – chi vuole coprire la nostra cultura inizia dalla nostra lingua. Forse però dovrebbe imparare lui per primo a cogliere il significato e l’importanza dei termini che utilizza. Nel suo privato può parlare come vuole e con chi vuole e dare conto solo alla sua coscienza, quando ricopre un ruolo istituzionale no. Perché se un vicepresidente di Regione e assessore alla cultura non capisce il significato e non coglie il valore e l’accezione delle parole di cui fa uso corrente, forse non è in grado di ricoprire il ruolo che ricopre.
Maria Francesca Amodeo
6 Ott 2020

Lo Ius soli è un tassello culturale fondamentale

Gentile segretario Zingaretti, da osservatore di sinistra della politica italiana, ritengo sia profondamente necessario mettere mano ad una legge che esca fuori dal palazzo e dalle sue strettoie ideologiche. Lo Ius Soli è un tassello culturale a mio avviso, che segna un discrimine forte fra il PD e la Lega. Dobbiamo essere in grado di imporre noi la ricetta dell’inclusione e dell’immigrazione. Adesso. Onde evitare nuove aggressioni come quella di Colleferro.
Lorenzo Ricciuti
5 Ott 2020

Puntare di più sul progetto Erasmus

Dal 1957 la formazione della comunità ha fatto passi avanti come ci ha narrato Sergio Fabbrini con i suoi editoriali. Di recente si è verificata anche una accelerazione verso la creazione di una Europa politica che possa decidere su alcune materie precise. Si avverte che ancora la Ue non è conosciuta tra i cittadini e che gli stati stentano a delegare le decisioni. Ritengo che uno degli strumenti per favorire la conoscenza-crescita sia il progetto Erasmus. Per questo seguendo quanto ci dicono Sassoli, Gentiloni e Tinagli suggerisco di curare il progetto Erasmus e ampliarlo come diceva Umberto Eco.
Marta Lazzeri Morelli
5 Ott 2020

Contributo per disabili e invalidi civili

Buona sera, vorrei portare il mio contributo per i disabili e invalidi civili. Sarebbe concreto e bello aumentare il limite di reddito per gli invalidi civili che ricevono la pensione gia a partire dal 75%, aumentare il reddito a 12000 euro. Cosi chi lavora part time come me che ho l’invalidità civile, può pagarsi medicine e psicologa, tenere una pensione di 350 euro
Giulio Boccardo
2 Ott 2020

Un nuovo passo da imprimere a riforme e progetti

cara immagina, caro Pd, letto il commento di Folli su la Repubblica e l’esito della assemblea di Confindustria, si vede che il Pd è nella condizione di battere un colpo per far valere la sua centralità nella azione del Governo.Tutti parlano di un nuovo passo da imprimere a riforme e progetti nel segno della Ue.LLed allora la ennesima task force promessa a Confindustria la incardinerei sui competence center: Manufacturing 4.0, che fa capo al Politecnico di Torino,Made in Italy 4.0, cui ente capofila è il Politecnico di Milano,BI-REX, ente capofila Università di Bologna,Artes 40, Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa,SMACT, Università degli studi di Padova,Industry 4.0, Università degli Studi di Napoli Federico IIStart 4.0, che vede come ente capofila il CNR – Consiglio nazionale delle ricercheCyber 4.0, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.http://www.protezionecivile.gov.it/servizio-nazionale/attivita/previsione/centri-cnati con la legge industria 4.0 per favorire progetti di aziende grandi e pmi e molto qualificati. Quanto alla fase del dopo SI al referendum offrirei al M5s la possibile riforma già preparata ed aggiungerei una nota per eliminare/migliorare il problema dei tempi  decreti attuativi. Al festival della economia di Trento Rizzo e Boeri hanno descritto situazioni al limite per ritardi fino a due anni nella approvazione dei decreti, senza controlli da parte del Parlamento.saluti Ruggero Morelli
Ruggero Morelli
1 Ott 2020

Chiedo un referendum per la Repubblica presidenziale

Un gruppo di 70 parlamentari – per la loro convenienza – hanno indotto il popolo italiano a un referendum che- secondo gli economisti – costa alcune centinai di milioni di euro. A parte la mia avversione ai predetti mi domando che, per quale motivo, i nostri parlamentari devono ricevere una remunerazione superiore ai corrispondenti parlamentari europei. Allora adesso dobbiamo tagliare le competenze lucrose che ricevono, alle quali dobbiamo contribuire con il pagamento dei tributi in modo vessatorio. Va osservato che dobbiamo corrispondere le spese per i parlamentari europei, statali, regionali, provinciali, comunali e ai CdA di 10.000 circa di enti sparsi per il nostro territorio. Adesso basta, è giunta l’ora di finirla, abbiamo circa 2.500 mld di debito a carico della nostra new generation. Abbiamo uno stato sprecone con retribuzioni superiori a quella del nostro Presidente. DOBBAMO FARE ECONOMIA FINO ALL’OSSO e modificare la carta costituzionale oramai superata ! Chiedo un referendum per la Repubblica presidenziale (Come in Francia o gli USA) e non parlatemi di democrazia vilipe
Ugo D'amico
25 Set 2020

E adesso? Si ridia coraggio al partito

Ce l’abbiamo fatta. Questa settimana abbiamo ottenuto un grande risultato che premia mesi e mesi di duro lavoro portato avanti strada per strada, quartiere per quartiere da tutti i nostri candidati e dai nostri militanti. Abbiamo messo davanti il bene della collettività rispetto a molti impegni della nostra quotidianità per concentrarci sulla campagna elettorale e siamo stati premiati dagli elettori; bisogna andarne fieri. Salvini passerà quel che resta di settembre a leccarsi le ferite, mentre i leghisti si sono già chiusi nel palazzo a cercar di capire cosa sia andato storto. Ma non sprechiamo altro tempo a parlare di chi ha approfittato di queste elezioni per parlare di presunti gatti arrostiti piuttosto che di rilancio del territorio, per offendere le donne piuttosto che cercare soluzioni per il divario di genere causato dalla pandemia. Parliamo di noi, perché, sebbene ora sia il momento dei festeggiamenti, non dobbiamo scordarci che il vero lavoro inizia adesso. Mi viene in mente la parte iniziale dell’Eneide e l’esultanza dei Troiani: pensando di essersi liberati finalmente dall’assedio degli Achei, vollero solo far festa, accogliendo addirittura un dono lasciato dai nemici con conseguenze disastrose. Giunta la notte non si resero conto che il nemico non era affatto sconfitto e il resto è storia nota: il sole era sorto e i Troiani da vincitori, ancora ebbri della loro vanagloria, si risvegliarono vinti. Abbiamo vinto le regionali, siamo il primo partito in città e provincia, i nostri candidati hanno fatto il pieno di preferenze e adesso? Come successe in Emilia-Romagna le promesse populistiche e irrazionali dei grillini non reggono la prova delle urne, mentre la lista “Toscana più a sinistra di” viene bocciata dall’elettorato anche in presenza della possibilità del voto disgiunto. Quindi chi, adesso, se la prende con gli elettori, accusandoli di aver preferito il cosiddetto “voto utile” piuttosto che “di cuore”, non si rende conto che questa sconfitta è frutto di anni e anni di scelte sbagliate in cui certe formazioni hanno preso sempre più la forma di grandi comitati elettorali. Infatti l’obbiettivo non sembra quello di un progetto a lungo termine, ma piuttosto quello della rielezione del proprio rappresentante in attesa della prossima tornata elettorale, nella quale si replicherà questo solito schema. Peccato invece per Sinistra Civica Ecologista che per una manciata di voti non entra in Consiglio, ma che in questa corsa ha avuto un ruolo fondamentale come collante con un mondo che necessitiamo di recuperare. Da questa vittoria la nostra comunità ne esce rafforzata e più unita, dal livello regionale a quello nazionale. Ma che ne è del Partito Democratico della Federazione di Pisa? Con il 34,3% di voti in provincia noi militanti del Partito Democratico pisano non possiamo tirarci indietro di fronte al compito che i nostri elettori ci hanno affidato. I risultati parlano chiaro: non esiste niente fuori dal Partito Democratico, gli elettori non hanno fiducia nei progetti alla LeU e chiedono a noi uno scatto di qualità. Non possiamo sprecare questa bellissima opportunità, ci sono state date le forze e il sostegno per recuperare il nostro coraggio. Accontentarci di questa vittoria sarebbe un errore, come ha scritto la consigliera Olivia Picchi “ora è necessario che il PD pisano divenga di nuovo quel partito aperto e plurale formato dalle persone e non da una somma di leader”. Nel nostro PD nessuno è escluso, a nessuno si urla “a casa a casa”, ma ci si viene incontro a metà strada prendendo il meglio e peggio di ognuno di noi. Il partito è uno solo ed è rappresentato dalla collettività, non dai personalismi, è quella “piazza grande” che con il 66% dei consensi ha stravinto le primarie nel 2019 e da cui nessuno deve sentirsi rifiutato. Dobbiamo adesso guardare fuori di noi e lasciarci contaminare da quelle esperienze virtuose che sono i Fridays For Future, i movimenti femministi, i vari comitati cittadini, ma soprattutto dobbiamo tornare ad ascoltare: chi ha partecipato ai tanti volantinaggi di questa campagna elettorale avrà capito che non esiste impegno politico senza ascolto e confronto. Bene, facciamo nostre queste importanti lezioni imparate per strada e apriamo una nuova fase. Dimostriamoci aperti, non “mostriamoci”, non limitiamoci a un ascolto sporadico dell’intellettuale di turno o di chi occupa una piazza per poi dirgli “è stato bello, ciao”. Tra un paio d’anni avremo il compito di far sì che questa passi alla storia come la prima e ultima giunta leghista della nostra città, ma perché questo accada dovremo presentare una “forza piazza grande”, capace di unire chi in passato non era unito. Perciò non possiamo presentarci con un programma e un candidato autoreferenziale. Un partito che lavori per i grandi cambiamenti strutturali di cui questo paese necessita oggi più che mai, che trasformi il nostro territorio in un mondo in cui i giovani possano sognare senza essere mortificati da scelte sbagliate che loro non hanno voluto, ma soprattutto un partito che lavori per tutti e per tutte senza discriminazioni di alcun genere. Nel 1912 un gruppo di donne che lavoravano nelle industrie tessili di Lawrence, una città del Massachusetts, scoprirono che i loro superiori avevano deciso di ridurre drasticamente la loro già bassa paga. Queste dissero “troppo è troppo”, così lasciarono le macchine e uscirono in strada. Piano piano, percorrendo strada per strada, uomini e donne si unirono a quel piccolo gruppo. Ben presto le piazze di Lawrence vennero invase da più di ventimila lavoratori in sciopero, divenendo delle piazze grandi in cui etnie e lingue si mischiavano armonicamente. Non erano ben visti dall’opinione pubblica e in molti rischiavano il licenziamento, ma al grido di “bread and roses” resistettero. Questi si organizzarono, si diedero obbiettivi comuni e marciarono uniti per giorni. Molti lavoratori vennero uccisi dalla polizia e i padroni delle fabbriche sembravano imbattibili, ma chi era sceso in quelle piazze grandi non si fece demoralizzare, continuarono la protesta e infine cantando “L’internazionale” i lavoratori conquistarono nuovi diritti. Ecco, vorrei che il nostro Partito Democratico fosse più come quel gruppo di donne e di uomini che, nonostante differenze spesso difficili da colmare, riuscirono ad unirsi e a marciare uniti per il bene di tutte e di tutti. Un partito capace di sognare in grande, lottare duramente e di vincere.
Enrico Bruni
25 Set 2020

Valori antichi per una Sinistra Nuova

l temi che dovrebbero stare a cuore ad una possibile sinistra nuova, sono in realtà temi antichi ma ancora attuali: la dignità umana, l’equilibrio ecologico del pianeta, il ruolo dei lavoratori nel mondo attuale. Si tratta di capire come difendere e rappresentare una maggioranza dei cittadini che ha visto negli ultimi trent’anni ridurre i propri diritti e i propri redditi, soprattutto a partire dalla crisi del 2008 e recentemente a causa della crisi innescata dall’emergenza covid. Come ripensare l’equilibrio tra uomo e ambiente nell’era dell’antropocene. Come consolidare ed espandere la preziosa cultura dei diritti umani in un mondo che reagisce alla crisi riducendo gli spazi democratici. In generale come contrastare politicamente e culturalmente le forze che diffondono e lucrano sulla paura seminando e costruendo l’opposto della paura: la speranza. In altre parole si vuole reagire ad un mondo più “duro e cattivo” che offre un ambiente sociale collettivo con sempre meno possibilità di costruzione di una vita dignitosa e felice con la speranza della possibile costruzione di un mondo migliore. Dove ruggisce l’urlo dell’egoismo e della competizione è necessario far risuonare il canto della solidarietà e della cooperazione. Se questo è il nucleo centrale molte sono le possibilità d’azione per cambiare insieme il mondo intorno a noi, perché un altro mondo sia possibile a partire dalla trasformazione del presente. Penso che la via mediana tra riformismo e rivoluzionarismo è trovare e praticare la strada della trasformazione, fatta da azioni concrete e pragmatiche che tengano conto delle condizioni date, ma sempre ispirate da alti valori politici, culturali, spirituali (il cuore pensante). Crediamo che per questo compito sia importante e utile ripartire dall’affermazione chiara dei valori a cui ispirarsi, perché siano di orientamento e ispirazione per la pratica politica quotidiana. Perché i valori da cui si parte sono così importanti per l’azione politica? Perché le scelte politiche influenzano la vita delle persone. Un politico con dei solidi valori umani, con una coscienza attiva, fermo nei suoi principi morali, può riflettere su quali effetti avranno le sue scelte sulla vita dei cittadini. Ciò che noi crediamo, i valori a cui ci ispiriamo se siamo sinceri si rifletteranno nelle nostre menti, e quindi nei nostri pensieri, nelle nostre parole e nelle nostre azioni. Per certi aspetti la politica moderna nasce dal grido gettato contro l’immobilità tradizionale del vecchio mondo dell’Ancien Régime dalla Rivoluzione Francese. Questo grido si articolava fondamentalmente in tre richieste: LIBERTÀ: libertà dalle rigide tradizioni del passato per immaginare di costruire una nuova società dove gli individui avessero la possibilità di scegliere come vivere. UGUAGLIANZA: l’affermazione della potente idea che gli essere umani nascono uguali e devono avere le stesse possibilità, che ogni cittadino è un valore. FRATERNITÀ: il riconoscimento politico della regola aurea, presente in tutte le religioni e nelle vie sapienziali, che insegna a “non fare agli altri ciò che non volete sia fatto a voi”. Da allora ad oggi la coltivazione del tema della libertà come valore assoluto è stata alla base delle culture politiche di destra, mentre l’affermazione del tema dell’uguaglianza come valore assoluto è stata la base ideale delle culture politiche di sinistra. Purtroppo la storia ha mostrato come perseguire solo la libertà senza curarsi dell’uguaglianza dei diritti e delle opportunità dei cittadini ha costruito società individualiste e ingiuste, fino ad arrivare al rovesciamento nella dittatura. Mentre gli sforzi di costruire società egualitarie senza salvaguardare la libertà dei singoli ha portato a società grigie e totalitarie. Una Sinistra Nuova, oggi, deve recuperare entrambi i valori della libertà e dell’uguaglianza come ispirazione di una società futura. Per tenerli insieme in un equilibrio armonico dobbiamo recuperare l’energia spirituale del terzo tema, quello della fraternità: Per chi crede in un dio padre, l’idea che tutti gli uomini in quanto suoi figli tra loro sono fratelli, per chi ha una spiritualità laica o segue altre vie religiose, la comprensione della reciprocità e dell’interdipendenza tra gli esseri umani. La fraternità può essere il tema spirituale e politico per tendere a costruire il sogno di una società in cui libertà dei singoli e solidarietà tra simili si armonizzino per creare realtà veramente umane. La fraternità oggi include l’amore per il proprio pianeta e per le creature che lo abitano, l’ambiente dal quale dipendiamo e che merita il nostro rispetto. I valori dell’equità, della giustizia sociale e della dignità umana sono gli antidoti contro il potente veleno del nostro tempo: l’esclusione. L’indifferenza agli altri. Il nemico principale della sinistra dello scorso secolo è stato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ed ha lottato per affermare il diritto alla vita, e ad una vita dignitosa, dei singoli esseri umani. Il modo in cui rilanciare oggi questi valori, per una sinistra nuova, dovrebbe essere l’affermazione del “diritto di avere diritti”, l’affermazione del valore di ogni singolo essere umano, combattendo l’indifferenza verso il prossimo e l’esclusione di una parte di umanità dalla possibilità di contribuire a costruire comunità inclusive, solidali e cooperative. Libertà civili e diritti umani saranno affermate da persone integre, che mettono al centro della loro riflessione e della loro azione il valore della vita umana. Una sinistra nuova può arrivare ad affermare libertà ed uguaglianza, diritti dei cittadini e giustizia sociale, tramite una riaffermazione e una condivisione del tema cruciale della fraternità umana come punto di partenza e di arrivo di una nuova umanità, più libera e consapevole.
Luca Pouchain
24 Set 2020

Le elezioni regionali e il ruolo del PD

Le elezioni regionali del 20-21 settembre sono terminate con un pareggio tra gli schieramenti di centrosinistra e centrodestra. Rispetto a 5 anni fa, la coalizione di centrosinistra ha confermato la Toscana, la Campania e la Puglia, mentre il centrodestra ha confermato il Veneto e la Liguria ed è riuscito a conquistare le Marche. In attesa che anche in Valle d’Aosta si completi il quadro della nuova giunta regionale (ricordiamo che a differenza delle altre regioni, qui i cittadini votano i consiglieri che a loro volta scelgono il Presidente), è interessante entrare un po’ più nel dettaglio di quanto avvenuto per comprendere le principali dinamiche politiche in atto. Non c’è dubbio che le due regioni su cui erano accesi i riflettori di tutti gli osservatori e sul cui esito si sarebbe giocato il destino politico di molti protagonisti nazionali e locali erano la Toscana e la Puglia. La prima governata da sempre da giunte di centrosinistra, la seconda che negli ultimi 15 anni è diventata “rossa” sfruttando le divisioni nel centrodestra. Ebbene sia in Toscana che in Puglia l’esito è andato nettamente oltre le più rosee aspettative. Nel feudo rosso, che a detta di molti era diventato contendibile, il centrosinistra ha raggiunto il 48,6% contro il 40,4% della candidata del centrodestra migliorando la performance di 5 anni fa soprattutto in termini assoluti con oltre 860.000 voti raccolti rispetto ai 656.000 del 2015. In particolare, il Partito Democratico si è confermato primo partito a livello regionale con percentuali tra il 27,6% della circoscrizione di Lucca e il 38,9% di Firenze. Un successo figlio di una campagna elettorale giocata tutta in attacco nelle ultime settimane precedenti il voto, drammatizzata al punto giusto, che è servita a catalizzare il voto verso le liste di centrosinistra e a mobilitare un elettorato incerto. Tuttavia non si può non notare come nelle circoscrizioni di Arezzo, Grosseto, Lucca, Massa Carrara e Pistoia il centrodestra abbia avuto la meglio in scia anche con le precedenti consultazioni comunali. In queste zone della Toscana, è fondamentale ricucire un rapporto con il territorio per evitare i noti campanilismi tra Firenze e il resto della regione. In Puglia, se vogliamo, il risultato è stato ancora più sorprendente per le proporzioni con cui è avvenuto. Il centrodestra si presentava unito per la prima volta dopo 15 anni con lo stesso candidato presidente, Fitto, vincitore nel 2000 e con il vento in poppa sull’onda dei risultati delle Europee del 2019. La mancata alleanza con il M5S inseguita e auspicata sino all’ultimo momento, la candidatura di disturbo di Italia Viva e Azione contro il presidente uscente Emiliano, non lasciavano presagire un risultato positivo. Tuttavia, come per la Toscana, l’impegno profuso nelle ultime settimane di campagna elettorale soprattutto puntando direttamente gli elettori 5S e in parte del centrodestra, ha prodotto una vittoria della coalizione di centrosinistra con il 46,7% dei voti e quasi 900.000 voti raccolti. Un successo nel quale il PD si è ritagliato il ruolo di protagonista essendo primo partito in tutte le circoscrizioni (ad eccezione di Brindisi) nonostante le numerose liste a sostegno di Emiliano. Non c’è stato voto disgiunto, bensì gli elettori hanno votato direttamente il PD e la coalizione di Emiliano piuttosto che disperdere le preferenze verso una pura testimonianza. In Campania si è abbattuto, invece, il ciclone De Luca che ha letteralmente spazzato via il centrodestra e il M5S. A inizio anno i sondaggi lo davano indietro di una decina di punti percentuali rispetto a Caldoro nel remake della sfida andata in scena già due volte negli ultimi 10 anni. Ma il Covid19 ha capovolto l’esito della partita rilanciando il presidente uscente grazie al suo piglio decisionista e “poliziesco”. Una presenza costante sul web, una coalizione monstre di 15 liste ha fatto il resto. Anche in Campania il PD è stato il primo partito in tutte le circoscrizioni (ad eccezione di Benevento) e a Napoli città. Tuttavia nonostante i quasi 400.000 voti raccolti, il Partito Democratico dovrà accontentarsi solo di 8 consiglieri sui 32 spettanti alla maggioranza. L’operazione di disturbo messa in piedi con una gran quantità di partiti ha, infatti, impedito che il PD raccogliesse molti più consiglieri di quelli ottenuti (presenza dimezzata rispetto a 5 anni fa). Ciò lascia presagire una non semplice gestione dei rapporti tra le tante istanze e richieste che verranno dalle 12 liste presenti in consiglio regionale. L’anno prossimo si voterà per il Comune di Napoli. L’auspicio è che si possa ripartire dall’esperienza politica e civica che ha portato all’elezione di Sandro Ruotolo alle suppletive in Senato. A fare da contraltare a queste vittorie, ci sono le sconfitte in Liguria, nelle Marche e nel Veneto. Sconfitte legate essenzialmente alle specificità dei territori. In Liguria, la snervante trattativa portata avanti dal PD e dal M5S per la scelta di un candidato comune si è risolta solo nel mese di luglio lasciando praticamente campo libero al presidente uscente Toti vincitore per assenza di un competitor vero. Dopo l’Umbria anche in Liguria, in cui si proponeva lo schema giallorosso, non si è raggiunto l’obbiettivo sperato. Ciò deve far riflettere sulle condizioni e le ragioni che dovrebbero portare ad un’alleanza tra PD e 5S soprattutto se, come sembra, gli elettori rimasti ai 5S stanno ritornando fisiologicamente nell’alveo del centrosinistra. Nelle Marche, invece, la sconfitta è stata pesante soprattutto se si considera contro chi è avvenuta ossia contro lo stesso candidato che 5 anni fa era arrivato addirittura al terzo posto. In termini assoluti il centrosinistra ha raccolto più voti rispetto al 2015 (274.000 vs 250.000), tuttavia il centrodestra è riuscito a intercettare il forte malcontento legato alle difficoltà nella ricostruzione post terremoto e a scelte nell’ambito della sanità difficili da difendere per quanto legittime in alcuni casi. Una sconfitta netta, quindi, che impone una seria riflessione sugli errori commessi per poter ritornare ad essere credibili e vincenti. In Veneto, infine, è accaduto più o meno quanto successo in Campania a schieramenti invertiti. L’unica grossa differenza è che nel primo caso la lista del candidato presidente Zaia ha cannibalizzato tutte le altre raggiungendo il 44,5% dei consensi. In altre parole, se si fosse candidato da solo avrebbe vinto comunque contro tutti anche del centrodestra. Tutte queste elezioni hanno risentito naturalmente dell’onda emotiva scaturente dal Covid19. I candidati presidenti in carica sono stati tutti riconfermati (ad eccezione delle Marche), accrescendo il proprio consenso personale a discapito delle liste a sostegno. Il Partito Democratico, in questo contesto fortemente competitivo, è riuscito però a raccogliere più voti di tutti gli altri partiti. Un risultato importante in un contesto difficile. Sia per le avverse condizioni economiche e sociali che il Governo dovrà affrontare nei prossimi mesi sia per presunte candidature interne al PD che avanzavano e che “tifavano” per una sconfitta del Segretario Zingaretti. Ancora una volta gli elettori si sono dimostrati più avanti e lungimiranti di una parte dell’informazione e di una parte dei dirigenti di partito. L’auspicio è che nei prossimi mesi si possa davvero imprimere una svolta all’azione di Governo cominciando con la riscrittura totale dei decreti in-sicurezza e proseguendo con una pianificazione dei progetti da inserire nel Recovery Fund. La serietà, la competenza e l’intraprendenza pagano. Anche in politica.
Antonio Angelino
23 Set 2020

Mandiamoli a casa! Sì, ma casa dov’è?

Uno dei leitmotiv che sta accompagnando la campagna elettorale per il referendum costituzionale di domenica 20 e lunedì 21 è, appunto, lo slogan “mandiamoli a casa”. Uno slogan dietro al quale vi è l’idea che, confermando la riforma costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari dagli attuali 945 ai 600 dalla prossima legislatura, gli elettori potranno finalmente rivalersi sulla “casta”, riducendo il numero di eletti al Parlamento. Molti analisti e politici dicono che ciò che sta facendo più presa sugli elettori sia la possibilità di ridurre i costi per la spesa pubblica (si parla dell 0,007% su base annua) e fanno leva su questo punto per cercare di mitigare (e far passare in secondo piano), invece, il vero sentimento che maggiormente motiva i sostenitori del “Sì”. Anni e anni di antipolitica, di demolizione dell’immagine e della fiducia nelle istituzioni e di demagogia spicciola, hanno fatto sì che l’idea di poter ridurre il numero dei “privilegiati”, con tutto ciò che ne consegue: auto blu, scorte, diarie, rimborsi etc., smuovesse nel profondo gli animi di milioni di italiani. I cittadini sembrano oggi infatti maggiormente propensi a diminuire i propri rappresentanti pur di fare un “torto” alla politica, che non al Referendum del 2016. Le ragioni a favore del sì e quelle a favore del no sono molte, complesse e tutte ampiamente supportabili, ciò su cui bisognerebbe invece concentrarsi è come si possa essere passati nell’arco di 4 anni dal bocciare una riforma (quella Boschi-Renzi) che già prevedeva la riduzione del numero dei Parlamentari, al promuovere – almeno stando a quello che dicono i sondaggi – una riforma che prevede un taglio addirittura maggiore del numero dei rappresentanti alla Camera e al Senato. La domanda è: la possibile vittoria del sì, quindi, sarà frutto della volontà degli elettori di “cambiare” in senso migliorativo il Paese, o sarà solamente il risultato di un voto anti-sistema? Questo è il vero nocciolo della questione. Si può essere infatti d’accordo o meno sulla riduzione dei costi della politica, sullo snellimento del funzionamento delle Camere e degli iter legislativi (recentemente, il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, si è espresso a favore della riforma, affermando che la riduzione del numero degli eletti non impatterebbe negativamente sul funzionamento del Parlamento), ma quanto ci si può ritenere soddisfatti di una vittoria del “sì” sapendo che moltissimi avranno votato in questo modo mossi unicamente da un sentimento di rabbia e di rivalsa nei confronti della politica? Quando si afferma “mandiamoli a casa”, ci si dimentica che i politici eletti, i nostri rappresentanti, non vengono da Marte, né sono delle entità estranee all’umanità. In una Democrazia sana, i politici sono la pura ed efficace espressione della società che rappresentano, né più, né meno. È quindi alla società che bisognerebbe rivolgere lo sguardo: quando essa infatti è in grado di produrre ottimi amministratori e rappresentanti (al di là dell’appartenenza politica) sarà una società democraticamente sana; ma quando invece da questa società scaturiscono politici corrotti, mistificatori e seminatori di odio, bisogna indagarsi attentamente su quali siano le ragioni di un tale risultato e come porvi rimedio. Non basta gridare “sono tutti ladri” e/o “mandiamoli a casa”. Esiste quindi una soluzione a questo enorme problema? Sì, ovviamente non semplice né tanto meno rapida, ma c’è: per avere e mantenere una società democraticamente sana bisogna investire nell’istruzione, nella ricerca, nell’università, nella cultura, nello sport, nell’ambiente e sulla redistribuzione, in modo serio e deciso. La speranza è dunque che al di là dell’esito referendario, la politica sappia con coraggio cogliere queste istanze e riesca mettere in atto nuove riforme incisive per dare un nuovo corso alla vita politica del nostro paese e, di conseguenza, nuovi stimoli positivi per tutti gli Italiani. Che la riforma venga approvata o meno, la sfida per la politica, soprattutto vista la terribile crisi che stiamo vivendo, è quella di contrastare la demagogia e il populismo (le vere minacce per la tenuta della Democrazia) fornendo risposte concrete, restando sempre a contatto con la società e i suoi problemi, facendosi carico delle proprie responsabilità, con serietà e unità.
Francesco Carfì
18 Set 2020

Sicurezza e Legalità. Come contrastare i falsi messaggi della Destra italiana

La drammatica vicenda di Willy Monteiro e la descrizione dei “bravi ragazzi italiani” che lo hanno brutalmente ucciso grida la necessità di uscire dalla logica dell’episodio isolato per tentare, invece, un ragionamento più ampio. Viviamo in un paese in cui la Destra ha scelto la sicurezza come il proprio tema identitario, legandolo a quello dell’immigrazione; gli immigrati vengono dipinti come portatori di insicurezza, come delinquenti e spacciatori. La Destra italiana ha reclutato senza alcun problema movimenti estremistici che fanno dell’ordine sociale, della purezza della razza e della difesa di un vetero clericalismo i loro, presunti, obiettivi. Ma cosa si cela dietro la facciata? Il mito della forza fisica e della violenza e uno stile di vita spesso ai limiti della legalità, quando non palesemente illegale. Gli assassini di Willy Montero sono solo l’ultimo esempio di una Destra violenta e coinvolta nel traffico di droga. Prima di loro Massimo Carminati (“Er cecato”) passato dai NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari) alla banda della Magliana e poi ai traffici di “Mafia capitale”. Poi le curve degli stadi italiani ormai nelle mani di capi ultrà dichiaratamente fascisti e coinvolti nel traffico di droga, spesso in collusione con le mafie. Si pensi a Fabrizio Piscitelli (alias Diabolik) capo ultrà della Lazio ucciso per il controllo del traffico di droga a Roma nell’Agosto 2019. Oppure si pensi a Luca Lucci, capo ultrà del Milan, condannato per traffico di droga, che l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini ha salutato nel 2019 con larghi sorrisi e strette di mano rendendo pubblicamente omaggio alla tifoseria rossonera più estrema. Tutto questo spiega perché la Destra parli sempre di “Sicurezza” e mai di “Legalità” ! Ma come fa un genitore a sentirsi tranquillo per i propri figli sapendo che ci sono in giro persone come gli assassini di Willy Monteiro ? Persone capaci di devastare un ragazzo per una lite su futili motivi. E’ questa la sicurezza che la Destra ci prospetta?
Maurizio Montanari
13 Set 2020

Smartworking e glocalworking

Nel nuovo contesto che si sta delineando, dove i grandi cambiamenti nel mondo del lavoro stanno iniziando a generare cambiamenti anche negli stili di vita e nell’intera geografia globale, si distingue la visione del manifesto apartitico glocalworking nato per ispirare e contribuire al cambiamento in atto rimettendo il lavoro al centro della ripresa socioculturale locale. Il manifesto Glocalworking è un modello di attrazione territoriale volto a rilanciare il tessuto socioculturale locale per riattivare economia e modelli sociali sostenibili. Un movimento in grado di sviluppare le aree locali e di supportare le famiglie nel nuovo contesto socio-economico che si sta delineando. Glocalworking è un manifesto per stimolare una nuova geografia creata dal lavoro digitale: in un un’ottica volta anche a stimolare gli enti preposti per cogliere al meglio le possibilità a livello locale, stiamo sviluppando una piattaforma per incentivare e aiutare le piccole località ad attrarre lavoratori digitali e per creare un movimento che connetta i vari attori per implementare questo modello. E’ pertanto una nuova visione di un modello di società sostenibile, distribuita ed equa, che mette l’Italia al centro del cambiamento. Le tecnologie digitali stanno rivoluzionando il modo in cui ci interfacciamo con le città e le piccole località cambiando la geografia di intere nazioni. Grandi città attrattive e innovative entrano in crisi affrontando dubbi sul futuro del mercato immobiliare e delle attività locali. Mentre località minori e fuori dai grandi circuiti internazionali iniziano a sperare di recuperare attrattività. Tra i vari fautori e detrattori dello smartworking, Glocalworking prova ad allargare la prospettiva rispetto alle visioni parziali, pur se corrette e frutto d’interessi meritevoli (benefici per l’azienda, benessere del lavoratore, vantaggi per le città del sud come anche interessi in crisi delle attività economiche delle grandi città), proponendo una visione globale capace di creare un nuovo modello di società, sostenibile ed equa, che porti benefici a tutti redistribuendo lavoro, cultura e valore economico. I lavoratori digitali, “smartworker e nomadi digitali” nel Mondo saranno centinaia di milioni nei prossimi mesi e si stima un miliardo nel prossimo decennio. Il lavoro è dovunque e il futuro di città, piccole località e interi Paesi dipenderà dalla capacità di attrarre smartworker e lavoratori digitali. In Italia possiamo avere un vantaggio competitivo importante perché il tessuto socioculturale italiano è formato da micro, piccole e medie realtà locali e imprenditoriali, siamo un Paese di paesi, che se messi in relazione e in sinergia sono in grado di sviluppare un nuovo rinascimento umano e digitale. L’Italia può essere la culla di talenti e lavoratori digitali di tutto il Mondo, possiamo riportare i nostri cervelli a casa e attirare nuovi lavoratori che porteranno valore, innovazione e cultura, connettendo e rigenerando il tessuto urbano e dei piccoli comuni. Per poterne cogliere al meglio le possibilità dobbiamo incentivare il lavoro digitale, creare un visto per lavoratori digitali in grado di attirare stranieri e cervelli in fuga soprattutto nei piccoli comuni e creare modelli di “distributed innovation” per mettere a sistema risorse locali e centrali. Qui il manifesto http://www.glocalworking.com
Riccardo Del Nonno
13 Set 2020

In The Democratic Paradox, Mouffe cerca di analizzare il nocciolo della questione democratica, prima che la politica abbia disconosciuto il ruolo del conflitto. La tradizione democratica e la tradizione liberale si sono incontrate in Europa durante un momento di lotta comune contro l’assolutismo: si può dire che l’agonistica tra la tradizione liberale e la tradizione democratica sia perdurata fino, più o meno, a 30 anni fa. Ma si tratta, appunto, di un nesso puramente europeo e contingente, così che basti ricordare l’iniziale opposizione del mondo liberale a concedere il suffragio universale anche ai contadini e agli operai, visti come “rozzi, animaleschi e ignoranti”. Negli ultimi 30 anni questa “tensione agonistica” è venuta a cessare con il primato della tradizione liberale sulla tradizione democratica. Per cui, i principi egualitari e, soprattutto, quelli di sovranità popolare sono divenuti obsoleti e perfino “sovversivi”. Per scardinare l’egemonia neoliberale, di conseguenza, va quindi ripristinata la stessa agonistica tensione. Considerando i rimandi a The Democratic Paradox e constatato che la tradizione liberale (diritti individuali borghesi, separazione dei poteri e rispetto delle leggi) e la tradizione democratica (uguaglianza e sovranità popolare) non sono la stessa cosa, possiamo di nuovo ricordare come la “democrazia liberale” europea (io e Mouffe preferiamo l’espressione “democrazia pluralistica”) sia stata per molto tempo l’articolazione contingente – e non data a priori – tra le due tradizioni. Quando questa situazione è crollata, con l’avvento della postpolitica, sono nati parecchi movimenti europei bollati come “populisti”. Questi ultimi rappresentano casi di forze intenzionate a ripristinare quell’agonistica tensione tra la tradizione democratica e la tradizione liberale. I movimenti populisti reazionari, detti “di destra” rispondono a solo una delle due componenti della tradizione democratica: la sovranità popolare. Tanto Salvini quanto Le Pen affermano di voler ridare la voce ai cittadini, ovvero ai tanti dimenticati dalla postpolitica. I movimenti populisti pienamente democratici, dal 15-M al movimento Occupy e agli Insoumis dì Melenchon, a differenza dei populisti “di destra”, riprendono entrambi gli aspetti della tradizione democratica: sovranità popolare ed egualitarismo (il quale viene soppiantato dal darwinismo sociale nella visione reazionaria). Ciò mostra che, in luce di questo ragionamento, molte delle domande a cui rispondono i movimenti populisti di destra sono “domande democratiche”, ed è solo la risposta ad essere propriamente reazionaria. Ma, quali sono nello specifico le conseguenze della postpolitica, cioè l’esito vittorioso della tradizione liberale sulla tradizione democratica? Innanzitutto una compromissione estrema della democrazia pluralistica, studiata ed analizzata da Macpherson: politicamente parlando si è assistito alla nascita dei termini “centrodestra” e “centrosinistra”, quando pochi si accorgono che si tratta di termini relativamente nuovi. Si tratta del preludio nei confronti di quel “consenso al centro” in cui, ad un certo punto della storia, conservatori e socialdemocratici decisero che bisognava accettare l’egemonia neoliberale. Se il crollo dei regimi bolscevichi doveva imporre un insegnamento al socialismo europeo, era quello che occorreva conquistare l’egemonia entro i margini della democrazia pluralistica, che è una cosa ben diversa dall’accettare i dogmi dell’egemonia neoliberale e dell’austerità. L’altra conseguenza politicamente rilevante, assumendo una politica privata del conflitto, in cui tutti sono d’accordo sulla stessa visione del mondo e in cui bisogna votare secondo i mercati, è quella che Mouffe chiama oligarchizzazione: se i cittadini non possono scegliere tra progetti che abbiano delle caratteristiche chiaramente diverse la politica diventa esecuzione tecnica. E i tecnici chi sono? Semplicemente gli esperti. Anthony Giddens, sociologo britrannico, diede basi teoriche alla postpolitica e alla distruzione della politica: con il suo Beyond Left And Right ispirò Tony Blair, artefice dell’egemonia neoliberale nel Labour. Considerare l’antagonismo obsoleto costringe dunque i cittadini a non avere voce in capitolo, finchè i cittadini stessi saranno costretti ad accettare qualunque via, perfino la più reazionaria, che permetta l’espressione del conflitto agonistico. Mouffe fa notare come uno dei motti del movimento 15-M fosse stato “abbiamo il voto ma non abbiamo voce”: è una frase che riassume una tragica malattia chiamata postpolitica, di cui mi sono occupato nel mio libro Over The Politics (Santelli, 2020). Passare dall’antagonismo al democratico agonismo vuol dire affrontare un avversario all’interno di uno spazio simbolico definitosi democraticamente, senza arrivare alla distruzione fisica dell’avversario in senso propriamente “antagonistico”. Nel caso dei liberali la situazione non è, invece, né agonistica, né di tipo antagonistico: l’avversario è solo un competitor, facente parte di una competizione tra elites, dove il vincitore è colui che risulta più abile in termini econometrici e di esecuzione tecnica. Costui arriverebbe dunque ad occupare un determinato posto di potere per poter svolgere le stesse politiche del predecessore. Vi è stato il momento in cui Mouffe ancora credeva che la socialdemocrazia potesse riprendere una visione dissociativa di tipo agonistico, ma quel poco di speranza è andato ad esaurirsi definitivamente con la crisi del 2008. Mouffe sottolinea come la socialdemocrazia non abbia svolto determinate scelte per via di parametri esterni al Politico, ma ci sia stata un’implicazione decisionale di tipo attivo. La socialdemocrazia ha svolto quelle politiche non perché costretta, come qualcuno potrebbe ipocritamente sostenere, ma perché ha scelto di imboccare una determinata via, che implica la volontà di compiere certe – a mio parere oscene – scelte politiche. La conquista degli affetti, la mobilitazioni di pulsioni che provengono dal profondo dell’incoscio non nega la possibilità di realizzare, entro i termini della democrazia pluralistica, per via dinamica e temporanea, una società altamente razionale, altamente ecologica e democratica. Quello che Mouffe chiama, credo un po’ impropriamente, modello giacobino, proprio delle sinistre estreme ed extraparlamentari, non è l’unico approccio che merita a dirsi rivoluzionario. La lotta contro-egemonica affiancata da quella verso la società organica può realizzarsi entro le strutture fatiscenti della democrazia liberale, non smantellandola come vorrebbero determinati settori del mondo leninista, ma rafforzandola e fornendole gradi più elevati di tenore democratico. Per dirla brevemente: condivido perfettamente il pensiero di Mouffe che giudica l’approccio agonistico e lo scontro culturale contro-egemonico già sufficientemente rivoluzionario. Ciò porta me e Mouffe all’interno di un progetto di radicalizzazione della democrazia distante dagli obiettivi dell’estrema sinistra extraparlamentare, ma molto distante da quelli della socialdemocrazia europea. È falso e fuorviante che la lotta contro l’egemonia neoliberale debba passare per lo smantellamento della cornice istituzionale della democrazia liberale. Occore quindi che la democrazia liberale sia trasformata in una controparte che ne è la sua diretta evoluzione: potremmo definire democrazia radicale questo obiettivo, senza dimenticarne, tuttavia, la multidimensionalità.
Yahia Almimi
12 Set 2020

Il populismo e la realtà

Stamattina mi sono svegliato un po’ alternativo. Perché, per la prima volta, ho riflettuto, e mi sono chiesto: “Ma, alla fin fine, cosa c’è di male nel populismo?”. Il populismo prevede che chi governa agisce seguendo la volontà del popolo. Se questo desidera qualcosa, quel qualcosa è giusto e deve essere fatto. E allora, ho deciso di immedesimarmi nel populismo, per provare a proporre qualcosa, partendo proprio da quello che le persone vogliono, desiderano, bramano. — Cominciamo da un presupposto: a chi piace tutta questa situazione creata dalla pandemia da Covid-19? A nessuno, suppongo. Ma allora, se non piace a nessuno, perché dobbiamo subirla? Non è meglio un mondo senza mascherine, senza distanziamento, senza quarantena? Ma certamente. E allora facciamo una bella cosa: da adesso il covid non esiste. Puf. È tutta un’invenzione di Bill Gates. Ma ora possiamo alzare la testa. Basta distanziamento, mascherina e compagnia bella, viviamo tranquilli, senza rendercene conto. Come? Ho forse sentito qualcuno dire che le persone muoiono di covid? Ma tanto muoiono i vecchi, che prima o poi dovrebbero morire. Ma anzi, ma lasciamoli morire! Sono meno pensioni da pagare. Non è geniale? Cosa? La gente finisce in terapia intensiva? Ma sì, ma erano malati, probabilmente stavano male prima, non preoccupiamoci. Del resto, non è un mondo libero senza covid quello che vogliamo? Eccolo servito! — Però non mi convince. E se fossi io a prendere il virus? E se finissi in terapia intensiva? E se a morire non fosse un vecchio qualsiasi, ma mio nonno? — Ma cosa dici? Vuoi solo terrorizzare la gente, sei un terrorista psicologico, vuoi che la gente sia insicura, sei una zecca, dai fastidio, devi essere eliminato, tu e la tua famiglia, e anche i tuoi amici, e anche gli amici dei tuoi amici. Ma non è tutto: ovviamente il coronavirus non è l’unica cosa che dà fastidio. Ci sono anche gli stranieri, che vengono qui solo a crearci nuovi problemi, a delinquere, a spacciare, ci sono i disabili, che sono difficili da mantenere, per non parlare dei malati mentali. Insomma, sono tantissime le categorie di persone che danno fastidio. Tutti noi vorremmo un mondo in cui non ci siano disabili, migranti, malati mentali, perché richiedono un impegno per occuparsene. Ma se tutti noi vogliamo un mondo libero da quegli individui, perché non li eliminiamo? E allora, eliminiamoli tutti, facciamolo fino in fondo, e dobbiamo farlo bene. Scusate, ma non è questo che vogliamo? Un mondo libero da persone che possono dare fastidio? Eccolo, basta eliminare le categorie fastidiose e ci siamo. Voilà. — Ma è davvero giusto? Quelle persone hanno una dignità. Perché dobbiamo eliminarle? — Eccolo, il buonista, la zecca, che preferisce i migranti, i disabili, al suo popolo. Eccolo, il nemico del popolo. Un momento… Ma dà fastidio. Eliminiamolo! Ma passiamo a temi meno sociali e più economici. I soldi. Quanto ci piacciono i soldi. Certo, per guadagnare, cari miei, bisogna lavorare. Però, alla fine, pensiamoci: quante volte non abbiamo voglia di andare a lavorare? Tantissime. Ma alla fine, tutti desideriamo una gita in vacanza. E allora, perché dobbiamo subire il lavoro? Idea: distribuiamo dei soldi a tutti. 1000 euro al mese per tutti. Anzi no, 2000. Non vi basta? E facciamo 3000. 5000. 10.000. Venduto per 10.000, nessuno offre di più. Cosa, siete perplessi? Non avete motivo di esserlo: chi è che non vorrebbe ricevere dallo stato 10.000 euro al mese, senza bisogno di lavorare? Nessuno. E allora facciamolo. Ma dove li troviamo quei soldi? Con le tasse. Ma chi le vuole pagare le tasse? Nessuno. Ma allora, se non vuole pagarle nessuno, perché le paghiamo? E se invece, abolissimo tutte le tasse, imposte, bollette, bollettine, parcelle, aliquote, pagamenti? Del resto, è questo che il popolo vuole. Chi non vorrebbe che fossero levate tutte queste tasse? — Ma i soldi non crescono sugli alberi. Come facciamo a pagare, senza finire i soldi? — Eccolo, il professorone, il gufo, che vuole solo l’infelicità del popolo. Dà fastidio? Eliminiamolo! E uno, e due, e tre, e puf, parapapù, non ci sei più. Tutti vorremmo un mondo in cui si viene pagati senza far niente, e senza tasse. Tutti vorremmo un mondo in cui non esistono problemi. Tutti vorremmo un mondo in cui vengano eliminate tutte quelle cose che danno fastidio. Ma se il populismo ha come scopo quello di realizzare ciò che desidera il popolo, perché non possiamo realizzare tutto ciò? Ah già. Dimenticavo. Vi è, ahimè, un antidoto al populismo. Si chiama realtà.
Valentino Ferrari
7 Set 2020

Referendum: solo un Sì dei democratici può allontanare lo spettro del populismo e garantire l’avvio di una nuova stagione riformista

Se il 7 settembre la direzione nazionale del Partito democratico decidesse di schierarsi a favore del SI al referendum sul taglio del numero dei parlamentari ci troveremmo difronte ad una svolta, non tanto per l’apporto numerico, seppur non di poco conto, che il Pd con il sostegno del suo elettorato potrebbe fornire al fronte del SI, quanto per il valore politico di questa decisione. Perché i democratici si farebbero inevitabilmente garanti dell’avvio di una nuova stagione di riforme attesa da decenni. Verrebbe così scongiurato il rischio che la riduzione del numero dei parlamentari possa essere un’iniziativa fine a se stessa, all’insegna del populismo, una sorta di rivalsa del popolo nei confronti della classe politica che a nulla servirebbe, trasformando l’appuntamento referendario in un’occasione unica, compiendo il primo passo verso una nuova stagione di riforme attese ormai da troppo tempo. Non è un caso se, in parlamento, il voto favorevole del Pd alla riforma sia arrivato dopo il passo indietro del Movimento 5 stelle sull’introduzione del vincolo di mandato e sul referendum propositivo illimitato che avrebbero messo in discussione il ruolo del parlamento. Se il Movimento 5 stelle prenderà in considerazione la necessità di accompagnare la riduzione dei parlamentari con una riforma della legge elettorale e dei regolamenti parlamentari e il Partito democratico riuscirà ad aprire il dibattito su temi più ampi, come la sfiducia costruttiva, l’eventuale superamento del bicameralismo perfetto, il potere del Presidente del consiglio di proporre la revoca dei ministri al capo dello stato, ci troveremmo difronte ad una svolta riformista senza precedenti.
Lorenzo Ciani
1 Set 2020

Referendum e democrazia deliberativa

Un governo che funzioni meglio e costi meno. Ecco cosa vogliono le persone. La stagione del Big government che ci ha accompagnato fino agli anni ‘90 ha prodotto apparati pletorici ed inefficienti. Quella dello Stato minimo, successiva, li ha depauperati eccessivamente, con tagli lineari poco selettivi e mirati. Le istanze dei cittadini e delle cittadine sono rimaste intatte, frustrate. L’Italia, come una mosca che sbatte sul vetro, pervicacemente non riesce a realizzare l’innovazione istituzionale che servirebbe per una svolta nei processi decisionali pubblici. E a rimetterci è la nostra capacità di costruire politiche solide, fondate, logiche, condivise. E’ ancora una volta il caso di un referendum, quello sul taglio dei parlamentari. Il vero dato che emerge dalla povera discussione di questi giorni è che non c’è un vero confronto razionale fra diverse soluzioni e che s’inizia a procedere per attacchi personali o annunci apocalittici. Operando una semplificazione propagandistica dei problemi che avvelena il dibattito pubblico con “sostanze” tossiche che operano su un corpo sociale di per sé non esattamente al meglio della sua forma dopo anni di malattia populista. Una patologia che non vede ripresa ed inizia a contagiare strati della popolazione e della politica insospettabili. Allo stato attuale delle cose, il referendum in Italia è uno strumento quasi inutilizzabile rispetto allo specifico quesito per il quale è convocato. Si trasforma regolarmente in un giudizio pro o contro chi lo propone, chi sostiene le ragioni di un cambiamento. E così si perde sempre di vista il merito delle questioni. Non è compito di questo scritto sostenere dunque le ragioni del Si o del No ma difendere quelle di un buon processo decisionale, ben organizzato e costruito, condiviso e fondante dal punto di vista democratico. Come la democrazia rappresentativa, anche quella diretta – forse da prima di quella parlamentare – è in fortissima crisi. La partecipazione ai referendum è in un trend di forte calo per diversi motivi. Ma soprattutto ad essere entrate in crisi sono le motivazioni e le pratiche democratiche che dovrebbero sostenere l’intervento diretto di cittadini e cittadine nelle decisioni politiche. Non è ovunque così. In altri Paesi a questo inconveniente si è ovviato in un modo corretto. Si è provato e si è riusciti a rendere la democrazia diretta più deliberativa affiancandola con percorsi di coinvolgimento dei cittadini e delle cittadine nella decisione. E’ così che la Francia fa decidere a 150 persone estratte a sorte (su base campionaria e rappresentativa della popolazione) le misure per abbattere del 40% le emissioni gas-alteranti entro il 2030. E’ così che l’Irlanda fa individuare a 66 cittadine e cittadini, provenienti dalle diverse circoscrizioni elettorali dell’Isola, più 33 rappresentanti del Popolo, le modifiche alla sua Costituzione. E’ così che nell’Ostbelgien, la regione germanofona del Belgio, nasce un’Assemblea di Cittadini definita su basi campionarie che ogni anno decide importanti questioni svolgendo un lavoro di affiancamento autorevole delle Istituzioni. Autorevole perché non certo affidato ai social network o a qualche sondaggio d’opinione, autorevole perché informato, competente, discusso. Esattamente come deve essere un verdetto: il modello è molto simile a quello dei Giurì popolari anglosassoni. A essere “processata”, però, è una decisione. Un recente studio OCSE mostra come questo modello ormai si vada diffondendo sempre più nel mondo. E’ un modello che risolve molti problemi delle democrazie e che diffonde benefici effetti alla sfera più generale dell’opinione pubblica che, è stato osservato, tende a conformarsi maggiormente a criteri di logica e razionalità decisionali. In Italia, di recente, è nata una proposta di legge popolare per sostenere la nascita di Assemblee deliberative di Cittadini e Cittadine (https://www.politicipercaso.it/) e diverse regioni italiane hanno leggi sulla partecipazione (ma non su base stabile e campionaria). A livello nazionale ed in Sardegna, tuttavia, il percorso è molto indietro. Farebbe davvero benissimo alla nostra democrazia, così distante delle persone, attivare percorsi come quello deliberativo. Ora abbiamo l’occasione di ottenerlo attraverso una legge e superare il modello dualistico-referendario che ci priva di un pensiero terzo, alternativo, creativo. E di aprirci a mondi nuovi, diversi. Di migliorarci. Cogliamola.
Stefano Sotgiu
1 Set 2020

Nel Trentino allevatori e pastori in difficoltà per gli attacchi di lupi e orsi

È iniziata in questi giorni un’inusuale “desmontegada” sul Lagorai, catena montuosa nel cuore del Trentino. Capre, pecore, manze, api stanno rientrando dall’alpeggio con più di un mese d’anticipo. Motivo? Gli allevatori e i pastori sono disperati delle continue predazioni da parte di branchi di lupi e in ultimo dell’orso M49. La situazione non è più sostenibile: gli attacchi sono continui, predazione dopo predazione le greggi diventano sempre meno numerose, lo stress negli animali aumenta e questo comporta una forte riduzione del latte prodotto, nonché una qualità inferiore dello stesso. Ma non è soltanto una questione economica. Il pastore vive nel terrore perché a rischio oltre alla vita degli animali c’è anche la sua. Gli allevatori vedono distrutti anni di sacrifici, di alzate alle cinque del mattino per mungere, cure e attenzioni nei confronti del bestiame. Innegabile che tra allevatore e animale si crei un rapporto d’affetto e sbaglia chi pensa che si possa risolvere il problema delle predazioni semplicemente elargendo indennizzi. Per il prossimo anno alcuni allevatori minacciano già di non far salire in malga la loro quota di animali. L’abbandono del sistema dell’alpeggio, così come si gestisce da millenni sul versante “latino” della Alpi col sistema della malga gestita con regole, usi e consuetudini antichi, comporterebbe oltre che un gravissimo danno ambientale, lasciando le nostre montagne all’incuria e all’avanzamento del bosco, anche un danno agli stessi animali, relegati ai soli prati del fondovalle nel migliore dei casi o tenuti a stabulazione fissa nelle stalle. Negli ultimi decenni le istituzioni politiche locali hanno riservato molta attenzione alla fauna selvatica con progetti di reinserimento che hanno impedito l’estinzione di alcune specie, uno fra tutti il progetto “Life Ursus” che ha evitato l’estinzione dell’orso bruno in Trentino. Ora però l’attenzione va spostata con la massima urgenza al paesaggio antropico dove con dedizione e sacrifici operano pastori e allevatori. Le istituzioni nazionali e provinciali, fino ad oggi latitanti, dovrebbero attuare al più presto un piano mirato di contenimento e controllo della fauna selvatica e lo devono fare con serietà e determinazione. I pascoli di alta quota insieme al paesaggio culturale delle malghe, simbolo della gestione collettiva del territorio, in equilibrio e in coabitazione con la fauna selvatica, sono una “civiltà” cui gli episodi di predazioni continue che si stanno susseguendo segnalano una pericolosa rottura. Si tratta insomma di ripristinare quella stabilità tra il lavoro dell’uomo sulle alte quote e la natura selvaggia, tra la componente naturale e quella culturale, che nei secoli passati, non senza difficoltà, è pur sempre stata garantita.

Tiziano Silvio Cova
27 Ago 2020

Le ragioni del NO al taglio dei parlamentari

Il taglio del numero dei parlamentari associato all’avvenuta abolizione del finanziamento pubblico ai partiti porterà ad un sistema sostanzialmente oligarchico. È in gioco la qualità della nostra democrazia. Sfatiamo il primo mito legato al taglio dei parlamentari: il risparmio economico. Il dimezzamento del numero dei deputati e dei senatori non genererà alcun sostanziale beneficio economico per gli italiani. L’Osservatorio Cottarelli ha stimato in circa 3 euro il risparmio annuale per le famiglie. In pratica il costo di un cornetto e di un caffè. Sfatiamo il secondo mito: l’aumento dell’efficienza della politica. Il dimezzamento del numero dei deputati e dei senatori non migliorerà la produttività del Parlamento. La riduzione dei parlamentari provocherà, invece, una grave conseguenza per la nostra democrazia: Riduzione della rappresentanza democratica e svilimento del ruolo del Parlamento. Attualmente l’Italia occupa il quintultimo posto in Europa per numero di parlamentari ogni 100.000 abitanti (1,2) contro ad esempio il Portogallo (2), Regno Unito (2,4), Grecia (2,6), Austria (2,9). Con il dimezzamento dei deputati e dei senatori, tale rapporto scenderà sotto l’unità. Tutto ciò si tramuterà in un sempre minore radicamento territoriale dei futuri parlamentari. Il risparmio economico vero si avrebbe NON intervenendo sul numero, ma sugli stipendi e i benefit dei parlamentari. Inoltre, il Parlamento, da architrave istituzionale del nostro Paese, è diventato sempre più subalterno alle imposizioni del Governo di turno innescando dannosi processi di personalizzazione della politica. Questo processo non potrà che aumentare in seguito al taglio dei parlamentari. Accanto a queste motivazioni “politiche” ci sono ragioni “tecniche” che motivano il NO. Il taglio del numero dei parlamentari avrebbe dovuto prevedere contestualmente: 1) riforma della legge elettorale; 2) riforma dei regolamenti parlamentari; 3) riforma del quorum per l’elezione del Presidente della Repubblica; 4) superamento del “bicameralismo perfetto”. Nessuno di questi interventi è stato compiuto, addirittura neanche calendarizzato, e non c’è alcuna garanzia che ciò avvenga. Dinanzi a tutto ciò, il NO è l’unica opzione che tuteli la nostra Costituzione da provvedimenti populisti e incompleti. Uno dei problemi della democrazia italiana non è il numero dei deputati e dei senatori, ma la qualità dei nostri rappresentanti e le modalità di selezione della classe dirigente. Il Parlamento va difeso come istituzione anche dagli inquilini che lo occupano pro tempore. Il continuo picconare le istituzioni ha provocato negli ultimi anni una crescita esponenziale dell’astensione divenuta stabilmente “primo partito”. Noi dobbiamo riavvicinare i cittadini alla Politica non allontanarli definitivamente privandoli della migliore rappresentanza possibile (sia numerica che qualitativa). Per queste ragioni il 20-21 Settembre invito a votare NO al taglio della democrazia. Antonio Angelino, circolo PD Donna Olimpia
Antonio Angelino
23 Ago 2020

Una ripartenza basata su un’economia a basso impatto ambientale

Ci troviamo davanti ad un prossimo futuro nebuloso, in cui ci auguriamo che la fase più drammatica della pandemia sia alle nostre spalle ma allo stesso tempo siamo consapevoli che potremmo avere una seconda ondata di contagi in autunno. Qualunque sia la situazione sanitaria che dovremo affrontare, dal punto di vista economico e sociale possiamo dire di avere davanti una sfida doppia, perché non solo ci corre il dovere di far tornare le cose “come prima” ma è necessario anche avere l’ambizione di ricominciare a vivere “meglio di prima”. Prima appunto che il coronavirus cambiasse le nostre abitudini ed in generale le nostre vite, avevamo preso finalmente piena consapevolezza di quanto la tutela dell’ambiente non fosse una questione accessoria, ma il perno attorno al quale costruire le politiche di sviluppo. È quindi quasi scontato che ora, quando si pensa a come ripartire, si opti per politiche di sviluppo sostenibile, che promuovano un’economia a basso impatto ambientale. Siamo però anche consapevoli che non si può pensare a una sostenibilità ambientale senza che questa sia a misura di tutta la comunità, specialmente dei più fragili. Infatti, dopo un primo impatto in cui ci sembrava che questo virus colpisse tutti indistintamente, ben presto ci siamo resi conto che il peso di questa epidemia non ricadrà su tutti allo stesso modo. Dobbiamo prepararci ad un periodo in cui la crescita delle disuguaglianze che intravedevamo prima della crisi subirà un’accelerazione e porterà sempre più famiglie sotto la soglia della povertà. Non possiamo quindi non pensare, nella progettazione della ripartenza, alle fragilità che erano sotto i nostri occhi già prima della pandemia. Uno studio della Commissione Europea aggiornato nel 2018 (1) mostra come circa l’11% della popolazione europea sia in una situazione di povertà energetica, ovvero si trovi nella condizione di non essere in grado di vivere in una casa calda d’inverno, fresca d’estate o sufficientemente illuminata tutto l’anno perché non riesce a sostenerne i costi. È ragionevole pensare che questo preoccupante dato sia destinato a crescere con le ricadute economiche che la pandemia ha portato con sé. Dobbiamo anche riflettere sul fatto che “povertà energetica” significa anche che le famiglie che cercano energia a bassissimo costo per soddisfare le proprie necessità, si rivolgono gioco forza alle fonti più inquinanti, perché spesso le loro abitazioni hanno vecchi impianti o non sono efficienti dal punto di vista energetico o perché, semplicemente, nel brevissimo periodo costano meno. È qui che perciò la politica deve porre più attenzione nell’impostare uno sviluppo nuovo, che sia sostenibile non solo dal punto di vista ambientale. Ben vengano quindi quelle misure che promuovono efficientementi energetici a basso costo, come quella dell’ecobonus presente nel recente Decreto Rilancio, ma occorre soprattutto che si favoriscano interventi strutturali negli edifici nelle aree più povere del Paese, nelle periferie più trascurate delle città, nelle aree interne troppo spesso isolate, oltre che intervenire su quegli edifici pubblici che hanno bisogno di essere risistemati, come molte scuole o gli ospedali. Con il recente via libera al Recovery fund, tutto questo è diventato effettivamente realizzabile, in quanto inseribile nel piano di riforme che è necessario per accedere al fondo. Fare questo significa progettare uno sviluppo davvero sostenibile, capace di favorire la produzione di energia da fonti più pulite e con meno sprechi, con il conseguente sviluppo di aziende che operano nel settore, ma significa anche e soprattutto non lasciare indietro chi già si trova in difficoltà. Pensare ad una sostenibilità a tutto tondo, insomma, non fa bene solo al pianeta ma favorisce le nostre comunità, rendendole più eque, ed una politica che fa di questo uno dei suoi cardini potrebbe iniziare a colmare la distanza che si è creata con quei cittadini che la percepiscono lontana dalla loro quotidianità e dai loro problemi.
Emanuela Vici
19 Ago 2020

I due giardinieri, l’austero e l’universale

L’austero Il giardiniere austero mette al primo posto il risparmio e l’ottimizzazione. In particolare, è molto attento a non sprecare l’acqua. Le piante dovranno per la maggior parte accontentarsi dell’acqua piovana e dell’umidità notturna. Naturalmente, il giardiniere non vuole che le piante muoiano, così passa molto tempo ad esaminarle una per una, per individuare quelle in sofferenza. Quando ne trova una, la contrassegna come bisognosa, e aggiunge un po’ d’acqua. Ma a volte succede che non si accorga di una pianta sofferente, oppure se ne accorga troppo tardi, quando ormai si è ammalata. Inoltre, se per qualsiasi motivo il giardinere si deve assentare per qualche giorno, per una pianta già in difficoltà questo potrebbe essere un ritardo fatale. Alla fine dell’anno, ha speso solo 10 euro di acqua, ma ha perso il 10% delle piante. Inoltre, alcune piante, pur non visibilmente sofferenti, hanno prodotto meno per insufficienza d’acqua. Nel complesso perde il 30% del raccolto che avrebbe potuto ottenere se le piante fossero rimaste tutte sane. Questo significa un mancato guadagno sul raccolto di 100 euro, più 20 euro per ricomprare le piante perse. In totale, tra spese e mancati guadagni, dovrà mettere in conto 130 euro e tantissimo tempo per controllare tutte le piante. L’universale Il giardiniere universale installa un sistema di irrigazione automatico, che fornisce a ciascuna pianta una quantità modesta ma sufficiente di acqua, tutti i giorni. Nessuna pianta può restare a secco, perché il sistema è semplice, automatico, facile da controllare. Il giardiniere può anche assentarsi per qualche giorno, e le sue piante saranno al sicuro. Può capitare che una pianta abbia bisogno di un po’ più di acqua delle altre. Ci possono essere tanti motivi: magari si trova in un punto più soleggiato, oppure in un terreno che trattiene meno acqua. Il giardiniere risolve questi problemi in maniera strutturale, aumentando il flusso di acqua per quella piantina. Quindi il sistema resta in gran parte automatico, e il giardiniere ha molto tempo libero che usa per studiare meglio le piante e per altre attività, compreso l’ozio. Alla fine dell’anno, ha speso 50 euro di acqua. Non ha perso nessuna pianta. Il raccolto è stato completo, e non ha dovuto spendere soldi per ricomprare le piantine morte. In totale, ha speso solo 50 euro per l’impianto automatico, che userà anche l’anno prossimo e 50 euro di acqua, e ha avuto tanto tempo libero per sé e per le persone a lui care. Questa è automazione. Questa è universalità. Questa è produttività. Questo è benessere. Questo è progresso.
Massimo Modica
12 Ago 2020

Pianificazione Economica: riprendiamo in mano la situazione.

Dopo la fine della Prima Repubblica, non fu facile riprendere il controllo dell’economia. Una delle brutture di Mani Pulite era che, con la fine dei grandi partiti storici del centrosinistra (PRI, PSI, PSDI, Sinistra Democristiana), la Repubblica giungeva a un brevissimo periodo buio, in cui i governi (Amato, Ciampi), furono costretti a scelte drastiche, pur di salvare i conti pubblici (ricordiamo il famoso prelievo forzoso del 6×1000 dai conti privati, oppure la drastica manovra di 93.000 miliardi di vecchie lire. Ciò che, però, nessuno ha il coraggio di ripetere, è che la Repubblica già da tempo stava affrontando un periodo buio, economicamente. Durante il Governo Craxi, il Rapporto Deficit-Pil schizzò dal 69% al 92%. E, perlomeno secondo il mio modestissimo parere, sarebbe anche giusto dire che l’allora Ministero del Bilancio e della Pianificazione Economica rimaneva immobile, di fronte all’inevitabile crisi economica che si prospettava di lì a poco. L’ultima volta che quel ministero era stato calcato da qualcuno che veramente ci aveva creduto, era nel 79, con Ugo La Malfa. I. LA MALFA E LA NOTA AGGIUNTIVA Fino al 1967, il Ministero del Bilancio (così si chiamava), collaborava attivamente con il Ministero del Tesoro, vista la situazione costituzionale. I suoi poteri erano attivi anche in materia di programmazione economica. Costui presentava al CNEL e al Consiglio dei Ministri il programma della pianificazione, che doveva essere approvato prima da tutti e due gli organismi, per poi essere passato al Parlamento, dove doveva essere votato il disegno di legge approvativo. Di personalità note che hanno calcato la poltrona di MBPE ce ne sono tante: Antonio Giolitti, Ugo La Malfa, Paolo Emilio Traviani, Paolo Cirino Pomicino, finanche Andreotti. Eppure, nonostante questo affollarsi verso il Ministero, forse l’unico ad essersene interessato è, perlappunto, La Malfa. Nella ormai famosa “Nota Aggiuntiva”, l’allora Ministro del Bilancio parla alle camere, denunciando una pianificazione fallimentare nelle precedenti amministrazioni, e battendosi per la politica dei redditi e per la corretta riforma dell’amministrazione pubblica. Il Ministro riesce ad individuare formidabilmente il problema principale del Sistema-Italia, cioè l’inerzia del comparto statale, in relazione a una costante crescita dei consumi e dell’economia. La Malfa aveva previsto che, in un certo momento, la situazione economica ci sarebbe sfuggita di mano. II. PIANIFICARE OGGI La Malfa, da buon keynesiano, credeva fermamente nel libero mercato, ed era pronto a regolarlo, al fine di renderlo più umano. Da una parte, non possiamo che dirci contenti di questo: se il nostro obiettivo principale è ancora un’economia umana, sappiamo che strada prendere. Dall’altra parte, sappiamo benissimo che non basta solo questo: è necessario che lo Stato acceleri, al fine di raggiungere facilmente, di nuovo, la stabilità economica. Dunque, dobbiamo necessariamente ricominciare a farci una cultura economica, specialmente ora che, al governo, abbiamo un centrosinistra diviso, ma unito su certi fronti. Joan Robinson, Piero Sraffa, e i grandi governi socialdemocratici, come quello di Olov Palme, devono essere la nostra luce nel tunnel dell’indecisione, al fine di aiutarci, ancora una volta, a risolvere il problema economico. Stavolta per sempre.
Ernesto De Ambris
11 Ago 2020

La settimana di quattro giorni come strumento d’uguaglianza

Proprio in queste ore nel governo si sta discutendo sulle norme utili a un rilancio dei consumi e quindi della domanda. Tuttavia, i bonus temporanei non affrontano i nodi di una crisi che, ricordiamolo, era strutturale e precedente all’emergenza Covid-19. Per costruire un’economia più forte, sana e giusta non saranno sufficienti neppure i miliardi del Recovery Fund. Agli indispensabili investimenti è necessario affiancare una politica per un rilancio dei salari e della domanda interna. Pochi giorni fa, proprio in questo spazio, il prof. Franzini ha messo in luce il legame tra alti livelli di diseguaglianza e bassa produttività, e questo è il nodo centrale da cui partire. Una misura necessaria per affrontarlo è la riduzione dell’orario di lavoro che deve avvenire a parità di salario, con l’obiettivo di arrivare alla settimana di 4 giorni. Si ridurrebbe la diseguaglianza, perché si trasferirebbero verso il lavoro importanti quote di reddito che oggi vanno a remunerare sproporzionatamente il capitale e i patrimoni. Verrebbe stimolata la produttività perché le imprese sarebbero spinte a investire in tecnologia (1) infatti, come sosteneva Paolo Sylos Labini, quando non ti è possibile sfruttare oltre il lavoro, allora i neuroni cominciano a funzionare. L’elenco dei benefici non si esaurisce certo qui. Il numero degli occupati aumenterebbe, come suggerisce l’evidenza empirica (2). L’ambiente ne avrebbe un beneficio perché più tempo libero comporterebbe la possibilità di soddisfare i nostri bisogni in maniera più dolce, diminuendo l’impatto ambientale dei nostri consumi (3). Si aprirebbe la possibilità di raggiungere una vera parità di genere: orari ridotti permetterebbero un ribilanciamento del tradizionale squilibrio che lascia sulle donne la gran parte del peso della cura della casa e dei figli, penalizzandole ingiustamente sul lavoro (4). Infine la nostra salute, oggi più che mai sopra ogni cosa, ne gioverebbe perché orari prolungati ci rendono fisicamente e psicologicamente più fragili (5). Tutto ciò rende evidente che la settimana di 4 giorni a parità di salario contiene in sé la capacità di trasformare l’intera società, non solamente la nostra economia. Liberare tempo dal lavoro significa guadagnare tempo di libertà, dischiude la possibilità di sottrarci alla logica che ci vuole sempre impegnati a produrre o consumare. Proprio questa trasversalità dei benefici implica un potenziale inespresso nel campo della costruzione del consenso. Attorno al discorso sul tempo è possibile aggregare una maggioranza molto ampia. È una misura che risponde a chi chiede più tempo per le relazioni umane e la famiglia, a chi si batte per una società che sfrutti meno intensamente l’ambiente, a chi è prostrato da un lavoro che odia, a chi trova assurdo dover scegliere tra lavoro e figli. Naturalmente non è un tema nuovo. Il dibattito sulla riduzione dell’orario di lavoro è come un torrente carsico che scorre sotto di noi: periodicamente riemerge, viene messo in luce questo o quel beneficio, ma poi si inabissa nuovamente. Eppure già oggi esiste un’ampia maggioranza potenzialmente favorevole, come per esempio in Gran Bretagna, dove il 63% della popolazione è a favore della settimana di 4 giorni (6). Ma come sempre, per dirla con Nenni, le idee camminano con le gambe degli uomini e oggi ciò che manca è proprio qualcuno che abbia il coraggio e la lungimiranza di spendere il proprio capitale politico a sostegno di un’idea che forse può apparire utopica ma che è in realtà molto più solida e concreta di quanto potremmo esser portati a credere. NOTE: 1-https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/riduzione-dellorario-di-lavoro-come-politica-industriale/ 2-https://academic.oup.com/cje/article-abstract/25/2/209/1729807 3-https://www.peri.umass.edu/publication/item/503-reducing-growth-to-achieve-environmental-sustainability-the-role-of-work-hours-thomas-weisskopf-festschrift-conference-paper 4-https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S027795361730031X 5-https://www.jstage.jst.go.jp/article/jhe1972/30/1-2/30_1-2_197/_pdf/-char/en 6-https://autonomy.work/portfolio/4dayweekpolling/
Giorgio Maran
7 Ago 2020

Un piano nazionale straordinario per l’occupazione

Creare lavoro, contrastare la disoccupazione di massa, sarà, insieme con l’emergenza sanitaria che ci auguriamo possa prima o poi essere superata definitivamente, la vera urgenza per il nostro paese. Il calo delle ore lavorate secondo l’Ocse in Italia, nei primi tre mesi della crisi, è stato del 28%, mentre le domande per la Naspi sono aumentate del 40% rispetto allo stesso periodo del 2019. Quando prima o poi avremo la fine del blocco dei licenziamenti, il problema esploderà in tutte le sue dimensioni. I primi a pagarne le conseguenze saranno giovani e donne, ma riguarderà anche le fasce più adulte del mercato del lavoro. Sempre secondo l’Ocse entro fine 2020 avremo livelli record di disoccupazione nelle economie occidentali raggiungendo il tasso del 9,4% ed in Italia raggiungeremo il 12,4%, cancellando quattro anni di miglioramenti. Entro la fine del 2021, nella migliore delle ipotesi, senza nuove ondate di epidemia, scenderà all’11%. Eppure, il dibattito sulle soluzione possibili per creare occupazione segna il passo, e ciò a mio avviso può essere spiegato in due modi. Si ritiene che non ci sia niente da fare oppure troppo ottimisticamente si ritiene che, superata la crisi sanitaria, l’economia tornerà a crescere come prima e con essa l’occupazione. In entrami i casi, c’è un errore di analisi. Non sappiamo esattamente quanti anni ci serviranno per uscire dalla pandemia a livello globale e quanto tempo occorrerà all’economia mondiale per assorbire lo shock. L’economia, almeno quella europea ed italiana, prima del covid19 non cresceva affatto, anzi eravamo in piena fase di stagnazione deflattiva: infatti, non siamo solo dentro la peggiore crisi economica mondiale dal dopoguerra, ma essa si cumula alla seconda crisi più grave dal dopoguerra, senza che ne fossimo usciti. Perché serve un piano pubblico Non è, altresì, vero che la politica non può fare nulla. È anzi verosimile ritenere che di fronte ad una depressione economica globale, causato da una contrazione drammatica della domanda, solo un robusto intervento pubblico, sul modello del New Deal rooseveltiano, può determinare nel breve periodo, e non nel lungo quando per dirla con Keynes “saremo tutti morti”, una ripresa dei livelli occupazionali. Si tratta di impedire l’esplosione di una “bomba” sociale, che ridarebbe fiato alle destre populiste, e soprattutto sarebbe pericolosa per la tenuta delle democrazie. Tra l’”assistenzialismo” dei bonus e del Rdc e l’idea velleitaria di affidarsi alle magnifiche e progressive sorti del mercato, esiste una via inesplorata e che è invece la sola che realisticamente si può percorrere in queste condizioni. Sia la mano pubblica a creare lavoro, sia sostenendo le imprese e sia direttamente, attraverso l’intervento dello Stato e delle istituzioni pubbliche. L’altra strada, quella di incentivare fiscalmente le imprese in modo generalizzato, sarebbe inadeguata, perché è evidente che non basta incentivare l’offerta quando hai invece il problema della mancanza di domanda. Altro sarebbe invece puntare ad incentivi fiscali mirati, rivolti alle imprese che investono ed innovano, ma dentro un programma più ampio di investimenti pubblici a sostegno dell’occupazione e della domanda. Sconsiglierei invece di seguire la vecchia via ripetutamente battuta degli sgravi contributivi finalizzati alle assunzioni, magari concentrati nel sud, che non hanno mai fatto crescere più di tanto i tassi di occupazione. Ricordiamo che il governo Renzi nel 2015-2018 varò un programma robusto di sgravi, pari a circa 18 miliardi nel triennio, al termine del quale l’aumento del tasso di occupazione, piuttosto modesto, fu in gran parte dovuto alla crescita dei contratti precari, poiché le imprese alla fine del programma di sgravi licenziarono quasi la metà dei nuovi assunti e tornarono ad utilizzare i contratti a termine. Servirebbe invece riscoprire e attualizzare, nel contesto odierno dell’economia ai tempi del covid, l’intuizione di Luciano Gallino di un piano nazionale straordinario per l’occupazione* finalizzato alla green economy, idea rimasta purtroppo fino ad oggi inascoltata, se non dalla Cgil che provò, a sua volta inascoltata, a fare sua quella ispirazione elaborando una sua proposta di piano, finalizzata all’occupazione di giovani e donne, durante il governo Renzi.** La proposta Provo qui a indicare alcune linee generali di un piano di questo tipo (prendendo a riferimento le proposte prima citate). 1- Il piano nazionale straordinario per l’occupazione dovrebbe andare di pari passo ad un programma poderoso di investimenti pubblici e di politica industriale, quale quello che il Pd ha già avanzato, finanziato ovviamente dal Recovery Plan. 2- Il piano dovrebbe ovviamente consistere anche in un vasto programma di formazione professionale continua e permanente (quindi lo potremmo ribattezzare piano nazionale straordinario per l’occupazione e la formazione), per formare milioni di giovani e per riqualificare lavoratori adulti espulsi dal ciclo produttivo. 3- Il piano dovrebbe comprendere anche una svolta decisiva nelle politiche attive del lavoro, con un programma vasto di assunzioni a tempo indeterminato di personale formato che ci porti ai livelli degli altri grandi paesi europei (in cui abbiamo un orientatore ogni 40 disoccupati, in Italia uno ogni 400!). Portare i nostri servizi per l’impiego, anche nel sud, ai livelli europei sarebbe molto più efficace per contrastare la disoccupazione giovanile di qualsivoglia programma di sgravi contributivi per le assunzioni. 4- Del piano farebbe parte anche un programma di assunzioni di giovani nella pubblica amministrazione, potenziando quello che il governo sta già mettendo in cantiere, finalizzato alla sua modernizzazione, fino a 100 mila nuove assunzioni nel triennio, di cui almeno il 50% giovani e donne. 5- Assunzione di almeno 20 mila ricercatori con contratti a tempo indeterminato, di cui almeno il 50% giovani e donne, nei settori delle energie rinnovabili e dell’economia circolare. 6- Assunzione di almeno 300 mila persone con contratti straordinari di 3 anni + 3 (che danno diritto a crediti formativi e titoli per concorsi pubblici successivi) nei settori della prevenzione antisismica, manutenzione del territorio e bonifiche, cura delle coste e delle spiagge, cura sociale, formazione, rigenerazione urbana. 7- Assunzione con contratti triennali (che danno diritto a crediti formativi e titoli per concorsi pubblici successivi) di 100 mila persone nei settori dei beni culturali ed archeologici, economia digitale, insegnamento della lingua italiana ai migranti. 8- 60 mila occupati in nuove cooperative, composte per almeno il 50% da giovani, donne e disoccupati di lungo periodo, con sostegni a fondo perduto, facilitazioni amministrative e di accesso al credito, nei settori dell’agricoltura biologica, agriturismo, produzione culturale, tutela del territorio e della forestazione, assistenza familiare. 9- 20 mila occupati in nuove imprese giovanili con facilitazioni amministrative e di accesso al credito, sostegni a fondo perduto, nei settori del risparmio ed efficienza energetici, innovazione tecnologica, housing sociale. 10- Le risorse di questo piano dovrebbero essere destinate in quota maggioritaria al mezzogiorno e alle aree interne, stabilendo come criterio di ripartizione i livelli di disoccupazione giovanile, femminile e strutturale. 11- Il piano dovrebbe essere coordinato e monitorato da un’Agenzia nazionale e realizzato dalle regioni e dagli enti territoriali, con la costituzione di cabine di regia con il coinvolgimento delle parti sociali. Il quadro economico della proposta Il piano, con un impegno di spesa pubblica nel triennio di circa 30 miliardi di euro per 520 mila posti di lavoro nel pubblico e 80 mila nel privato, potrebbe generare un crescita complessiva di circa 1,4 milioni di occupati in più, compresi quelli che si generebbero indirettamente, determinare un tasso di disoccupazione più che dimezzato al 5%, ed una crescita del Pil cumula di circa 5,7 punti di Pil reale, nonché una riduzione del debito pubblico, sia per la nuova crescita nominale del Pil e sia per le entrate tributarie aggiuntive, nonché un aumento sensibile dei redditi famigliari e una riduzione delle diseguaglianze sociali e territoriali. Come finanziare il piano? Ovviamente con il Recovery Plan e i fondi della nuova programmazione europea, per una quota importante; con i risparmi che si potrebbero ottenere sul Rdc e sulla cassa integrazione; con la revisione degli sgravi contributivi e fiscali alle imprese; nonché con un contributo da parte delle grandi ricchezze a cui forse non è eresia chiedere in un simile contesto di farsi carico della solidarietà generale verso il paese. Altre risorse potrebbero venire dal coinvolgimento di Cassa depositi e prestiti, Fondazioni, sistema bilaterale (enti bilaterali, scuole edili, ecc.). Nell’attuazione del Piano dovrebbe esserci inoltre un coinvolgimento oltre che dei sindacati e delle associazioni di imprese, del terzo settore, delle associazioni culturali e ambientaliste, delle associazioni professionali, del mondo della ricerca e dell’università. Naturalmente, possono esserci altre proposte diverse da questa, più efficaci, ma credo sia difficile immaginare in un contesto di depressione economica mondiale, dovuta ad uno shock della domanda, soluzioni che non prevedano un ruolo diretto dell’intervento pubblico. Ciò che è certo è che creare lavoro e avanzare una politica incisiva per l’occupazione di giovani, donne e disoccupati di lunga durata non può che essere la priorità per il governo, ed il Pd ha il dovere di promuovere su questo una sua proposta. Andrea Catena è resp. Centro studi per la Rinascita del Pd Abruzzo /Resp. Nazionale aree montane del Pd *Un’agenzia per l’occupazione, obiettivo un milione di posti pubblici”, L.Gallino, Il Manifesto 29/04/2012 **https://www.rassegna.it/articoli/tutti-al-lavoro-la-proposta-della-cgil
Andrea Catena
5 Ago 2020

L’Europa e l’Italia alla prova del Recovery Fund

Se è vero che le idee camminano sulle gambe degli uomini, l’idea di un’Europa più solidale e inclusiva ha camminato con passo deciso nei corridoi di Rue della Loi a Bruxelles, sotto lo sguardo colorato del soffitto di Palazzo Europa. All’alba del 21 luglio scorso, dopo quattro giorni di trattative serrate in seno al Consiglio Europeo, i leader dell’Unione hanno siglato un accordo storico, sottoscrivendo il nuovo Quadro Finanziario Pluriennale per il periodo 2021 – 2027 (€1074 miliardi) e approvando l’inedito ‘Next Generation EU’ (€750 miliardi, di cui €390 miliardi di sovvenzioni e €360miliardi di prestiti), fondo destinato alla ripresa dell’economia europea dopo il lockdown delle attività produttive causato dalla pandemia (Conclusioni del Consiglio europeo, 17-21 luglio 2020). Il Recovery Fund: uno storico passo avanti nell’integrazione europea Il valore politico e simbolico dell’approvazione del Recovery Fund è stato immediatamente riconosciuto da molti commentatori, e salutato dal Commissario Europeo per gli Affari Economici Paolo Gentiloni come “la più importante decisione economica dall’introduzione dell’euro”. Sebbene la proposta di introduzione di ‘Coronabond’ depositata sul tavolo dei negoziati dall’esecutivo italiano sia stata formalmente accantonata nel corso delle trattative, per la prima volta nella sua storia la Commissione Europea viene autorizzata ad emettere debito comune per finanziare il fondo per la ripresa, in nome e per conto dell’Unione Europea. Nonostante non si tratti di una piena mutualizzazione dei debiti sovrani degli Stati Membri, l’accordo mette sulle spalle dei governi UE la responsabilità politica di una risposta comune alla difficoltà finanziarie seguite al lockdown delle attività produttive, segnando un punto di svolta non solo nel percorso di integrazione europea, ma anche nell’approccio degli esecutivi e delle istituzioni UE alla gestione delle crisi economiche. ‘Tutto ciò che è necessario’ per uscire dalla crisi Il contrasto deciso fra l’atteggiamento dei leader europei nella crisi 2008 – 2012 e quello tenuto nella crisi attuale è evidente nei fatti e nelle politiche adottate, ed emerge chiaramente se solo si considerano gli attori istituzionali protagonisti della svolta odierna nel confronto con quelli della Grande Recessione. Se nella crisi dei debiti sovrani del 2012 la Banca Centrale Europea si ergeva, quasi in solitudine, a difensore della stabilità dell’Eurozona e della tenuta economica dell’UE, la presente crisi ha impegnato tutte le istituzioni europee nel tessere un complesso disegno di politiche pubbliche convergenti, volte a liberare le capacità finanziarie degli Stati Membri, e creative nel costruire strumenti comuni innovativi per far fronte allo shock simmetrico conseguente l’interruzione delle attività produttive. Nella prima fase della pandemia, l’Unione ha fatto ricorso alle clausole di salvaguardia contenute nella disciplina della sorveglianza macroeconomica e della concorrenza, sospendendo il Patto di Stabilità e definendo un quadro normativo specifico e flessibile per la disciplina degli aiuti di Stato. Ha varato inoltre uno pacchetto decisivo di misure a sostegno delle imprese e dei lavoratori europei, mobilitando €200 miliardi a sostegno delle PMI tramite finanziamenti della Banca Europea degli Investimenti, e dando vita con SURE ad una cassa integrazione europea dal valore di €100 miliardi, realizzando quel progetto di ‘community unemployment benefit scheme’ da attivare a sostegno dei lavoratori europei in situazioni di crisi economica, immaginato per la prima volta nel 1975 dal ‘Marjolin Report’ (Report of the study group, “Economic and monetary union 1980”). Decisiva, ancora una volta, è stata la BCE nell’approvare una serie di politiche, e tra queste il neoistituito Programma di acquisto per l’emergenza pandemica (‘Pandemic Emergency Purchase Programme’, PEPP) del valore complessivo di €1.350 miliardi, finalizzato a ridurre i costi di finanziamento del debito e a sostenere cittadini, imprese e amministrazioni pubbliche nell’accesso ai fondi necessari per affrontare la crisi. Nonostante l’ampiezza e l’indubbia rilevanza del portafoglio di misure varate dalle Istituzioni europee, l’approvazione del Recovery Fund ha rappresentato il grande passo in avanti atteso nell’integrazione europea, ancora più indispensabile in un momento in cui in tutto il mondo l’azione delle banche centrali appare incapace di assicurare da sola effetti risolutivi della crisi. In tal senso, e a distanza di alcuni mesi, le (sfortunate) parole della Presidente Christine Lagarde nella conferenza del 12 marzo scorso (“We are not here to close spreads”) risuonano oggi come un chiaro monito ai governi europei a non scaricare interamente sulla BCE gli sforzi per agevolare l’uscita dalla recessione, spingendoli ad assumersi una responsabilità storica che questa volta doveva e non poteva non essere nelle mani della politica. Mai più austerity. Una politica economica espansiva per l’Unione Europea e l’Italia Il massiccio piano di interventi pubblici varato dalle Istituzioni UE e dagli Stati membri registra ed è la conseguenza di una netta inversione di tendenza rispetto all’approccio di austerità espansiva adottato nella crisi dei debiti sovrani, e ha ancora una volta un padre ideale nel Presidente Mario Draghi. Se nel luglio 2012 l’allora Presidente della BCE assumeva a nome dell’istituzione che guidava la responsabilità di “fare tutto ciò che è necessario per salvare l’Euro” (che per nostra fortuna, fu davvero “sufficiente”), spingendo coraggiosamente il suo mandato ai limiti dei confini delineati dai Trattati, il 25 marzo scorso lo stesso Draghi ricordava dalle colonne del Financial Times che “il giusto ruolo dello stato sta nel mettere in campo il suo bilancio per proteggere i cittadini e l’economia contro shock di cui il settore privato non ha alcuna colpa, e che non è in grado di assorbire” (Mario Draghi, Financial Times, Opinion, 25 marzo 2020). Una raccomandazione di politica economica dal valore programmatico, fatta propria dai governi europei nelle azioni a sostegno della ripresa a livello nazionale, e capace di orientare i leader dell’Unione nel coordinare una risposta pubblica di dimensione europea. In questo quadro, l’Italia si appresta a varare l’ulteriore scostamento di bilancio proposto dal Consiglio dei Ministri nella riunione dello scorso 22 luglio, per un valore di 25 miliardi di euro, al fine di rafforzare il sostegno economico stanziato per le imprese e prorogare la cassa integrazione (Comunicato Stampa del Consiglio dei Ministri, n. 57, 23 luglio 2020). L’imponente ricorso all’indebitamento del nostro Paese appare necessario per attutire i danni al comparto produttivo causati dal lockdown e garantire un sostegno prolungato ai redditi dei lavoratori più colpiti. Tuttavia, le stime di Banca d’Italia sulla manovra in approvazione, che fa seguito agli ingenti interventi degli scorsi mesi, prefigurano scenari complessi per l’economia italiana, con una caduta del 9,5% del PIL per il 2020, e con un livello di deficit delle Amministrazioni e di debito pubblico capaci di raggiungere rispettivamente l’11,9% e il 157,6% del PIL (Audizione parlamentare del Capo del Servizio Struttura economica della Banca d’Italia, Fabrizio Balassone, 28 luglio 2020). Al massiccio sforzo economico profuso dal governo dovrà pertanto corrispondere un altrettanto decisivo impegno del sistema-Italia a spendere con efficienza ed efficacia le risorse messe a disposizione dall’Europa (€209 miliardi dal solo ‘Next Generation EU’) e dal mercato, per il bene delle famiglie, delle imprese e dei lavoratori. I cittadini italiani, e in particolare i giovani, sui quali graverà nei prossimi anni il peso del debito assunto per fronteggiare la crisi, dovranno assumersi con consapevolezza la responsabilità della ripresa economica, che sarà frutto non della unilaterale azione dell’esecutivo, ma della reazione collettiva di un intero Paese. “Il fiore della speranza è tornato al centro del giardino europeo”, e spetta adesso agli italiani trasformare quella speranza in crescita e benessere per le generazioni presenti e future.
Andrea Vignini
28 Lug 2020

La comunicazione politica del centrosinistra

Molti, quasi come in una cantilena, sostengono, ripetendolo in continuazione, che la sinistra abbia tradito le sue origini e che gli unici che abbiano veramente qualcosa da proporre siano nella sinistra extraparlamentare. Consideriamo innanzitutto che, quelli che dovrebbero essere l’avanguardia vicina al popolo, in realtà stanno fuori dal mondo: parlano un linguaggio vetusto, arcaico, astruso, ultratecnicistico (specie in economia) e fanno un’analisi che alla fine non parla delle cose concrete. Certo, presentano molte proposte choc per l’economia e la società, purtroppo inattualizzabili sul breve termine: pur concordando con queste forze sulla disumanità raggiunta del capitalismo, non è fattibile cambiare il sistema economico dalla sera alla mattina, ma bisogna dare dei correttivi per fare i miglioramenti necessari ad una transizione graduale verso un sistema economico più umanizzante. In tutto questo sembra che le forze di centro-sinistra parlamentari non siano capaci di comunicare con-vincentemente le loro proposte e anche i risultati ottenuti, offuscati dunque da questa cattiva capacità comunicativa. Contraltare di questa tensione ad intra è l’attuale destra capace di creare mirabolanti e coinvolgenti narrazioni, quasi delle epopee con cui catturare l’elettorato. Per tale motivo spesso, anche da sinistra, la sinistra parlamentare è accusata di mancare della capacità di regalare un sogno ad un popolo tanto disilluso da farsi illudere spesso dal narratore di turno. Ecco, nei dibattiti attuali di qualsiasi genere non c’è più la presentazione di un problema, un’argomentazione, una soluzione o un tentativo di soluzione: al contrario c’è tutta una narrazione che banalizza i problemi, creando slogan, frasi fatte e spesso anche fake news. Io preferisco cercare di spiegare le cose per bene, di essere onesto con me stesso e con gli altri, di portare le persone con un minimo di razionalità a capire quali sono i problemi e le soluzioni possibili al di là delle facilonerie di certi venditori di fumo. Certo, bisogna semplificare il linguaggio bisogna essere più chiari, più veloci: non si possono scrivere post lunghissimi che, seppure ineccepibili a livello di contenuto, dopo poche righe fanno stancare il lettore digitale; però è anche vero che non si può permettere che la sinistra si livelli sulla destra, abbassandosi ad una narrazione banalizzante oppure riproporre schemi non più al passo coi tempi odierni. Bisogna cambiare, essere più efficaci e più comunicativi, in questo senso più chiari, senza fare discorsi prolissi e barocchi, però non si può portare la sinistra che ha certi valori, quale sia la declinazione (comunista, cattolica, socialista, socialdemocratica eccetera), a scimmiottare la destra o l’estrema sinistra con facilonerie da bar o da circolo intellettuale elitarissimo. Altrimenti si finirebbe per tradire quegli stessi valori di cui la sinistra extraparlamentare si lamenta che le forze di centro-sinistra abbiano perso ma che, se avvenisse veramente questo tipo di cambiamento a livello comunicativo-espositivo, a livello di proposta di propaganda, direbbero poi che hanno tradito la razionalità, cedendo a questa becera propaganda per slogan che vanno alla pancia, all’irrazionalità delle persone. Ecco, l’irrazionalità no, però sul sentimento sì, su quello bisogna lavorare: far passare la comunicazione dunque attraverso il livello dei sentimenti, dei buoni sentimenti, dei buoni valori, per far sì che il contenuto trasmesso inizi ad agire, piano piano all’inizio e poi sempre di più, anche sull’intelletto.
Dario Domenicali
28 Lug 2020

La storia de l’Unità merita di più

Citando Salvemini, che ritornò ad insegnare all’Università di Firenze dopo 24 anni dall’ultima volta in Italia dopo la dittatura fascista: “Come stavamo dicendo l’ultima volta…”, vorrei riprendere anche io a scrivere sulla testata che racchiude i pensieri dei militanti e dei dirigenti del mio partito. “Immagina”, però non è esclusiva, perché ha certamente il compito rimettere in moto intellettualmente il partito, ma anche e forse soprattutto serve a coinvolgere sensibilità apartitiche, ma certamente non apolitiche. Credere che la Sinistra si possa rinchiudere in un contenitore chiuso è un errore che abbiamo commesso per anni e appunto le sfiducia verso i partiti non si è evoluta in perdita di partecipazione nelle associazioni che promuovono solidarietà e che si concentrano su temi specifici, ma comunque del nostro campo: diritti sociali, civili, ambientalismo e femminismo. L’ultima volta che scrissi su una piattaforma simile avevo 17 anni ed era il 2015, il giornale era l’Unità online. Vi era stato un litigio epistolare tra Cuperlo e l’allora direttore Staino. Vedendo la frenesia politica del mondo di oggi stiamo parlando di tre o quattro vite fa, ma storicamente è l’altro ieri. L’epilogo del giornale “Fondato da Antonio Gramsci nel 1924” la sappiamo tutti ed è una ferita aperta che stiamo pagando ancora oggi: politicamente abbiamo perso un simbolo, un meraviglioso simbolo che ci legava alle nostre radici; intellettualmente, invece, c’è stata una diaspora di giornalisti, intellettuali e soprattutto di lettori di Sinistra. Non sono uno storico dell’editoria, ma sicuramente in questo 2020 anche nel mondo del giornalismo abbiamo avuto una disgrazia: la concentrazione dei giornali più importanti in mano di pochi imprenditori, che oltre a controllare la linea editoriale, presentano palesi conflitti di interessi, fanno azioni di lobbying e pubblicando a ruota contenuti di bassa qualità e sensazionalistici per attirare clienti indignati. Non faccio nomi di giornali per rispetto dei dipendenti, i quali, però, appena vi è stato il cambio di gestione hanno voluto esprimere il loro disappunto. Credo a chi mi riferisca sia abbastanza palese. In questi anni, però, le attenzioni dei lettori più appassionati non si sono lasciate scemare accettando un compromesso a ribasso, ma si sono rivolti ad altro, perché per fortuna sono esplose teste online e riviste completamente nuove o altri giornali storici hanno assunto una linea innovativa, penso a: la rivista Pandora, a Left, a Jacobin Italia, a l’Espresso o anche quotidiani da il Manifesto ad Avvenire. Come succede sempre: i vuoti lasciati da qualcuno vengono riempiti da altri, ma essendo noi di Sinistra quello che prima faceva l’Unità, ora lo fanno in sette o otto. Il problema è legato a tutti gli altri lettori che non hanno tempo di fare una rassegna stampa per leggere più opinioni differenti per farsi un’idea completa dei temi, figuriamoci dedicare a un magazine di politica un weekend intero. Credo, quindi, che occorra rimettere al centro della discussione di questo paese l’importanza di un giornalismo libero da padroni e di un ordine dei giornalisti che sia efficiente e intervenga quando vi sono concentrazioni pericolose oppure quando un giornale supera il limite della decenza (e diciamocelo: molte volte sono dichiaratamente di Destra e giustificano razzismo, misoginia e altre forme di intolleranza con il fatto di non volersi adeguare al politially correct), ma anche federare tutti quei bravi e capaci editori indipendenti, giornalisti e giornaliste di ottima qualità, che sono sparsi nel paese. Personalmente mi dispiaccio ogni anno quando esce l’edizione straordinaria de l’Unità per non far decadere la testa. Molte volte le firme dei direttori di questi speciali sono proprio di quei soggetti che infangano il nome della categoria dei giornalisti. Non farò un riassunto della vicenda giudiziaria, ma pongo qui una proposta che spero che i dirigenti della Sinistra (anche largamente detta) possano recepire e capire: credo che per l’esperienza ci abbia dimostrato che un giornale così storicamente e ideologicamente importante come l’Unità serva per la Sinistra, ma anche per il Paese, che la domanda di un giornale del genere esista, ma è sopita e/o troppo atomizzata e soprattutto che la rifondazione di questa testata debba segnare il definitivo divorzio con il partito, perché quest’ultimo può avere evoluzioni inaspettate, scindersi o addirittura sparire, perché, soprattutto in Italia, i partiti sono ciclici. Sarebbe bene che la Storia de l’Unità non si fermi quando vi è una battuta d’arresto del partito. Non se lo merita. Dovrebbe essere il faro nel momento di smarrimento e non l’agnello sacrificale. Tra 4 anni sarà il centenario della fondazione e non mi voglio immaginare che il cambio rotta che abbiamo intrapreso non passi anche da qui. Anche lo stesso Gramsci nella lettera che scrisse per l’esecutivo del PCd’I del 12 settembre 1923 scrisse: “Il giornale non dovrà avere alcuna indicazione di partito. Dovrà essere un giornale di sinistra. Io propongo come titolo <> puro e semplice che sarà un significato per gli operai e avrà un significato più generale.” Per quanto riguarda la parte più concreta della ricostituzione, per me sarebbe bene che la struttura societaria fosse una cooperativa giornalistica con azionariato popolare, che è tipico delle società sportive, ma in tal caso i lettori sarebbero soci e investitori. Sono sicuro che c’è un popolo disposto sostenere questa idea e professionisti che sarebbero orgogliosi di contribuire. Come spesso accade: la parte più difficile è iniziare, il resto è tutto in discesa. Hic Rhodus, hic salta.
Filippo Simeone
15 Lug 2020

Il PCI di Berlinguer e la Lega di Salvini: due mondi distanti anni luce

Uno dei più celebri aforismi attribuiti al genio di Albert Einstein recita: “due cose sono infinite, l’universo e la stupidità umana, ma riguardo all’universo ho ancora dei dubbi”. Tra le numerose cose stupide dette da Salvini da quando ha deciso di fare il politico di professione, quella recente su Berlinguer è assolutamente inaccettabile oltre che pericolosa. Da qualche giorno circola l’indiscrezione che la Lega dovrebbe aprire una propria sede nel cuore della Capitale in Via delle Botteghe Oscure 54 di fronte a quella che è stata per 50 anni la storica sede del Partito Comunista Italiano. Poco male, si dirà. In fondo, a quel civico sono già presenti gli uffici della UGL, sindacato di destra, e lo staff social di Salvini guidato da Luca Morisi. Ciò che rende, però, l’intera vicenda inaccettabile è quando Salvini dichiara “i valori di una certa sinistra che fu, quella di Berlinguer, i valori del lavoro, degli artigiani, sono stati raccolti dalla Lega, se il Pd chiude Botteghe Oscure e la Lega riapre io sono contento, è un bel segnale”. Aldilà di evidenziare come il solo fatto che Berlinguer e il PCI possano essere toccati da un pensiero di Salvini o da una sua dichiarazione, rappresenti una sventura da non augurare al peggior nemico, è necessario denunciare l’inconsistenza di quelle parole. Il PCI di Berlinguer è stato quanto di più distante possa esserci dal sovranismo in salsa leghista che abbiamo imparato a conoscere in questi anni. Un sovranismo fatto di beceri slogan, selfie mangerecci, felpe di ogni tipo, razzismo galoppante. Gli ingredienti ideali per ergersi a capo-popolo senza però che si risolvano i problemi del popolo. Berlinguer durante i suoi anni di segreteria diede al Partito, tra gli altri, un ruolo educativo verso intere fasce sociali, soprattutto le più deboli. Il PCI di quegli anni è stato un autentico partito popolare, non populista perché abbracciava i problemi sociali non per cavalcarli, ma per trovarne una chiave di lettura e una soluzione. Non era banale e non cadeva nel macchiettismo volgare tipico di Salvini. Tuttavia, la dichiarazione di Salvini è anche pericolosa, e su questo si dovrà riflettere, perché brandire con tanta disinvoltura una presunta eredità dei valori di una certa sinistra è la spia di un distacco che gli eredi di quella scuola politica avrebbero dovuto preservare, custodire e innovare. In condizioni normali, nessuno proveniente da altre storie politiche si sarebbe permesso anche solo di pensare di rivendicare una tradizione forte come quella del PCI e di Berlinguer. Nel 2013 i segnali di questo fenomeno sono esplosi alle elezioni politiche quando il M5S raccolse 8,6 milioni di voti che diventarono quasi 11 milioni nel 2018 con percentuali bulgare proprio tra le fasce sociali più deboli. In quegli anni, furono proprio i 5S a saper capitalizzare al meglio, da un punto di vista elettorale, il disagio sociale con proposte populiste, ma pur sempre dando risposte ad un malessere crescente. Le parole di Salvini trovano una loro giustificazione propagandistica se guardiamo a questo fenomeno di scarsa rappresentanza dei ceti più deboli da parte del partito che invece dovrebbe rappresentarli. Forse la dichiarazione farneticante del leghista potrebbe avere, però, un pregio ossia scuotere l’intero campo di centrosinistra, PD in primis, a non poter più rinviare una profonda riflessione sull’Italia e sull’Europa che vogliamo, su quali pilastri sociali dovremo poggiare il Paese nei prossimi anni, su quale progetto politico vogliamo presentare agli italiani. Perché se non si segue questa strada, il vero incubo sarà trovare, stavolta al civico 4 di Via delle Botteghe Oscure, qualcosa di peggiore dei nuovi vicini. Antonio Angelino, Circolo PD Donna Olimpia, Roma
Antonio Angelino
9 Lug 2020

Il Pd trovi una soluzione per l’avvilente precarietà giovanile

È da 5 anni che mio figlio lavora con contratti di somministrazione nell’industria. Ha 35 anni e prima con Renzi, poi con Di Maio e oggi con Covid non può avere la gioia di un contratto definitivo. Bisogna prevedere contributi straordinari per le imprese che assumono giovani che per anni vivono questa situazione avvilente di precarietà. I contributi a pioggia permetteranno alle imprese di assumere con contratti da schiavi in somministrazione attraverso le agenzie con buona pace ai diritti. Da iscritto al PD sono stanco di dire che solo il PD potrà risolvere il problema. Ormai non sono più credibile. Se non ricevo nessuna risposta dico io addio al PD.
Leonardo Di Monte
29 Giu 2020

Suggerimenti per il mercato dell’auto post Covid

Alla ripresa delle attività lavorative dopo la fase 2/3 ci sarà un impiego di mezzi pubblici più limitato che nel passato e, conseguentemente, un forte aumento dell’uso di auto private. Poiché il parco auto italiano è mediamente molto anziano c’è da aspettarsi un aumento dell’inquinamento atmosferico nelle grandi città e nella pianura padana. Si deve quindi incentivare il mercato dell’auto, non solo per il motivo di cui sopra, anche perché intorno ad esso gravitano moltissimi posti di lavoro: industrie, concessionarie, officine, industrie di accessori e di componenti di moltissime tipologie. Molti cittadini sono in difficoltà ed altri, pur avendo la possibilità, sono spaventati e tendono a non comprare e quindi a non mettere in circolo la loro disponibilità economica. Bisogna quindi aiutare i primi ed incentivare gli altri ad acquistare automobili nuove, più sicure ed ecologiche. Suggerisco due semplici provvedimenti: 1. Azzerare l’IVA fino a tutto il 2021, ripristinarla per metà della quota attuale fino a tutto il 2023. 2. Incentivare la rottamazione di auto a benzina di età superiore a 8 anni e i diesel fino ad euro 5. L’incentivazione deve essere collegata all’acquisto di auto nuove non solo elettriche (che rappresentano ad oggi il 2% del mercato), ma anche a benzina, gas e ibride. Bisogna cercare di far lavorare a pieno ritmo gli stabilimenti italiani (che attualmente producono tutti i tipi di auto, solo in minima parte elettriche) e conseguentemente ridurre il numero di persone in cassa integrazione. Suggerisco tre provvedimenti da studiare con attenzione: 1. Stipulare un accordo con FCA per i prossimi rinnovi dei parchi delle auto operative e di servizio acquisite dallo Stato, dalle Regioni e dagli Enti pubblici. Siano esse versioni speciali, funzionali a scopi particolari e dal giusto valore purche’ costruite negli stabilimenti italiani. 2. Accedendo al finanziamento MES potrebbe convenire rinnovare il parco di auto mediche ed ambulanze ormai vecchie. Sarebbe opportuno coinvolgere, oltre ad FCA, le aziende emiliane che costruiscono apparecchiature elettromedicali. 3. Per le auto che escono dagli stabilimenti italiani lo Stato eroghi, per i privati nei prossimi anni, un finanziamento al 110% fino alla cifra di 20000 euro da restituire in 5 anni. Il prestito deve poter essere girato ad una banca o alla concessionaria. Buon lavoro! Distinti saluti Paolo Tiberio Professore Emerito Dipartimento di Ingegneria “Enzo Ferrari” Università di Modena e Reggio Emilia PS. Per evidenti motivi di immagine dell’Italia i nostri Parlamentari dovrebbero impegnarsi a non arrivare davanti ai palazzi del Senato e della Camera con auto straniere (a parte coloro che necessitano di auto ad elevato livello di blindatura). Analogamente dicasi per gli Onorevoli regionali.
Paolo Tiberio
28 Giu 2020

Più risorse per i disabili

Mi faccio portavoce delle esigenze dei disabili psichici e fisici e delle persone fragili. Soggetti che se va bene, a oggi, hanno un assegno dai 18 ai 67 anni di soli 297 euro mensili. Sono un piccolo aiuto che non consente nessuna indipendenza per le persone invalide. La Corte Costituzionale ha portato a 516 pare gli euro mensili equiparando l’invalidità alla pensione minima. È un primo buon passo che tuttavia sarebbe toccato alla politica fare, in particolare ai 5 stelle alleati del PD come da promessa in campagna elettorale. Ora ci si aspetta la riapertura dei centri diurni e delle visite a chi è nelle residenze protette oltre che la ripartenza dei tirocini di lavoro terapeutici. Il tema mi è particolarmente a cuore e vedo nella mia famiglia un aiuto concreto ma non tutti sono fortunati a essere aiutati e l autonomia di vita indipendente anche per me è sinonimo di dignità di vita. A 29 anni infatti, dopo essermi ammalato nel 2013 e nonostante ciò finendo gli studi nel 2016 in Scienze politiche a Padova e Servizio Civile nell’anno 2017. Purtroppo nel 2018 come spesso accade alle persone fragili e da qui la mia disabilità riconosciuta nel 2019 sono ricaduto in malattia seppur meno grave. Necessitando di cure che per fortuna il nostro buon Servizio sanitario nazionale riconosce insieme al tirocinio della Regione veneto sto ripartendo e spero come tutti in una vita indipendente e perché no soddisfacente (sto studiando ancora Diritto interrotto nel 2018 causa malattia) partecipando ai concorsi pubblici per le categorie protette. Spero nella completezza dell’analisi oltre che lunghezza mi piacerebbe vederla pubblicata sul sito Immagina standomi a cuore il tema. Un saluto cari compagni di partito (sono iscritto da Maggio 2018 e ho appena rinnovato l’iscrizione del 2020 per una sinistra popolare attenta ai bisogni dei più deboli e sociali oltre che ambientali).
Matteo Santato
26 Giu 2020

La complicata coesistenza tra gli istituti di cura pubblici e privati

Tra le numerose crepe sociali, politiche ed economiche messe in luce dall’emergenza Covid-19, quella che maggiormente ha avuto impatto e risalto, per ovvie ragioni, è stata la problematica cooperazione tra gli istituti di cura pubblici e quelli privati. Le difficoltà riscontrate in molte regioni, soprattutto in quelle più colpite dal virus come la Lombardia durante la gestione dell’emergenza, hanno evidenziato una questione riguardo alla quale è cresciuto sempre di più negli ultimi anni un acceso dibattito politico: quale sanità funziona meglio? È più utile privilegiare la sanità privata o quella pubblica? Esiste una giusta proporzione di coesistenza? Sicuramente l’emergenza ha reso chiaro più che mai quanto la sanità e la tutela della salute dei cittadini rappresentino a tutti gli effetti un così detto asset strategico nazionale. Partendo da questo presupposto, quindi, quali risposte si possono dare per trovare una nuova prospettiva risolutiva della questione? In primis, bisogna ricordare che la nostra Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività: non esistono dunque, come ha affermato qualcuno in questi giorni, pazienti “ordinari” e “non ordinari”; il nostro sistema democratico garantisce a tutti i cittadini, senza nessuna distinzione, il diritto a essere adeguatamente assistiti in caso di necessità. Di conseguenza, si potrebbe giungere alla facile conclusione che le due principali possibilità siano le seguenti: o la sanità pubblica dovrebbe avere necessariamente le capacità per far fronte ai bisogni di tutti i cittadini anche senza l’esistenza della sanità privata; oppure, viceversa, con la sola esistenza della sanità privata, lo Stato dovrebbe debitamente garantire la copertura delle spese per ogni cittadino, sostenendo direttamente tutti i costi. Privilegiare esclusivamente l’una a discapito dell’altra però non sarebbe possibile né giusto, in quanto gli istituti di salute privati avrebbero comunque un’importante utilità sociale e – essendo il frutto di un’iniziativa economica privata e libera – la loro esistenza sarebbe di diritto garantita dalla nostra Costituzione. La coesistenza sembra perciò essere l’unica soluzione possibile, ma in quale misura? Se molti dei problemi legati alla gestione dell’emergenza sanitaria nascono proprio dalla mancata o comunque difficile collaborazione tra i due sistemi, come si può pensare di proseguire su questo percorso? Dalla “crepa” della sanità, come avrebbe detto Stein Rokkan, si sono generate due linee di pensiero opposte, che vedono da un lato i sostenitori della gestione pubblica e dall’altro i sostenitori di quella privata, ma come visto, nessuna linea può escludere l’altra. In questa impasse quindi, il compito di chi davvero difende la Democrazia è quello di trovare una giusta sintesi tra le due linee, tenendo ben presente che da un lato la salute degli individui e della collettività, diritto garantito dalla Costituzione e asset strategico nazionale, non può non essere una prerogativa dello Stato e che dall’altro l’iniziativa privata, necessaria allo sviluppo della società e della libertà, deve comunque essere tutelata. Trovare una giusta proporzione di coesistenza e creare gli strumenti adatti e necessari a rendere i due sistemi cooperativi e integrati è possibile: il Sistema Sanitario Nazionale deve occuparsi necessariamente di tutti quei servizi indispensabili alla salute pubblica come: la gestione esclusiva dei Pronto Soccorso, l’erogazione dei servizi di assistenza ospedalieri per le persone affette da malattie fisiche e/o psichiche, l’erogazione delle terapie salvavita, etc. A fianco a ciò, gli istituti di salute privati dovrebbero erogare tutti quei servizi di non primaria necessità come ad esempio l’erogazione dei servizi non urgenti (esami radiologici, prelievi e analisi ematiche di routine etc.) garantendo però la propria disponibilità al servizio pubblico, che, in caso di estrema necessità, potrebbe disporre delle strutture e del personale. Se si verificasse una situazione di portata nazionale o internazionale, deve essere infatti dello Stato, che si compone dei cittadini, la prerogativa della tutela della salute della collettività, e non dei privati che, in ogni caso, agiscono nell’ottica di un interesse particolare, cioè il profitto. In poche parole, bisognerebbe stabilire due (o più) livelli di necessità, da assegnare a seconda dei casi all’uno o all’altro sistema, creando un apposito e ben definito sistema normativo che non faccia nessun discrimine tra i cittadini se non sulla base dell’urgenza e della contingenza della propria necessità e che renda chiaro che in caso di eventi di interesse nazionale non dovrebbe esistere nessun principio di sussidiarietà. Tutto ciò partendo da un più ampio quadro di riforma costituzionale che dovrebbe riportare la gestione della sanità interamente in mano allo Stato, eliminando le disparità e le disfunzioni esistenti tra i vari sistemi regionali, che hanno causato, come visto purtroppo nella crisi che stiamo vivendo, non pochi danni.
Francesco Carfì
26 Giu 2020

Il metano non è adatto alla transizione energetica

Ultimamente, si parla tanto di tematiche ambientali; gli ultimi report, dell’IPCC, hanno evidenziato la necessità di agire, subito, per contenere gli effetti della crisi climatica. Per raggiungere gli obbietti prefissati, dovremo operare su più fronti; uno degli aspetti principali, riguarda la transizione energetica, verso le così dette “fonti rinnovabili”. Queste ultime, consistono in sistemi di produzione illimitati e ad impatto ambientale pressoché nullo; rientrano, in questa categoria: l’energia eolica, quella fotovoltaica, quella idroelettrica, quella geotermica, quella termodinamica e quella a biomassa. A breve, probabilmente, verrà introdotto anche un’altro sistema, capace di sfruttare le onde del mare, per raggiungere tale scopo. Nonostante il nostro territorio sia ricco di risorse, ed esistano vari sistemi per produrre energia “verde”, alcune Regioni – in accordo col governo centrale – hanno deciso di promuovere lo sviluppo di grandi opere, inutili; parliamo del metanodotto, in Sardegna, e del gasdotto, Trans-Adriatico, nel sud Italia. Questi progetti, purtroppo, non rappresentano un reale modello di transizione; il gas naturale, infatti, contribuisce all’effetto serra e non aiuta a risolvere la crisi climatica; sarebbe opportuno, invece, semplificare alcuni iter burocratici e incentivare lo sviluppo di una grande comunità energetica, “green”. I ragazzi e le ragazze di Fridays For Future, in accordo con gli esperti del settore, hanno realizzato una serie di linee guida, consultabili sul sito http://www.ritornoalfuturo.it; queste ultime, danno informazioni utili su come effettuare il processo di transizione. I decisori politici, volendo, potrebbero consultarle, per effettuare scelte più consapevoli. Concludo il discorso ribadendo che il gas non può essere un mezzo utile a condurci fuori dall’epoca del carbone; abbiamo le conoscenze scientifiche e le tecnologie, necessarie, per prendere le giuste decisioni e proiettarci verso un futuro sostenibile; quindi, cosa aspettiamo ad utilizzarle? Vorremmo, ora più che mai, un vero #ritornoalfuturo.
Mattia Cucca
26 Giu 2020

Parità di genere nel sistema elettorale Pugliese

Tra un paio di mesi la Puglia andrà al voto per il rinnovo del Consiglio Regionale. Un Consiglio Regionale, quello uscente, che, colpevolmente, in questi cinque anni nulla ha fatto per introdurre nella propria legge elettorale il principio della parità di genere come indicato dalla nostra Carta Costituzionale e dalle Leggi n. 20 del 2016 e n.165 del 2017. Eppure in questi anni moltissime sono state le sollecitazioni, provenienti da ogni settore della società, per procedere in tale direzione. Non da ultimo, il 5 giugno scorso le Consigliere di Parità Regionali Anna Grazia Maraschio e Stella Sanseverino in una lettera indirizzata al Ministro Boccia dichiaravano “Condividiamo l’appello del Presidente Emiliano fatto nei giorni scorsi al Governo per un intervento legislativo nazionale che obblighi, senza ulteriori differimenti, il Consiglio Regionale Pugliese ad adeguare la propria legge elettorale ai principi costituzionali. Avvertiamo la necessità – scrivono le Consigliere – di rivolgerci a Lei e chiedere un’audizione in Conferenza Stato-Regioni per portare alla Sua attenzione alcune riflessioni in merito all’adozione di specifiche misure per la promozione delle pari opportunità̀ tra donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive.” Sempre il 5 giugno scorso, la Presidente della Commissione Pari Opportunità, Patrizia del Giudice, scriveva al Presidente per la nota questione dell’adeguamento della legge regionale elettorale n.2 del 2005 alla legge quadro nazionale n. 20 del 2016, in materia di equilibrio di genere dichiarando “ …..di recente Ti è stata offerta la grande possibilità di superare con la Tua autorità e con l’esercizio del potere che Ti compete l’impasse cui sembra (volontariamente?) caduto il Consiglio regionale.”, riferendosi a quanto dichiarato sull’argomento, alla stampa locale, da Marida Dentamaro, autorevolissima avvocato e docente di diritto amministrativo e già senatrice componente della commissione Affari Costituzionali del Senato: “La norma statale è autoapplicativa. Emiliano, se volesse, potrebbe introdurla nel decreto di indizione delle elezioni, senza il voto del Consiglio”. Condivido tali appelli ma non vorrei che facendo ciò si legittimi la deresponsabilizzazione della maggioranza consiliare. Troppo semplice riversare ogni responsabilità sul Presidente Emiliano dimenticando come, nella campagna elettorale del 2015 la coalizione di centro-sinistra siglò un PATTO con tutta la Comunità Pugliese con la sottoscrizione di un programma elettorale in cui la parità di genere divenne uno dei punti programmatici. Il programma di governo, che porto all’affermazione di Michele Emiliano, fu realizzato attraverso un inedito processo partecipativo, con l’obiettivo di coinvolgere tutte le sei province pugliesi. Tremila cittadini di tutta la regione contribuirono a scrivere quell’agenda politica, dando vita a un percorso di confronto e di proposta che ha visto protagonisti i territori, gli amministratori, i sindaci, i partiti, i movimenti, il mondo dell’impresa e del sociale, le associazioni allo scopo di costruire insieme le linee guida del governo della Puglia. Un circolo virtuoso fra la democrazia partecipata e quella rappresentativa. La visione strategica di questo documento, fortemente ancorata ai valori della Costituzione repubblicana, è quella di una regione competitiva, coesa e sostenibile, che valorizza gli asset specifici dei territori come leve fondamentali di un nuovo piano di programmazione per lo sviluppo economico e sociale della Puglia. Ebbene, in quel programma si affermò “l’Approvazione di una nuova legge elettorale che restituisca dignità alle istituzioni e alle donne, introducendo la doppia preferenza di genere, …” (RIASSETTO ISTITUZIONALE, Azioni) ed ancora “Non esiste cittadinanza pienamente realizzata senza un’effettiva parità di genere. Già 3 anni fa ben 30mila pugliesi presentarono al Consiglio regionale una proposta di legge d’iniziativa popolare, che avrebbe introdotto la doppia preferenza, nel rispetto dell’art. 117 della Costituzione italiana. Nelle precedenti due legislature, il Consiglio regionale ha respinto questa proposta. Noi la consideriamo parte integrante del nostro programma di governo e ci impegniamo a realizzarla nella prossima legislatura, modificando l’attuale legge elettorale in direzione di un riequilibrio di genere della rappresentanza. Il tema della democrazia paritaria è uno dei punti cardine di un modello di welfare maturo che sappia andare oltre il bisogno.” (DIRITTI E CITTADINANZA, Azioni). Un patto di sincerità con i cittadini ma soprattutto con le cittadine, il contrario della demagogia. Vi è, quindi, un impegno morale, etico e politico che i consiglieri di maggioranza (uomini e donne) avevano assunto con tutto l’elettorato soprattutto con quello femminile che in Puglia, tra l’altro, rappresenta con oltre il 51% la maggioranza degli elettori. Donne che in una tornata elettorale potrebbero rappresentare, numeri alla mano, l’ago della bilancia e che necessitano di un’equa rappresentanza nelle posizioni decisionali. Ma in un sistema di machismo imperante come si può garantire un’equa rappresentanza politica alle donne? Come possono le donne fare la differenza nei processi decisionali relativi alla cosa pubblica con le loro competenze e la differente visione della vita e del futuro? Ecco che la doppia preferenza di genere rappresenta un valido strumento per dare piena attuazione non solo al dettato normativo ma, anche, per un’effettiva parità dei diritti delle donne. Attendiamo che il Consiglio Regionale della Puglia voglia rispettare il patto sottoscritto nel 2015 con la sua comunità. Auspichiamo coerenza perché è questa che da credibilità a chi agisce. Ma se così non fosse? Beh, ricordino le donne nel recarsi alle urne che in Puglia rappresentano più del 51% dell’elettorato, un elettorato che può fare la differenza!
Anna Toma
23 Giu 2020

Burocrazia e sindaci

Se qualcuno mi chiedesse qual è stato il nemico peggiore in questi sei anni da Sindaco io non avrei dubbi a rispondere. Non è stata certamente l’opposizione, che ha svolto la sua parte; non sono gli insulti sui social, espressione di una società profondamente segnata da anni di crisi e da una politica, troppo spesso, non all’altezza; non sono stati i debiti ereditati, che stiamo cercando di onorare districandoci in un labirinto di norme, codici, codicilli da fare impazzire. No, il nemico peggiore è stata ed è una burocrazia assurda, deresponsabilizzata e priva del contatto con la realtà. Una battaglia continua, quotidiana che sono costretti a combattere tutti i sindaci di questo Paese. Fare 150 metri di strada, nulla di trascendentale, significa aspettare sei anni e questo la dice lunga sulla folle condizione di questa Nazione, soffocata da decine di enti inutili e competenze assegnate qui e là senza logica. Non esiste neppure una certezza. Rispetti tutte le norme e poi ti dicono che sono cambiate e ti costringono a ricominciare. Vale per il privato così come per il pubblico. Ogni giorno ti alzi e aspetti una comunicazione di qualche ufficio ministeriale o similari, che ti costringe a rincorrere tempi e risorse. Che razza di Paese è questo, dove tutto è incerto e per fare un’opera pubblica bisogna aspettare anni tra la progettazione di massima e l’inizio dei lavori. Una giostra impazzita dove tutti hanno diritto a intervenire, di esercitare il loro potere fine a se stesso mentre i comuni languono e devono trovare risposte alle comunità in mezzo a queste sabbie mobili. Norme vecchie, meri esercizi di un diritto presuntuoso e inefficace, a fronte del bisogno sempre più forte di un sistema all’altezza dei tempi, che possa rispondere alle esigenze delle persone e preparare un futuro migliore. Un veterosadismo preventivo che fa a pugni con la mancanza di un sistema incentrato sullo snellimento delle procedure, contestualmente a meccanismi che garantiscano controlli seri e zero condoni. Perché in questo Paese se sei onesto e rispetti le norme, troppo, troppo spesso, grazie alla logica “condonizia”, resti indietro e subisci pure una beffa. In questi giorni sto sentendo mille proposte per rilanciare il Paese, ma se non partiamo dal ridimensionamento della burocrazia, dallo snellimento delle procedure, dal superamento di una tutela del territorio maniacale e facilmente aggirabile da chi commette abusi o da chi trova sempreverdi scorciatoie, da una giustizia civile certa e veloce l’Italia non ce la farà. Investire miliardi di euro per poi bloccare tutto in un rivolo di autorizzazioni, in un coacervo di obblighi e competenze, significa produrre il nulla. Cambiamo davvero l’Italia, partendo dal ridimensionare il peso di una burocrazia insensibile ai bisogni del Paese, lontana dalle legittime aspettative delle persone, deresponsabilizzata e terreno di coltura per la corruzione. Ridimensioniamo il ruolo di enti assurti a livello di divinità intoccabili, in grado di bloccare tutto e trasformare, nella testa di zelanti quanto incapaci funzionari il vecchio in antico, il rame in oro. Ascoltiamo i sindaci che vivono quotidianamente il peso di una istituzione di prossimità, profondamente legata al territorio e alle persone, impegnati a trovare soluzioni ai bisogni delle persone. Ripartiamo dal concreto e non dall’inutile e fantasmagorica teoria. Invertiamo la logica affinché per cui è la realtà a doversi conformare alle norme e non la legge ad essere concepita per rispondere ai bisogni della comunità. Non c’è tempo; occorre costruire adesso un futuro migliore rispetto al passato e al presente segnati da questa pandemia e da mille storture. Ce la possiamo fare, occorre solo che la politica ne abbia voglia.
Marco Galli
22 Giu 2020

Il protagonismo del singolo e quello di una comunità

L’Italia è un Paese davvero strano. Unico per le sue straordinarie potenzialità e bellezze e per i suoi anticorpi nascosti, riesce sempre a sorprenderci. In queste ore, il sindaco di Bergamo Gori ha avuto, infatti, la brillante idea di mettere in discussione la leadership del segretario nazionale del PD Zingaretti accusandolo di scarsa incisività e determinazione. Nonostante vi siano argomenti molto più alti e impellenti sui quali sarebbe opportuno aprire un dibattito nazionale (come vogliamo cambiare la mobilità? come vogliamo ridisegnare il sistema produttivo? come vogliamo semplificare la macchina amministrativa e attuare una riforma fiscale davvero progressiva?), è necessario circoscrivere certe dichiarazioni dandole il giusto peso. Il 4 marzo 2018 ha segnato il punto più basso della storia del Partito Democratico e più in generale del principale partito della sinistra italiana. Ha segnato, in particolare, la più sonora bocciatura di una gestione individualista del partito e delle politiche liberiste messe in atto da un gruppo dirigente concentrato solo su sé stesso. Il 4 marzo 2018 si tennero anche due importanti appuntamenti elettorali in Lombardia e nel Lazio. In Lombardia, l’attuale presidente Fontana, le cui scarse capacità amministrative sono emerse tutte nella gestione della crisi sanitaria da Covid-19, sconfisse l’attuale sindaco di Bergamo Gori che si fermò ad un mesto 29% delle preferenze. Un risultato peggiore lo ottenne solo Diego Masi nel 1995 contro Formigoni. Nel Lazio, invece, lo stesso giorno della debacle nazionale e della sconfitta in Lombardia, il centrosinistra a trazione Zingaretti riuscì ad aggiudicarsi le elezioni regionali diventando il primo presidente a vincere per due volte consecutive la sfida alla guida della seconda regione italiana per popolazione. Dopo un anno esatto, il 3 marzo 2019, Zingaretti è stato eletto segretario nazionale del Partito Democratico raccogliendo più di 1 milione di voti e quasi il 70% delle preferenze in una competizione che molti anche all’interno del PD speravano fallisse. Dopo solo pochi mesi, già alle elezioni Europee con una gestione unitaria e inclusiva verso altre forze politiche, si sono visti i primi risultati positivi della nuova segreteria portando il PD al secondo posto sia in Italia che in Europa nell’ambito della famiglia socialista. Nell’agosto del 2019, il Partito Democratico è tornato al Governo del paese con un atto di grande responsabilità e di strategia politica da parte del nuovo gruppo dirigente e non passa giorno in cui ognuno di noi sia grato del fatto che a gestire l’attuale crisi sanitaria ed economica vi sia questo Governo con il PD protagonista piuttosto che la Lega di Salvini e i Fratelli d’Italia della Meloni. Quasi tutti i sondaggi danno, oggi, il PD saldamente al secondo posto in Italia molto più vicino alla Lega di Salvini nonostante vi siano state due scissioni, una dell’ex rottamatore (rimasto al Governo naturalmente) e un’altra dell’attuale europarlamentare Calenda (all’opposizione dell’attuale Governo) eletto con i voti del PD e creatore dell’ennesimo partito personale. Sempre perché in Italia non ci facciamo mancare nulla, è notizia di questi giorni che i due fuoriusciti abbiano trovato un accordo in Puglia per sostenere un candidato non di centrosinistra con la conseguenza che a vincere molto probabilmente sarà il centrodestra. La statura di un politico si misura anche da questi episodi. L’Italia in questo momento storico ha bisogno di tutto tranne che il protagonismo di qualcuno a caccia di prime pagine sui giornali. Questo è il momento in cui ognuno di noi, nell’ambito delle proprie responsabilità, faccia la propria parte nell’interesse della sua comunità e del suo Paese. Gli egoismi, in genere, si collocano automaticamente fuori dalla storia. Antonio Angelino, Circolo PD Donna Olimpia, Roma
Antonio Angelino
21 Giu 2020

Liberalismo e Socialismo

Analisi davvero condivisibile e aperta al futuro … il PD con Provenzano e Emanuele Felice sta fin qui dimostrando un’articolazione “meridionale, riformista e liberale” dell’offerta politica del Centrosinistra. La potremmo riassumere: Stato forte e Economia sana. Perché il settore privato, sopratutto al Sud, senza una P.A. ringiovanita ed efficiente non può davvero decollare. Nel discorso del Ministro per il Sud, poi, si può apprezzare l’assenza di un sentimento ideologico e settario; l’attenzione è tutta posta sui territori e sui bisogni. Speriamo che altre forze politiche sappiano accogliere e far propria una analisi così complessa e davvero fruttifera per il Meridione. Purtroppo, non c’è da sperare molto nelle Destre a trazione leghista e della rivoluzione liberale di Berlusconi non rimane nulla. E le altre forze del panorama politico italiano? Se riuscissero a superare il rischio di una terzietà inefficace e infelice, buona per le mosse del cavallo e per le tattiche di Palazzo (ma pericolosa per la tenuta del fronte democratico e progressista) potrebbero “fecondare” con le buone idee liberal-democratiche un ‘approccio unitario, necessario per arginare il pericolo reazionario e sovranista. La fase è complessa, Provenzano usa un lessico articolato, non cede al semplicismo, al manicheismo becero che degenera in violenza….. Anche nei nostri territori dovremmo sempre più sforzarci di diffondere e spiegare Complessità e Pluralismo, vivificare la dialettica epocale di un senso vivo e alternativo alla demagogia anti politica che tutto vorrebbe mischiare in un gorgo indistinto. I partiti, i circoli, le associazioni, le forze che non si arrendono allo status quo, che si spendono per uscire dall’artificio pericolosissimo che lega campagna elettorale a consenso drogato e ricattato, dovrebbero andare insieme verso una direzione unica. Una direzione che mostri una alterità possibile, una Politica diversa. Le carriere personali, i posti di lavoro, il successo economico, vanno costruiti “nel mercato”, attraverso lo studio, il merito, i concorsi, le professioni !!! Oggi, molti, invece, (e andrebbero tutti allontanati dalle interlocuzioni politiche in atto, anche a Reggio, anche a Villa), solo per avere buoni rapporti personali con il politico in auge, sono riusciti o stanno riuscendo a puntellare le proprie rendite di posizione, lavorano alacremente per se stessi, senza sosta, senza vergogna! Lo possiamo dire con forza che la Politica è un’altra cosa? che è Bene Comune e servizio? Che dopo la Fede è la più alta Passione dell’Uomo libero? Noi, nel nostro campo, stiamo cercando di dirlo ogni giorno, senza paura, stigmatizzando atteggiamenti che respingiamo come estranei! Molti fingono di non capire, cambiano discorso, dicono che è difficile hanno già perso, e non lo sanno!
Enzo Musolino
21 Giu 2020

Progetto CURA ITALIA

Mi chiamo Riccardo Borchi, sono un libero professionista Web Designer/Developer e vivo a Pistoia. Vi scrivo per presentarvi “Cura Italia”, un progetto (non-profit) a cui ho dato vita a fine Marzo 2020, per dare il mio contributo in questo difficile periodo che stiamo attraversando. Il progetto Cura Italia nasce come un modo per mettermi alla prova durante la quarantena e, allo stesso tempo, offrire un servizio utile alla comunità attraverso le mie competenze. Si tratta di un sito web che segue in tempo reale l’andamento del Coronavirus in Italia, raccogliendo i dati ufficiali messi a disposizione dalla Protezione Civile (compresi i dati di ogni singola regione e provincia), ma anche notizie, informazioni, consigli e materiali utili, tutto in un’unica piattaforma online con un’interfaccia user-friendly. Lo scopo del progetto, quindi, è anche quello di contrastare la disinformazione e rendere i dati facilmente comprensibili per chiunque. È possibile consultare il sito su desktop, tablet o smartphone all’indirizzo http://www.curaitalia.it. Quello che, inizialmente, voleva essere solo un lavoro dedicato a professionisti del mio settore come dimostrazione di quanto il nostro lavoro possa essere uno strumento al servizio della collettività, è diventato presto oggetto di apprezzamenti, idee e utili consigli da parte di molte persone. Il sito web ha ottenuto, in tre mesi, circa 150.000 visite complessive (quasi 50.000 visite solo nella prima settimana di vita) e migliaia di condivisioni sulle maggiori piattaforme social, raggiungendo, in poche settimane, diverse decine di migliaia di persone in tutta Italia. Un riscontro enorme che non mi sarei mai aspettato di ricevere ma che mi conferma l’accoglienza positiva del progetto nella comunità, scientifica e non, rendendomi fiero del mio lavoro, ma soprattutto contento di aver creato qualcosa di utile in un momento così difficile per tante persone, tenendole aggiornate, informate e, forse, facendole sentire meno sole ad affrontare questo particolare periodo. Sto già pensando alla fase successiva del progetto, che ritengo possa continuare a esistere anche in seguito all’attuale emergenza, mi piacerebbe rimanere sempre nell’ambito medico-scientifico, ma spaziando anche su altre tematiche (innovazione, tecnologia, ambiente, cultura, sociale, ecc.). Il progetto rimarrà aperto e collaborativo, chiunque potrà dare il proprio contributo, come già accaduto nella fase iniziale. Vi ringrazio in anticipo per l’ascolto e spero possiate essere interessati nell’appoggiare e promuovere questa iniziativa di un semplice volontario e cittadino. Sono disponibile eventualmente anche a collaborare con la vostra piattaforma che ritengo davvero molto utile, tramite il mio sito o anche personalmente. Cordiali Saluti, Riccardo Borchi
Riccardo Borchi
21 Giu 2020

I cambiamenti climatici rappresentano una vera minaccia

Secondo gli ultimi report, dell’IPCC, restano meno di 8 anni, per contenere gli effetti della crisi; superata questa soglia, difficilmente riusciremo a gestire, in modo ottimale, la situazione. Gli scienziati sono stati chiari; dobbiamo assolutamente evitare che le temperature subiscano un incremento maggiore di 1,5^C, rispetto all’epoca pre-industriale. Per raggiungere quest’obbiettivo, occorre porre in essere una serie d’azioni; a titolo esemplificativo, ne illustrerò alcune: 1) disincentivare il mercato dei combustibili fossili, rimuovendo tutti i sussidi che, ogni anno, vengono versati in favore delle lobby del petrolio; 2) creare un piano strategico, a livello internazionale, in cui siano presenti una serie di “target”, da raggiungere, in maniera progressiva, per orientare i mercati verso modelli di business più sostenibili; 3) realizzare organi istituzionali, caratterizzati dalla presenza di giovani ricercatori (economisti, esperti di scienze ambientali, ingegneri, etc…) che contribuiscano a monitorare la situazione e forniscano supporto, a decisori politici e imprenditori, affinché vengano intraprese decisioni coerenti con quanto richiesto dalla comunità scientifica; 4) concretizzare un grande piano d’investimenti, finalizzato a supportare le varie realtà aziendali, durante le prime fasi del processo di transizione; 5) definire un serio progetto di riforma, del sistema energetico del il paese, basato interamente sulle fonti rinnovabili, che ci permetta di assumere l’indipendenza, da altri Stati, e contribuisca alla dismissione delle attuali centrali, a carbone o gas; 6) incentivare la realizzazione delle centrali termodinamiche, superando gli iter burocratici che, fino ad ora, ne hanno impedito lo sviluppo; 7) vietare, per legge, qualsiasi progetto che non rispetti determinati standard ambientali (es: centrali a carbone, metanodotti, etc…) 8) favorire l’economia circolare, promuovendo il riciclaggio dei rifiuti e sensibilizzando la popolazione; 9) ridurre gli allevamenti intensivi, promuovendo stili alimentari più sostenibili e riducendo l’utilizzo di carne; 10) rivedere il sistema fiscale, rendendolo più equo e introducendo una variabile che tenga conto della quantità di gas serra, emessi, per realizzare un determinato prodotto. Un grande lavoro, inoltre, andrà fatto sul fronte della “mitigazione”, degli effetti prodotti dalla crisi climatica. Questi ultimi, infatti, non saranno affatto trascurabili e richiederanno un grande impegno, per essere gestiti a dovere. Anche qui, a titolo esemplificativo, illustrerò alcuni scenari: 1) occorrerà investire nel settore dell’istruzione, affinché tutti vengano a conoscenza dei possibili effetti della crisi climatica e imparino, fin da subito, a contenerli; 2) dovremo creare modelli di business flessibili, che tengano conto della possibilità che, in determinati periodi dell’anno, per cause di forza maggiore, possa palesarsi la necessità di interrompere le attività, per garantire la sicurezza dei lavoratori (es: allerte meteo-idro); 3) dovremo realizzare piani di Protezione Civile efficaci, di rapida attuazione, in grado di proteggerci da eventi calamitosi (alluvioni/incendi, etc…); questi ultimi, poi, dovranno essere sperimentati, mediante apposite esercitazioni, e adeguatamente compresi, dalla popolazione; 4) dovremo lavorare sulla prevenzione, mettendo in sicurezza il territorio e disponendo, in maniera adeguata, le risorse umane (forze dell’ordine, etc…); 5) occorrerà ripristinare il Corpo Forestale dello Stato; 6) dovremo educare alla tolleranza e al rispetto, riducendo le disuguaglianze e migliorando l’inclusione (anche degli immigrati). Tante altre proposte, serie e accattivanti, le trovate sul sito si Fridays For Future (grazie ad una campagna, realizzata in collaborazione con esperti del settore, denominata “Ritorno al Futuro”).
Mattia Cucca
19 Giu 2020

Il futuro del sistema di istruzione

“Tutto ciò che non si rigenera degenera” E.Morin L’emergenza coronavirus e l’isolamento sociale che ne è conseguito hanno investito come uno tsunami la scuola italiana che, in poche ore, ha dovuto trasferire la didattica sulle piattaforme online. Tutto ciò ha portato alla luce e reso più chiare ed evidenti da un lato le disuguaglianze sociali, poiché non tutta la popolazione studentesca ha avuto possibilità, mezzi e connessioni per accedere alle nuove modalità di lezione, dall’altro aspetti di natura tecnico-operativa dovuti al livello non eccellente di alfabetizzazione informatica di operatori, studenti e famiglie, all’età avanzata del personale, alla obsolescenza di molti strumenti e dispositivi. Ma, cosa ancora più importante, tale emergenza ha mostrato le criticità che riguardano e coinvolgono l’assetto complessivo del sistema istruzione-formazione e che richiedono una riflessione di carattere politico e non esclusivamente tecnico. Dopo anni in cui la scuola pubblica è stata delegittimata dalla mancanza di investimenti, anni in cui la professionalità docente è stata vilipesa e privata di autorevolezza, risulta indispensabile, ora, accendere i riflettori della politica sul comparto istruzione. Edilizia scolastica, riforma dei cicli, riduzione significativa di alunni per classe, formazione docenti, riforma degli organi collegiali sono solo alcuni degli interventi indispensabili, ma non basta. È arrivato il momento di pensare la scuola in una prospettiva di sistema in cui l’edilizia, ad esempio, si configuri come un progetto di architettura degli ambienti funzionale agli obiettivi da raggiungere, al tipo di attività che, in quegli ambienti, si andrà a svolgere. Sulla scia dell’emergenza ci si concentra soltanto sulla necessità, sacrosanta, di riaprire le scuole il prima possibile, ma non ci si chiede abbastanza QUALE scuola, dando per scontata la correttezza sostanziale del modo in cui il sistema di istruzione e formazione è stato confezionato negli ultimi decenni, definendosi nel tempo attraverso una serie di ‘riforme’ che via via hanno demolito il sistema stesso. Abbiamo potuto registrare la mancanza di una prospettiva di largo respiro che è stata ed è segno di una profonda crisi di orientamenti ideali che si è tradotta in dogmatismi di natura tecnicistica. Così, per esempio, la retorica dei ‘portatori di interesse’ ha finito per rivelarsi nella sua vera natura; ossia quella di una progressiva pedagogia della burocratizzazione di quegli stessi interessi che si volevano tutelare. La scuola che auspichiamo deve tornare a essere a un tempo risultato del processo di interazione con il ‘reale’, con il ‘sociale’, ma anche luogo in cui si costruiscono ipotesi di mutamento; luogo di cultura intesa come possibilità di trasformazione di quello stesso mondo. Se la scuola non cessa di essere uno spazio isolato che si limita a simulare un rapporto con il mondo attraverso la mediazione dei saperi disciplinari pensati come canoni a- temporali, non sarà mai scuola Costituente e presidio di democrazia. La stima della misura della validità del sistema scolastico deve essere, quindi, determinata preventivamente in rapporto alle scelte politiche e strutturali del Paese e in relazione alla individuazione dei suoi bisogni presenti e futuri. Porre il problema in questi termini significa determinare non soltanto come operare ma anche e, forse, soprattutto stabilire nell’interesse di chi e per quale realtà ri-articolare il sistema. Il sistema istruzione non può, di conseguenza, basarsi unicamente su indicatori interni ai fini della valutazione della sua efficacia ed efficienza. D’altra parte, riteniamo che il semplice travaso acritico di modelli, forme organizzative di un ‘mondo del di fuori’ all’interno della scuola non possa funzionare (come, nei fatti, non ha funzionato). Risulta pertanto evidente che il nostro impegno per una riqualificazione della scuola nel solco tracciato dalla Carta, debba consistere nel proporre una Forma-Scuola capace di garantire, mostrare, far vedere anche le alternative possibili che la realtà, in certi momenti della storia, tende a occultare. La formazione di una coscienza civile richiede, allora, non il restringimento (come è stato fatto) ma l’ampliamento del tempo scuola. Il punto che deve indirizzare il nostro agire, il nostro agire politico è questo: se e è come realizzare la fusione in un unico processo del momento della ri-cognizione del mondo-ambiente con quello della educazione. Fusione, non giustapposizione episodica. Non possiamo e non dobbiamo più correre il rischio di far percepire il mondo che si apre all’indagine e da cui la scuola trae alimento come un coacervo, un repertorio eternamente cangiante di esperienze disarticolate, sempre e comunque valide o giustificabili. L’istruzione e la formazione devono essere, vogliamo ribadirlo, il prodotto di una visione sistemica in modo da pensare la scuola in relazione con la società, una scuola che ne colga e ne rispecchi la complessità, ma non venga pensata “in subordine”, come oggetto da dominare per il tramite di tecnicismi o “ricatti” amministrativo-contabili. Per fare questo è necessaria una ridefinizione dei ruoli di tutti i soggetti in campo, una ridefinizione della formazione dei dirigenti, dei docenti, della professionalità docente e degli organi collegiali che rispecchino le nuove dinamiche relazionali. Il sistema scuola, a nostro avviso, dovrebbe spingere tutti a recuperare il desiderio di essere cittadini e non unicamente “portatori di interessi”. La “Scuola” che auspichiamo deve essere parte attiva della soluzione dei problemi complessivi che si sono aperti, deve essere chiamata a partecipare alla ricostruzione del Paese, deve essere il mezzo attraverso il quale rifondare un’etica di cittadinanza, di partecipazione, di democrazia. Piazza Grande – BARI
Piero Amatulli
19 Giu 2020

Il ponte sullo Stretto? L’unica soluzione è quella dei tunnel

Il Ponte sullo Stretto, di cui si torna periodicamente a parlare, fu una fantasia di Berlusconi. Anche una grande fregatura sulla cui perdita economica bisognerebbe indagare. Ma va bene, posso capire che per ragioni essenziali di recupero del PIL adesso il dossier vada ripreso; non comprendo invece perché farci condizionare dalla suggestione errata del B: B voleva il suo personale arco di trionfo, di ponti a campata unica di quella ampiezza non se ne possono costruire, ponti su più piloni sono improponibili nello stretto. Tutte ragioni già discusse mille volte e che portarono a capire che l’arco dell’ego berluschino non era realizzabile, e che qualunque brutta copia ne fosse stata realizzata non avrebbe retto neppure alla vibrazione dei treni o del vento. Se vogliamo tornare a parlarne, rivediamo tutta la materia: per ragioni tecniche e di sicurezza, l’unica soluzione con qualche probabilità è quella dei tunnel. Tunnel Subalvei, sotto il mare per una più lunga durata, o tunnel alvei, tubi ancorati al fondo, se si vuole essere più garantiti sul fronte sismico. In questo articolatissimo link di una organizzazione siciliana (grazie a loro per il certosino lavoro), una complessa elencazione di tutte le soluzioni, prevalenze e storie, basate sui progetti e gli atti parlamentari. I tunnel sono i capitoli in fondo. http://www.siciliaintreno.org/index.php/temi/attraversamento-stabile-stretto-messina/587-6-possibili-ipotesi-di-attraversamento-stabile-dello-stretto-di-messina-alla-luce-dei-progetti-realizzati-e-in-corso-di-realizzazione-in-tutto-il-mondo?fbclid=IwAR2uUH4kENjczljyM-CaWcF_gTB9u2zzyVzkrnX_jKWk3M0Uk1acBxqWSHE
Alfonso Annunziata
17 Giu 2020

Il Pd si faccia carico delle persone più vulnerabili

Vi scrivo per evidenziare tutta la drammaticità delle persone fragili con problemi psichica o fisica o di tossicodipendenza. Le visite sono difficili, si trovano con difficoltà visite frequenti psichiatriche e psicologiche se non nel privato (psicologi). La pensione di invalidità per chi ha la fortuna di averla è di 297 euro e non garantisce una vita dignitosa se non supportati dalla famiglia che fa quel che può. Il lockdown ha peggiorato la situazione: poche visite, sospensione dei centri diurni e delle borse lavoro terapeutiche non ancora riprese e nemmeno oggi c’è la riapertura dei centri diurni. La gente più vulnerabile soffre molto e fatica in questo periodo a causa di questi motivi e perché già provata dalla propria invalidante patologia. Chiedo al PD come forza di Governo di farsi carico di queste problematiche anche sono spesso di competenza regionale, tuttavia un aumento del personale sanitario e di supporto psicologico pubblico insieme ad un innalzamento degli assegni per l’invalidità oggi a soli 297 euro nonostante le promesse vane di aumentarlo dei 5 stelle ma anche di altri sarebbero ossigeno per categorie in difficoltà e maggiormente provate dal lockdown perchè più vulnerabili. Vi chiedo un riscontro nella agenda di Governo di questi problemi non certo di casi isolati ma in aumento nella società e drammaticamente attuali e con bisogno di risposte immediate.
Matteo Santato
16 Giu 2020

Istruzione e formazione civica

Un tema molto dibattuto in questi ultimi tempi è l’accesso al diritto di voto. Dallo scoppio dell’emergenza Covid-19 infatti si è fatta sempre più strada – soprattutto tra i giovani – l’idea che il suffragio universale debba essere radicalmente rivisto. Alla base di questa idea vi è la convinzione che con la diffusione delle “fake news” (o “bufale”) e a causa dell’uso improprio che molte persone fanno dei social network – specialmente la fascia di età dai 50 anni in su – si corre il rischio che il voto possa essere influenzato, se non addirittura pilotato, a vantaggio di formazioni politiche che potrebbero minare la stabilità della nostra Democrazia e, successivamente, la tenuta dell’Unione Europea. Generalmente, la proposta che viene fatta per eliminare questo tipo di rischio è di ridurre l’accesso al diritto di voto, limitando la possibilità di eleggere e/o essere eletti attraverso l’introduzione di un così detto “patentino di voto”, cioè uno strumento che attesti una serie di conoscenze e competenze di base in materia di educazione civica. Una sorta di sostituto della tessera elettorale. Uno strumento, in poche parole, che garantisca di avere un corpo elettorale preparato e immune alle notizie false. Che costo avrebbe però, di fatto, questa immunità? Si può pensare davvero di mettere una Democrazia al riparo dalle forze che vorrebbero destabilizzarla, riducendo il suffragio universale, cioè, snaturando l’essenza stessa della Democrazia? Il diritto di voto esteso a tutti i cittadini, liberi e uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali, è un pilastro della nostra Democrazia. Si tratta di una conquista enorme, ottenuta con grande sacrificio alla quale non si può guardare con disprezzo. Ridurre l’accesso al diritto di voto non significherebbe soltanto andare contro ai principi fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione, sarebbe anzi soprattutto un vero affronto e una grave offesa a chi ha dato la vita, nel corso della storia recente del nostro paese, per far sì che noi oggi si possa godere di un tale diritto. Un diritto che, per quanto ormai lo si percepisca erroneamente come scontato e necessario, è un vero e proprio privilegio, sia in termini storici che, considerandone la diffusione a livello globale, in termini geopolitici. Quale potrebbe essere dunque una valida alternativa? Occorre partire da una valutazione opposta rispetto a quella fatta da chi vorrebbe l’introduzione del patentino: non bisogna infatti mettere al riparo la Democrazia da un corpo elettorale soggetto alle fake news; bisogna invece far sì che il corpo elettorale (cioè tutti i cittadini che abbiano compiuto i 18 anni) abbia a prescindere una solida formazione in materia di educazione civica e di accesso e analisi delle fonti di informazione (internet, televisioni, quotidiani etc.) funzionale quindi al difendersi dalle notizie false. La soluzione migliore al problema, quindi, sarebbe quella di tutelare l’elettorato ex ante fornendogli gli strumenti necessari a difendere sé stesso e la Democrazia, evitando l’aberrazione di ridurre il diritto di voto. I detrattori usano spesso una metafora molto efficace ma facilmente confutabile, affermando infatti che se per la guida di un veicolo occorre conseguire una licenza, allo stesso modo si dovrebbe conseguire una patente per poter accedere al diritto di voto. Il paragone, per quanto possa sembrare calzante e persuasivo, omette però sempre il piccolo ma fondamentale dettaglio che nel nostro paese, così come in molti altri fortunatamente, esiste l’obbligo di istruzione fino ai 16 anni, uno strumento che garantisce già di fatto la formazione del cittadino. La contraddizione, sia teorica che pratica, fra la natura della Democrazia e la riduzione della partecipazione ai processi della Democrazia stessa è quindi più che evidente. Come agire dunque? In modo efficace e concreto: con un percorso di formazione di educazione civica che parta fin dai primi anni di accesso all’istruzione e che duri per tutto il cursus scolastico, fornendo ai docenti e agli studenti gli strumenti necessari per conoscere e comprendere al meglio il funzionamento della nostra Democrazia e sviluppare inoltre un senso critico per poterla in futuro migliorare. La Democrazia deve garantire la Libertà di tutti gli individui e la Libertà – per dirla alla Gaber – è partecipazione, non limitazione dell’inclusione.
Francesco Carfì
15 Giu 2020

Perché il Pd è poco attrattivo rispetto alle sua potenzialità

Credo che la mancanza di credibilità, e di “appeal “ del Partito dipenda essenzialmente dal fatto che i nostri vertici si rivolgono ad un interlocutore che non è più identificabile con una classe sociale e culturale facilmente definibile e le cui esigenze umane, economiche e di riconoscimento individuale non sono chiare neppure all’interlocutore stresso. E’ quindi complicato trovare argomenti e toni capaci d’infiammare, come ai tempi del divorzio, dell’aborto, dello Statuto dei Lavoratori, il cuore e l’anima di chi ascolta. Gli ultimi trent’anni, a partire dalla diffusione dei Personal Computer e più in generale dall’invasione dell’informatica in ogni campo dell’esistenza di ciascun individuo, hanno prodotto un cambiamento radicale della percezione di se stessi e del proprio ruolo nella società con una velocità tale da non permettere uno stabile riadattamento. Questo sconvolgimento ha interessato tutti i ruoli sociali, dall’operaio al professionista passando per i ruoli impiegatizi intermedi. Penso, ad esempio, allo sconcerto di una Segretaria d’Azienda che considerava la sua capacità di scrivere correttamente e velocemente a macchia con dieci dita spesso anche in inglese o francese e oggi si è vista sostituita dai nuovi programmi di video-scrittura che hanno reso inutile il “bianchetto” per correggere e che consentono il “copia/incolla “ per utilizzare frasi o costruzioni in molteplici situazioni. Insomma oggi nessuno sente l’esigenza di una segretaria per scrivere una relazione, anche complessa includendovi grafici, immagini o qualsiasi cosa venga in mente. Il tutto naturalmente con molto minor tempo di quello che serviva per scrivere a mano e spiegarlo ad una brava segretaria che poi avrebbe dovuto batterlo a macchina e presentarlo al capo per una eventuale revisione. Il traduttore frasi in inglese di Google è ormai così sofisticato che io ho potuto, usando qualche attenzione alla costruzione del periodo, preparare il Manuale Operativo di un impianto per distillati ordinatoci da Diageo Londra senza il bisogno ricorrere alla mia storica segretaria, Marta, che per oltre vent’anni mi aveva assistito specialmente nello scrivere email. Stesso discorso potrei farlo per operai addetti alle macchine utensili tipo tornio, taglia lamiere, stampatrici che oggi sono in gran parte a controllo numerico collegate a computers dotati di programmi CAD/CAM. Tempo addietro un esperto tornitore era sicuramente orgoglioso di vedere un pezzo ben fatto uscire dalle sue mani e sapeva di essere parte imprescindibile nella produzione di manufatti che contribuivano, assieme ai prodotti di altri operai, alla realizzazione di complessi macchinari. Oggi la sua esperienza non ha più alcun valore in quanto inglobata nel programma di gestione della macchina utensile a controllo numerico utilizzata per realizzare qualsiasi pezzo meccanico. Quale può essere la soddisfazione a gestire una macchina, programmata da altri, per realizzare le stesse cose che prima uscivano dalle sue mani? Quale sicurezza può avere che la gestione di quella stessa macchina non venga affidata ad un altro, magari più giovane, meno costoso e meno sindacalizzato? Questo senso di ridimensionamento del ruolo l’ho vissuto direttamente ricordando che all’inizio della mia esperienza di Ingegnere di Processo, il calcolo di una superficie di scambio termico per il dimensionamento di un singolo scambiatore di calore in una singola configurazione richiedeva alcune conoscenze di calcolo differenziale e m’impegnava per qualche giorno di lavoro. Oggi lo stesso calcolo richiede solo un buon programma, affittabile anche per pochi mesi a prezzi contenuti, utilizzabile da qualcuno che sappia solo inserire correttamente i dati richiesti dal programma. Con uno strumento del genere, in un giorno lavorativo, si possono dimensionare molti scambiatori ed in più è possibile procedere ad una ottimizzazione in funzione del prezzo di acquisto solo ricalcolando lo stesso scambiatore modificando alcuni dei dati richiesti. Utilizzando la funzione “macro” di Excell abbiamo reso disponibile, in azienda, un foglio di calcolo per la determinazione di tutte le proprietà fisiche e termodinamiche di una miscela acqua-etanolo a qualsiasi concentrazione e temperatura. Anche questo calcolo prima richiedeva parecchie ore di lavoro di ingegnere chimico mentre adesso può farlo chiunque con una minima preparazione tecnica. Quale soddisfazione e sicurezza può oggi avere un giovane ingegnere di processo? Potrei continuare parlando degli operatori d’impianto, operai, tecnici, laureati che oggi sono quasi del tutto superflui essendo gli impianti di ultima generazione controllati e gestiti da sistemi DCS (Distributed Control System) in grado di eseguire anche partenze, arresti ed eventuali lavaggi tramite sequenze completamente automatizzate. La stessa cosa si potrebbe dire, anche se non ne ho una diretta evidenza, per gli impiegati di banca, delle assicurazioni, dei laboratori di analisi chimiche, degli studi tecnici di ingegneria civile e così via per tutte quelle attività per le quali non si richiede capacità dirigenziale e relazionale. A questo punto mi sono chiesto quali miglioramenti, nell’esistenza di questa enorme massa di persone coinvolte da queste trasformazioni, abbia apportato questo progresso tecnologico ?. La risposta è ambigua perché senza dubbio il lavoro è stato semplificato ma non si è, per contro, ottenuta nessuna riduzione di orario di lavoro anche se abbiamo assistito a profonde ristrutturazioni aziendali con cospicui tagli del personale. L’ultima comunicazione di una grande banca Italiana parlava di 11.000 esuberi, stesso ordine di grandezza per FCA, per ex ILVA di Taranto, per Fincantieri di Monfalcone e potrei continuare. In tutto questo lungo periodo non abbiamo visto grandi aumenti salariali ma solo una diffusa precarizzazione del lavoro conseguente appunto all’inesistenza della specificità del singolo lavoratore e della sua facile sostituibilità. In definitiva tutto questo “progresso” si è tradotto per i lavoratori in un aumento della precarietà, diminuzione del prestigio individuale, impoverimento economico, aumento dell’alienazione. Chi ha beneficiato allora di questo “progresso”? La risposta è, in questo caso semplice, il Capitale. Secondo me non è una coincidenza che lo sviluppo accelerato di queste tecnologie legate all’ottimizzazione dei cicli di produzione industriale e non invece altre orientate alla risoluzione del cambiamento climatico o sviluppo di nuove tecnologie nella produzione di energia o nel campo farmaceutico per farmaci contro le malattie neuro-degenerative, siano avvenute tra la fine degli anni 80 ed oggi, cioè il periodo di più profondo Neo-Liberismo. Quelle orientate alla contrazione dei tempi di produzione ed alla spersonalizzazione delle figure professionali erano molto più efficaci se consideriamo il loro impatto sul “livello di Profitto del Capitale investito” Stiamo attenti perché tutte queste trasformazioni sono avvenute nell’indifferenza se non quando con il plauso dei partiti di sinistra, intenti a trovare nuove “Ragioni sociali” che evitassero qualsiasi accostamento ai Partiti comunisti del novecento e con l’incapacità del sindacato a contrastarle trovandosi privato di una copertura politica ed appoggio dai partiti di sinistra. E’ facile comprendere che le persone coinvolte in questa recessione sociale, in assenza di sostegno, spiegazioni e rassicurazioni per il futuro da parte della sinistra, abbiano avuto necessità, per sopravvivere psicologicamente, di addossare la colpa ad un nemico esterno preferibilmente extracomunitario e già comunemente antipatico a tutti; chi meglio degli islamici e dei neri raggruppava queste caratteristiche? Su questi bisogni è stato costruito il successo della destra italiana. La sinistra dovrebbe invece considerare:
  • Certezza sulla propria identità di ruolo
  • Riduzione della precarietà
  • Nuova specializzazione dei ruoli
  • Incrementi salariali legati agli Utili distribuiti Ed è a questi bisogni che il PD deve dare risposte se vuole tornare ad essere attraente per tutta la ex classe media di tutti i lavoratori italiani.
Andrea Macchia
15 Giu 2020

Edilizia e costruzioni: i numeri della crisi, le sfide del futuro

La chiusura del Paese dopo l’8 marzo e la progressiva riapertura avviata dopo il 4 di maggio hanno prodotto anche nel tessuto economico e occupazionale di Roma e del Lazio delle ferite serie che necessitano di attente valutazioni di merito e richiedono terapie d’urto importanti. L’edilizia e il comparto delle costruzioni sono stati tra i settori più penalizzati. Benché la chiusura delle attività decisa l’8 marzo consentisse, sulla base dei codici Ateco, la parziale apertura di alcuni cantieri, il bilancio del bimestre marzo/aprile 2020 è dal punto di vista economico e occupazionale molto pesante. Nel mese di marzo del 2020 rispetto al mese di marzo 2019 le ore lavorate in edilizia, denunciate in cassa Edile, sono diminuite del -54% (con una perdita di 2.246.000 ore lavorate); nel mese di aprile 2020 la perdita rispetto allo stesso aprile del 2019 è stata del 85% (con una perdita di 3.234.378 ore lavorate). Il bilancio totale da numeri da capogiro: meno cinque milioni e mezzo di ore lavorate, pari a circa 700 mila giornate di lavoro perse. Un dato che corrisponde a oltre 18 mila operai edili rimasti fermi, solo in parte tutelati dagli ammortizzatori sociali, visto che la perdita media di occupati registrati in casse edile nel Lazio nel bimestre è pari a 7.000 operai. A questi dati, già pesanti, vanno ulteriormente aggiunti i dati relativi ad impiegati e tecnici, nonché alle partite Iva che operano sui cantieri come lavoratori autonomi. Un insieme di professionalità che rischiano, senza una ripresa sostanziosa e duratura, di andare ad alimentare il mercato del lavoro grigio. I due terzi delle perdite sono localizzate nell’area metropolitana di Roma, ma anche il resto della regione ha subito un colpo forte al tessuto economico produttivo del comparto. Una perdita di fatturato stimabile nei soli mesi di marzo ed aprile 2020 di oltre 250 milioni di euro. L’edilizia e il comparto delle costruzioni hanno storicamente rappresentato per Roma e il Lazio una filiera produttiva essenziale, senza di essa non è pensabile una vera ripartenza: e non solo perché si tratta di una filiera ad alta intensità occupazionale, con una radicata presenza di imprenditoria locale ed un forte ruolo della microimpresa e dell’artigianato, ma perché non c’e’ settore della vita sociale, non c’e’ ambito territoriale dove, se si pensa ad un futuro diverso, non è chiamata in causa anche la filiera delle costruzioni. C’e’ tanto da fare: dalla messa a norma delle scuole da realizzare entro settembre, alla manutenzione delle città messe a dura prova nella fase del lockdown; dalla difesa idrogeologica (male latente di molte aree della Capitale e della regione), alla riorganizzazione del sistema sanitario, da realizzare attraverso una grande rete di strutture versatili, moderne, diffuse; dalla troppo lenta ricostruzione post sisma 2016, alla modernizzazione delle infrastrutture, a partire dal completamento delle opere da sempre incompiute (per esempio la Orte Civitavecchia, la Roma Lido, la ferrovia concessa Roma Nord, il prolungamento delle linea B della metropolitana fino a San Basilio – Casal Monastero e della linea C fino al quadrante nord della città, l’adeguamento del ponte della Scafa, il raddoppio della Salaria, la ciclovia tirrenica), dalla cosiddetta “rigenerazione urbana” che, sostenuta con l’intervento pubblico, deve essere intesa come un processo capace di portare servizi di prossimità e lavoro assieme ad un livello adeguato di urbanità, all’efficientamento energetico e all’adeguamento alle misure antisismiche del patrimonio edilizio esistente. Infine alla tutela e valorizzazione dei borghi e dei piccoli Comuni, verso cui è cresciuta l’attenzione culturale e sociale in questi mesi, ma che rischiano di tornare nel dimenticatoio senza politiche strutturali di rivitalizzazione economica e sociale. Non è solo, dunque, una questione di risorse e di investimenti che pure sono indispensabili, è questione di scelte strategiche, di orientamenti istituzionali seri e condivisi, di innovazioni 4.0 nei processi produttivi e nell’organizzazione del lavoro, di una nuova responsabilità sociale di tutti gli attori che metta al centro la serietà e la trasparenza della pubblica amministrazione, la rapidità delle decisioni, la tracciabilità e la legalità a partire dalla lotta al dumping contrattuale e al lavoro nero sui cantieri. E anche il tanto atteso incentivo del 110% porterà un effettivo beneficio, solo se sarà collegato oltre che ai controlli fiscali su chi ne beneficia, anche alla regolarità e alla sicurezza del lavoro. Per “fare” davvero serve, insomma, una forte spinta su 5 player dell’innovazione. • Digitalizzazione delle stazioni appaltanti e assunzioni di giovani professionisti (architetti, ingegneri, informatici, economisti, geometri) nella Pubblica Amministrazione. • Innovazione nei processi di gestione delle imprese e loro maggiore capacità di fare rete. • Innovazione dei sistemi di relazioni industriali, spesso appesantiti da bizantinismi, per garantire nel rispetto del confronto tra le parti, un’operatività snella e assicurare sui cantieri edili la parità di condizioni di trattamento di tutti coloro che vi lavorano attraverso meccanismi come il contratto di cantiere e il contratto di filiera. • Innovazione di prodotto, la pandemia e la fase di chiusura in casa hanno dimostrato, ad esempio, la necessità di innovare l’ offerta edilizia in termini tipologici, dimensionali, , nelle dotazioni tecnologiche e nei materiali, nel rapporto con lo spazio pubblico. • Innovazione nei meccanismi di decisione politica, attraverso l’accorciamento dei tempi di decisione, pur nella salvaguardia degli istituti di democrazia che presiedono alle scelte partecipate, e una messa in mora dei ricorrenti “pentimenti” su opere già decise e cantierate. Un’edilizia di qualità, all’interno di una filiera delle costruzioni, a queste condizioni non può che far bene alla ripartenza del Paese. Serve però, in ultima analisi, una capacità di offrire risposte tanto sul mercato privato che su quello delle opere pubbliche che va sviluppata a partire da un protagonismo delle istituzioni e da un rinnovato patto tra le forze imprenditoriali, del lavoro, dell’ambientalismo e della tutela dei diritti di cittadinanza nell’ambito di un progetto di lungo termine di riconversione in chiave sostenibile di interi comparti della produzione e di innalzamento della qualità della vita nelle città. Da questo punto di vista occorre recuperare un ritardo perché l’Italia è pressoché l’unico Paese europeo a non avere una vera e propria agenda di politiche urbane, coerente con quella esistente a livello dell’Unione, e l’unico grande sistema amministrativo europeo a non avere un ministero responsabile per le politiche urbane. Nel tempo si è affermata l’idea che i rapporti tra lo stato e le autonomie locali debbano essere segnati dall’assenza di responsabilità dell’amministrazione centrale verso la condizione urbana. Una politica per le città è uno degli asset da cui ripartire per arrestare il processo involutivo dei nostri grandi sistemi insediativi in atto da tempo, migliorare la qualità della vita per i cittadini, contrastare le disuguaglianze urbane che sono disuguaglianze nella fruizione di diritti quale quello alla mobilità, all’istruzione e alla formazione, ai servizi e alla salute. E’ necessario rimettere in agenda grandi politiche nazionali per migliorare la condizione di vita urbana, e sarebbe curioso se non lo facesse il paese che più di altri ha sempre fatto scorrere la propria linfa vitale nelle reti delle città. Questa è la grande sfida che abbiamo davanti. A cura di Marco Tolli, responsabile politiche territorio e infrastrutture segretaria Pd lazio e Giovanni Carapella, responsabile forum edilizia e politiche abitative del PD Lazio.
Marco Tolli e Giovanni Carapella
15 Giu 2020

Più risorse per i Beni culturali, un settore sempre più in difficoltà

Desidero porre l’attenzione sul settore dei Beni Culturali, suggerire una riflessione su cioè che vuole dire aver cura di questi beni comuni e non sottoporli alla subordinazione del turismo e sempre più spesso degli interessi privati. Vorrei che l’Italia facesse i conti con il suo patrimonio culturali a prescindere dallo sfruttamento economico che ne può derivare e soprattutto di come questi beni diventino scomodi o invisibili quando si tratta di metterli in rapporto ad altre parti della nostra economia (come lo sfruttamento del suolo). Vorrei evidenziare le difficoltà di lavoro in questo settore, nonostante tante università italiane gli dedichino corsi di laurea: non esiste futuro per questi laureati. Infine propongo una riflessione su cioè che comporta l’Autonomia Regionale per i beni culturali, per questo invito a leggere l’articolo di Silvia Mazza dedicato alla Sicilia https://www.finestresullarte.info/1326n_sicilia-colpo-mortale-patrimonio-culturale-nuovo-ddl-beni-culturali.php#commenti
Giovanna Montevecchi
15 Giu 2020

Indispensabile una rete ad alta velocità di dati

È necessario completare una rete di comunicazione ad alta velocità (fibra o qualsiasi altra cosa) non solo per le grandi città ma anche per i paesi, vallate, comprensori ecc. Vivo in un piccolo comune, abbastanza ma non troppo vicino ad una città; lavoro come Libero Professionista e soffro la lentezza di una rete ADSL talmente veloce che ci vogliono ore per caricare o scaricare qualche giga di dati. Una rete ad alta velocità di dati è indispensabile come e forse di più di una rete di trasporti.
Lastene Bevoni
14 Giu 2020

Smart working per sempre? No, grazie

Nel mondo del lavoro, a tutti i livelli, ha preso vita il dibattito che parte dalla tesi che lo smart working debba diventare il modello da preferire al lavoro tradizionale caratterizzato dal lavorare insieme ad altri all’interno di un luogo fisico: uffici, studi professionali, laboratori, ecc. Sono totalmente contrario a questa tesi. Il cosiddetto smart working, che in Italia è diventato un tele-lavoro con tecnologia più accessibile, è stato fondamentale durante l’emergenza. Attraverso il lavoro a distanza è stato possibile mantenere in vita posti di lavoro, funzioni fondamentali per la gestione dell’emergenza e ha mantenuto in attività milioni di persone costrette nelle proprie case. È stata, appunto, una soluzione imposta dall’emergenza, non può diventare la normalità. Il lavoro da casa incrementa la dose di individualismo presente nella nostra società. Se ognuno di noi analizza i vantaggi dal punto di vista personale: non c’è alcun dubbio lo smart working ha i suoi innumerevoli vantaggi. Meno ore passate nel traffico, tutte le comodità dell’ambiente casalingo e una presunta migliore gestione dei tempi lavoro/tempo libero. Un’altra parte del dibattito che va molto di moda, sono i risparmi. Lo smart working è visto come l’eldorado del risparmio: meno trasporto di persone, meno consumo energetico degli uffici, meno cravatte, meno carta, meno caffè. I lavoratori consumano meno, le aziende risparmiano. Il discorso finisce qui, vantaggi per i lavoratori e risparmi per le aziende. Credo che invece il tema debba essere guardato da un altro punto di vista, bisogna avere una visione più ampia, analizzando gli effetti generali sull’economia, sulla produttività e anche sulla qualità della vita dei singoli. Ognuno di noi è portatore di un circuito economico: grazie al lavoro di ogni singola persona esistono altre persone che ci permettono di lavorare, lavorando anch’esse. È sufficiente analizzare quanto il singolo spende per le attività accessorie al lavoro che svolge. Il caffè la mattina prima di andare in ufficio, il tragitto casa lavoro in qualsiasi modo avvenga. I vestiti per ogni occasione, il pranzo in mensa. L’aperitivo a fine giornata con i colleghi, i viaggi di lavoro. Un’economia, nemmeno tanto micro, che scomparirebbe con l’uso massiccio del tele-lavoro, basta pensare al mercato dei buoni pasto: con l’obiettivo di risparmiare sparirebbe. La scomparsa del lavoro fuori casa significa rischiare, nel medio periodo, la scomparsa di posti di lavoro. Il lavoro genera altro lavoro, è una banalità dirlo, ma è meglio ricordarselo in questo periodo. Uno dei temi dei fautori dello smart working, che spesso diventano veri e propri fans, è il tema della produttività. Il leitmotiv è l’idea che il singolo conciliandosi con i suoi tempi, decidendo autonomamente quanto tempo dedicare al lavoro e quanto alle attività personali diventi maggiormente produttivo e orientato al risultato lavorativo. Questo è vero se, quanto sta accadendo in Italia, fosse un vero smart working. Invece, stiamo assistendo allo smantellamento del lavoro in sede (ufficio o laboratorio) non spostando il principio orario/salario su obiettivo/salario, ma semplicemente spostando l’attività a casa ampliando al massimo l’orario in cui sei a disposizione dell’azienda. Presi dal panico della crisi post Covid, la soluzione è quella di risparmiare sui costi di struttura e avere più tempo dei lavoratori a disposizione, il tutto condito con un richiamo al futuro del mondo del lavoro, ovviamente in inglese, smart. Trovo incredibile come da questo dibattito sia del tutto scomparso il tema della creatività di cui ogni lavoro necessita. Anche il lavoro più burocratico e monotono, se fatto insieme fisicamente ad altri, restituisce ai lavoratori un senso di concretezza inimmaginabile se svolto al computer da solo a casa. Il dialogo con i colleghi, soprattutto quello che avviene al di fuori della scrivania, è il momento dove la creatività viene esaltata a vantaggio di tutti. Siamo passati, senza pensarci troppo, dal coworking e dai loft agli spazi aperti di condivisione e alla corsa all’isolamento. Il cuore pulsante del lavoro da casa è l’insieme delle piattaforme di videoconferenze. Abbiamo passato le nostre giornate durante la pandemia su zoom, entusiasmati dalla facilità di utilizzo, dal riuscire a cucinare durante una riunione, dal fare consigli di amministrazione dal letto e colloqui di lavoro dal bagno, abbiamo immaginato di chiudere uffici e di risolvere ogni attività di lavoro comune con una videoconferenza. All’inizio era tutto così performante, tutti partecipavano dopo un dieci minuti di doveroso: “mi sentite? Io vi sento!”. Con il tempo, la tendenza è diventata quella di essere (tele) spettatori, mi collego spengo cam e microfono e forse ascolto. Quanti di noi, terminata una sessione di lavoro in videoconferenza, hanno percepito una sensazione di distacco dalla realtà, una sorta di malinconia che ti assale appena il monitor si spegne: sei improvvisamente da solo, ma lo eri anche prima seppur collegato con altri a loro volta soli nelle proprie case. Il lavoro, che piaccia o meno, è il modo con cui le persone si realizzano e si identificano, spogliarlo del movimento e dell’interazione tra persone a favore di una presunta agilità informatica e casalinga significa mettere a rischio il senso profondo del lavorare. Ben venga l’utilizzo delle tecnologie per lavorare da casa, ma solo se usate con parsimonia e quando realmente serve, come nel caso dell’emergenza Covid. Organizzare il lavoro di un azienda guardando alla modalità smart come sostitutiva significa anche mettere a rischio diritti e redditi dei lavoratori. L’obiettivo dell’impresa capitalista è quello di massimizzare i guadagni riducendo i costi. Lo smart working offre la soluzione su un piatto d’argento. Sono stupito dalla richiesta dei sindacati di voler normare il lavoro da casa, rivendicando il diritto alla disconnessione. Dal momento in cui ti siedi ad un tavolo di trattativa sul tema, abiliti lo smart working al suo utilizzo al di fuori delle emergenze. Il diritto alla disconnessione verrà concesso in cambio di un riduzione del reddito. Il datore di lavoro rivendicherà nel giro di poco tempo che il lavoro da casa deve costare meno del lavoro in ufficio: l’obiettivo è il risparmio non la vita smart. Ripensare il mondo del lavoro è doveroso per il post-Covid, ma senza atteggiamenti manichei ed emergenziali: utilizzare le nuove tecnologie per agevolare la vita delle persone non può andare a discapito dell’economia generale. Preferisco uscire di casa ed andare in ufficio consapevole del fatto che in questo modo la mensa aziendale non chiuderà e continuerà a offrire lavoro. Andrea Laguardia, Resp.nazionale Settori Multiservizi, Ristorazione e Servizi Ambientali
Andrea Laguardia
14 Giu 2020

Considerazioni su un possibile nuovo metodo didattico

Il punto di partenza di queste mie considerazioni risiede nella constatazione che, sempre più precocemente, i nostri ragazzi familiarizzano con l’uso avanzato dello smartphone. Quando incontro gli allievi che si recano a scuola, caricando la spina dorsale con degli zaini pesantissimi, mi chiedo perché non si utilizzi il mezzo informatico, giacente nelle loro tasche, contenente informazioni migliaia di volte più approfondite dei loro manuali. Negli ultimi tempi, si è spesso aperto un dibattito se debba essere consentito allo studente di portare il telefonino in classe. La mia opinione è che non solo debba essere consentito, ma che vada utilizzato come meraviglioso strumento didattico. L’insegnante dovrebbe aiutare l’allievo a sviluppare il senso critico nella ricerca delle informazioni. Dovrebbe essere discussa l’importanza delle fonti. Ad esempio Wikipedia non sempre è una fonte attendibile in quanto ogni voce è costruita comunitariamente, quindi l’informazione ha bisogno di verifiche. In un primo tempo l’insegnante potrebbe assegnare l’argomento di ricerca, ma in un secondo tempo l’allievo potrebbe essere libero di spaziare in argomenti correlati. Quando viene interrogato l’allievo dopo l’esposizione dovrebbe fornire le fonti e discuterne l’attendibilità. Oltre a sviluppare il senso critico l’allievo imparerebbe un metodo di studio che lo accompagnerà nella vita, dovendo confrontarsi con la formazione permanente. Un altro utilizzo dello smartphone come mezzo didattico potrebbe essere quello di spronare l’allievo alla redazione di un blog personale. Nel blog verrebbero riportati pensieri sugli argomenti discussi in classe, così facendo si imparerebbe a costruire degli enunciati che potrebbero poi essere letti e discussi in classe. In alternativa l’allievo potrebbe costruire un canale video, ad esempio utilizzando YouTube, con le stesse finalità del blog. Concludo dicendo che a parer mio le nuove scuole andrebbero progettate dagli architetti, in collaborazione con i pedagogisti, in modo da creare spazi aperti nei quali si rafforzi il senso di comunità. Bisognerebbe quindi superare il paradigma corridoi-aule. La tecnologia quindi va sfruttata al meglio per quello che vale e dimostrare che può essere usata per scopi commendevoli.
Girolamo De Vincentiis
13 Giu 2020

Subito una riforma per riorganizzare la medicina del territorio

Dopo la debacle della sanità lombarda, perché non proporre una riforma organica seria che spazzi via le riforme Maroni e Formigoni, che hanno moltiplicato le direzioni sanitarie e amministrative divorando risorse che sarebbero state spese meglio per pagare meglio i medici ospedalieri e gli infermieri. Prendiamo l’ultima riforma che ha raggruppato le asl in ats, se prima pagavamo tre direttori amministrativi, adesso paghiamo un super-direttore ats + 3 direttori di zona. La stessa cosa dicasi per le asst. Se ats e asst fanno tutte e due sanità, perché non unirle? Ats paga le prestazioni alle asst, perché i drg ospedalieri non farli pagare direttamente dalla regione. Perché non possiamo copiare il sistema delle case della salute che ci sono in Emilia per riorganizzare la medicina del territorio? La spesa sanitaria regionale un tempo prendeva l’ottanta per cento del bilancio regionale, adesso siamo al settanta per cento. Non si può ritornare a rifinanziare di più la sanità?
Giovanni Branchini
13 Giu 2020

Riapertura scuole e distanziamento sociale

Il tema della ripresa delle scuole a settembre è certamente uno dei più stringenti in questi giorni; impegna, coinvolge e preoccupa direttamente o indirettamente tutti, e numerosi sono gli sforzi per elaborare soluzioni percorribili. Premesso che faccio l’architetto e che quindi sarei certamente più adatto ad affrontare problemi di tipo logistico piuttosto che tematiche sociali o sanitarie, sento comunque l’esigenza, da padre di una bambina che farà la quinta elementare, di condividere alcune riflessioni, forse banali se non ingenue. Ma siamo davvero convinti che il distanziamento, ormai dato per scontato, sia l’approccio giusto per affrontare il problema della riapertura delle scuole, in particolare in riferimento alle scuole primarie e dell’infanzia? Credo invece sia una evidente contraddizione, rafforzata dal fatto che i bambini (per fortuna!) non sono realmente in pericolo: il luogo per eccellenza dove il bambino apprende la socialità al di fuori del nucleo familiare sarà organizzato sulla base del concetto di distanza sociale (!). Una società veramente moderna dovrebbe avere il coraggio di ricorrere agli strumenti della scienza, affrontando il problema per quello che è veramente: un problema di prevenzione sanitaria. Non pare impossibile; d’altra parte, la riapertura del campionato di calcio si farà adottando misure che niente hanno a che vedere con mascherine e schermi di plexiglass, ritenute ovviamente impraticabili. E nella scuola? Sono praticabili? Onestamente direi di no. Non reggono nemmeno considerazioni di tipo economico; il previsto distanziamento si presenta immediatamente come costosissimo: necessità di reperire personale aggiuntivo, spazi da adeguare, materiali da acquistare. Oltretutto, sarebbero investimenti principalmente legati alla contingenza del momento, che poco o niente hanno a che fare con una programmazione del futuro e, soprattutto, destinati in gran parte al settore privato. Ma se tutte queste risorse si investissero invece sulla sanità e la ricerca, per trovare una vera soluzione che escluda il distanziamento (roba da antica Grecia, argomentava Vittorio Emanuele Parsi esponendo la sua idea di un nuovo Rinascimento), che sia veramente il risultato di una società del XXI secolo? Invece di spendere fiumi di denaro in mascherine, schermi protettivi, detergenti (oltretutto fortemente inquinanti), non si potrebbe investire in tamponi, test sierologici, laboratori di ricerca (mi viene in mente il fantastico staff, tutto al femminile, che per primo è stato capace di isolare il virus in un luogo che richiamava forse la Germania est degli anni ’70, non certo Star Trek)? Non possiamo immaginare una vera commissione interdisciplinare di esperti che analizzi seriamente il problema, partendo dalle reali situazioni logistiche delle strutture e risorse umane esistenti (spesso già inadeguate rispetto ad un utilizzo ‘normale’), spostando il discorso del distanziamento dal singolo studente alle classi, pensando a nuove modalità didattiche in presenza, utilizzando le tecnologie di geolocalizzazione e i famigerati big data per fare vera prevenzione? Fortunatamente, immaginare non costa niente. Fabrizio Milesi (Architetto specializzato in urbanistica e pianificazione territoriale, solo da poco ho deciso di aderire al Pd e cerco di dare il mio piccolo contributo quale componente della segreteria dell’Unione Comunale PD di Vaglia, un piccolo Comune in provincia di Firenze).
Fabrizio Milesi
12 Giu 2020

Per una Sinistra aperta nella società della globalizzazione guidata dalla tecnologia

I progressisti devono rivalutare la parola Progresso Progresso è una parola con molti significati, ricca di contrasti. Ognuno di noi ha la sua idea di progresso e spesso troviamo a chiederci se quello che abbiamo definito essere progresso fino ad oggi lo sia davvero. Ogni giorno sui nostri schermi appaiono notizie che ci fanno fortemente dubitare che la nostra vita stia migliorando. Progresso è guardare al futuro, a come rendere migliori le nostre vite. Ed il futuro è la ragione stessa di esistenza della Sinistra. Senza tensione verso il futuro non c’è Sinistra. Le destre guardano al passato ed al presente. La Sinistra ha sempre guardato oltre. E ha fatto bene: la vita umana è in continuo e progressivo miglioramento fin dalla prima rivoluzione industriale, con una forte accelerazione negli anni del secondo dopoguerra. Distribuire meglio i vantaggi del progresso Oggi gli standard di vita dell’Occidente e dei cosiddetti Paesi emergenti – o ormai grandi potenze economiche come Cina ed India – sono allineati su livelli elevati. Milioni di persone hanno visto crescere in modo spettacolare aspettativa di vita e reddito, per esempio. C’è voluta la politica per questo. Non era scontato che avvenisse. Il mercato è stato un importante strumento di produzione ed allocazione di ricchezza ma c’è voluta la Sinistra a garantire che essa si distribuisse più equamente nella società. Il progresso non è tale se non può goderne un numero sempre crescente di persone. Ma è possibile. Le destre guardano al passato, con un approccio reazionario, passatista, chiuso. Badano a soddisfare solo bisogni immediati, la cosiddetta pancia, spesso ingannando i cittadini. Gli errori da evitare Noi sappiamo che questo non porta niente di buono a noi ed ai nostri figli. Abbiamo però trascurato troppo l’oggi, appiattendoci su una visione idilliaca del mercato, nella quale l’aumento del livello dell’acqua avrebbe portato su tutte le barche. Abbiamo scoperto al prezzo di dolorose sconfitte elettorali che non era così. Questo però non deve assolutamente minare la nostra voglia di futuro e di progresso. La ragione e l’umanesimo devono guidare la nostra azione. Progresso è una bella parola e dobbiamo riprendere a pronunciarla senza vergogna. Perché è una tendenza inesorabile della Storia e perché dobbiamo aiutare la Storia a realizzarla nell’esperienza delle nostre vite. Per questo serve una Sinistra liberale e progressista, qui ed ora. Non sono società chiuse, dazi, nazionalismi e tribalismi la soluzione La globalizzazione guidata dall’accelerazione tecnologica è il tratto caratteristico del Ventunesimo secolo. Un fenomeno di poderosa integrazione fra le economie mondiali che porta insieme grandi vantaggi e grandi rischi. Non saranno le minacce alla salute globale a mutarlo radicalmente. La sua caratteristica principale è quella di premiare più che nelle rivoluzioni tecnologiche precedenti un elevato e sofisticato livello di conoscenza tecnica (e non solo). Accanto a noi vivono persone che la possiedono e prosperano ed altre che non la possiedono e si trovano in difficoltà. E così le città: dove sono presenti in misura concentrata queste competenze, c’è benessere. Altrove, declino. Il ruolo cruciale del cambiamento tecnologico I beni ed i servizi che acquistiamo contengono sempre più l’elemento tecnologico, in particolare quello digitale, e sono ottenuti con l’assemblamento di parti prodotte in luoghi sparsi per il mondo. Molte filiere di produzione sono ormai mondializzate. La tecnologia entra anche nei circuiti produttivi dei beni primari, quelli agricoli per esempio. E’ fra noi per restare e non ci deve spaventare. Tutti possiamo farcela se veniamo aiutati. Tutto ciò ci pone di fronte alla necessità di aprirci a nuove conoscenze ed al rapporto col resto del Mondo, in maniera maggiore e più consapevole che in passato. Il ritorno a forme di chiusura attraverso i dazi, il nazionalismo, o peggio ancora i tribalismi dei primati nazionali portano diritti i nostri Paesi verso il conflitto. Le interrelazioni internazionali sono ormai tali e tante che spezzarle non può che generare pericolosissime rotture. Spingere ancor più sull’integrazione europea e spendere bene le risorse Bisogna, al contrario spingere ancor più l’integrazione europea – ed anche quella italiana – facendo in modo che tutti, anche i più piccoli ed isolati abbiano un reale ascolto. La soluzione per la pace sta nel coniugare il consolidamento dell’Unione Europea e delle altre organizzazioni di cooperazione internazionale con il potenziamento di un ascolto vero, concreto, che si traduca in fatti che migliorano la vita dei cittadini. L’Italia deve prestare una crescente attenzione alla qualità delle sue istituzioni. Spendere bene, in modo efficace, è la prima condizione per poter accedere all’uso di crescenti risorse nel quadro nazionale e nel quadro comunitario. Cooperazione, negoziazione, ascolto, partecipazione invece che diffidenza, chiusura, conflitto permanente, nazionalismo. Ecco la cultura che una nuova sinistra progressista e liberale deve mettere in campo.
Stefano Sotgiu
12 Giu 2020

Congedi parentali di 5 mesi

Direi di rendere il congedo parentale obbligatorio per i padri di 5 mesi, come quello delle madri che decorre dal primo giorno di rientro al lavoro della madre. Più tutta l’aspettativa facoltativa per entrambi i genitori (fino a 6 mesi per ciascun genitore). Stipendio minimo garantito non inferiore ai 1000 euro netti più l’assegno unico per figli.
Alessia Gabelasdi
12 Giu 2020

Riforme sociali di sinistra

Salve, sono un giovane militante che ha 29 anni e sono laureato in Diritto dell Economia a Padova, da due anni e mezzo iscritto al PD, ma devo ancora rinnovare la tessera del 2020 e sono indeciso. Volevo esprimere le mie perplessità perchè vorrei vedere un partito più di sinistra non solo nelle parole del Segretario Zingaretti e di esponenti della sinistra dem (Cuperlo, Enrico Rossi, Marco Furfaro, Laura Boldrini, Majorino e altri ) ma anche nei fatti e cioè in riforme concrete di sinistra. Inizierei dal salario minimo legale come in Spagna, e dalla abrogazione dei Decreti Sicurezza, per passare alla legge sui diritti delle persone LGBT e la presa di posizione netta su Stati come l’Egitto che violano sistematicamente i diritti umani come ritirare l’ambasciatore e sospendere i rapporti economici e diplomatici . Leggo con stupore la vendita di armi all’Egitto da parte del Governo Italiano. Ma in mio contributo sarebbe quello di proporre una nuova agenda tematica del P.D. di sinistra al congresso futuro ( spero il prima possibile ) con al centro l’ambiente, la riforma fiscale, l’uso del Mes per la sanità pubblica che necessita ancora di sostegno, il salario minimo legale, l’abrogazione dei Decreti Sicurezza, una politica di semplificazione della burocrazia e della pubblica amministrazione, un reddito di inclusione esteso a chi ne ha bisogno perché nessuno rimanga indietro infine la legalizzazione delle droghe leggere e la tassazione dei capitali con una legge sul dumping fiscale. Pene severe per l’evasione fiscale e una tutela più forte per i disabili (oggi percepiscono solo 297 euro mensili che sono pochissimi ). Una politica quindi del PD e della sinistra per un’Italia più giusta e solidale dove giustizia sociale e libertà vadano di pari passo. Mi piacerebbe parlare di tutto ciò in un congresso tematico sulle idee come annunciato a gennaio dal Segretario Zingaretti e spero si vada verso una soluzione con un congresso il prossimo anno per rilanciare il PD e la sua azione di governo, ponendoci come tema anche quello delle alleanze che vanno oggi in ordine sparso alle prossime Regionali.
Matteo Santato
11 Giu 2020

La crisi della Sinistra e la risposta di Berlinguer, 36 anni dopo

Casa per casa, strada per strada. Trentasei anni fa come oggi, Enrico Berlinguer ci lasciva, dopo il suo ultimo indimenticabile comizio a Padova. “Compagni, lavorate tutti, casa per casa, strada per strada, azienda per azienda”. Qualche mese fa, in televisione, Achille Occhetto, ultimo segretario del partito comunista Italiano, intervistato nella trasmissione dell’Annunziata, ha dichiarato con una lucidità incredibile che per fare politica non basta la passione, ma serve il rigore della ragione. Occhetto ha poi fatto un’analisi brevissima, ma efficace, sullo stato di salute della sinistra italiana e soprattutto del Partito Democratico, indicando come soluzione alla crisi di consensi la messa in campo di un pensiero complesso, affiancato da una comunicazione semplice, che dia un’anima al popolo della sinistra. Quello che è mancato in questi anni, a suo dire, è stato il rapporto con il ceto popolare e una risposta vera alla crisi. In questo preciso momento storico la domanda che più spesso ci facciamo noi di sinistra è come mai l’Italia, regione dopo regione, comune dopo comune, si sia svegliata improvvisamente leghista. La questione non è certo semplice, ma di sicuro per evitare la superficialità di qualsiasi risposta, è bene sgombrare il campo da ogni tipo di alibi che attribuisce agli elettori la colpa di non accontentarsi di quello che offre oggi la sinistra. L’ascesa di Salvini al potere, dalla presa del suo partito al ministero degli interni, è stata dirompente . Ciò di cui si è parlato meno spesso è stata la lenta e silenziosa presa dei comuni da parte della Lega e quindi la presenza dei seguaci del carroccio sui territori. Come Pisa, Ferrara o altre città toscane o emiliane, storicamente roccaforti rosse. Perché oggi anche chi si dichiarava di sinistra, trova nella lega una valida alternativa? Forse vale il detto che gli spazi lasciati vuoti vengono presi da qualcun altro. Nell’era post ideologica in cui viviamo, se una percentuale di elettorato si tiene ancorato alle ideologie, la maggior parte dell’elettorato, specie i nuovi elettori, sentono il bisogno di risposte semplici a problemi complessi che nessuno negli anni ha saputo risolvere. Si sceglie il verde per alternativa, per stanchezza, perché sembra interpretare in maniera più semplice -talvolta semplicistica- il nostro tempo, facendo appelli alla percezioni della gente. La paura dell’invasione dello straniero, per esempio, obbliga la politica di oggi a tenere conto del fenomeno immigrazione con maggiore impegno, pur non essendo, con numeri alla mano, un fenomeno di tale portata. L’Italia, secondo uno studio condotto dall’istituto Ipsos, è il primo paese, tra i 15 dell’Ocse, per distanza tra percezione e realtà. E quello che fa una certa parte politica oggi è giocare proprio con le percezioni dell’elettorato. Sono aumentati i reati, il fenomeno dell’immigrazione è in aumento, è diminuita la sicurezza, manca il lavoro. Se tutti questi argomenti venissero affrontati con dati alla mano, ci accorgeremmo quanto l’agenda politica sia talvolta lontana dai veri problemi del paese e sia modellata semplicemente attorno al consenso facile. È pur vero che, se i cittadini avvertono certi problemi o hanno certe sensazioni, la politica deve svolgere il doppio ruolo di raccontare la verità delle cose e affiancare ai dati una soluzione alle questioni sollevate. Se in Italia sono presenti il 7% degli immigrati, ma i cittadini ne percepiscono il 25%, da qualche parte si deve cominciare presto. Bisogna stare però attenti alla propaganda che si autoalimenta. Se l’elettore medio leghista lamenta la gestione dell’immigrazione e la presenza per le strade di giovani migranti magari finiti in giri poco legali, dovrebbe riconoscere nei decreti sicurezza esattamente l’effetto opposto da quello auspicato. Non è togliendo l’asilo ai richiedenti, chiudendo le strutture di accoglienza, disintegrando i progetti di integrazione che si combatte l’immigrazione clandestina. Così si sono soltanto messe in strada migliaia di persone che, non avendo nulla, è probabile che trovino proprio nelle attività illegali le loro uniche forme di sostentamento. E la propaganda leghista si autoalimenta. Ma al di là della propaganda, non è certamente soltanto questo il motivo per cui la Lega di Salvini ha raggiunto da sola picchi del 34% ed ha preso comuni e regioni nell’ultimo anno. Ritorniamo alla presenza nei territori. Negli anni di governo, il Partito Democratico ha perso lentamente il polso della politica locale. Uno dei colpi di grazia maggiori se l’è dato da solo, promuovendo e votando l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti che, per lo meno, dava a disposizione dei maggiori partiti un budget per la sopravvivenza, budget che adesso i partiti non hanno più. Oggi se trovi un privato disposto a finanziarti bene, che si trovi a Mosca o in Italia, avrai più possibilità di concorrere nell’agone politico. Viceversa o ti autosostieni o muori lentamente. Susanna Turco, nel dicembre 2018, per l’Espresso, si avventurò a raccontare il lento decadimento dei circoli del PD, da Roma a Bologna. Sedi chiuse, debiti precedenti, dipendenti in cassa integrazione, mancano i soldi per tenere una saracinesca aperta o pagare la luce. Al posto di qualche sede storica, adesso ci stanno attività commerciali. A Bologna, racconta la giornalista, hanno chiuso 30 sedi in 10 anni. Pensate cosa ci sarà nelle città che tradizionalmente non sono mai state rosse. Più che il deserto. In questi anni il Partito, oltre a perdere terreno e spazi, ha perso elettori perché non c’è stato. È stato lontano da quei luoghi da cui oggi viene fuori il maggior consenso per l’alternativa leghista. Ci sono state importanti riforme, qualche numero da negativo è diventato positivo, ma in certi luoghi non puoi raccontare soltanto di numeri che crescono, se in quei luoghi non è cambiato niente e se la percezione continua ad essere un’altra. Il rapporto con le persone, il dialogo per le strade c’era finché il partito era presente, finché la luce era accesa, finché non venivano lasciati soli segretari e piccoli dirigenti. Un partito troppo poco presente in periferia, quasi assente in provincia, che regge ancora per i comuni medio grandi. In tal senso ne sono conferma i risultati di una rilevazione a cura di Noto Sondaggi e EMG Acqua, commissionata dall’Associazione Nazionale Per La Modernizzazione Degli Enti Locali. I comuni con più di 60 mila abitanti, cioè i grandi centri, si affidano all’attuale maggioranza di governo, ora spostata a sinistra. Nei comuni con pochi abitanti la Lega avanza. Appare quindi evidente che la lontananza, fisica e non solo, dai palazzi del potere e dai maggiori centri, genera consenso verso chi sembra coinvolgere proprio quella fetta di elettorato nelle province e nelle campagne italiane. Durante la campagna elettorale per le regionali in Umbria, l’ex ministro degli interni ha tenuto 51 comizi in giro per la regione, il suo competitor 15. La presenza nei territori non è una frase da recitare a memoria ad ogni assemblea, per condannare qualcun altro ed autoassolversi. La presenza in politica è fondamentale. Nella recente campagna elettorale tra i democratici americani nel 2018, Alexandria Ocasio-Cortez ha strappato un seggio al congresso a Joseph Crowley, sulla carta imbattibile, proprio girando il suo quartiere porta a porta, offrendo un’alternativa valida, coinvolgendo i cittadini di Queens e Bronx e facendoli sentire parte di una storia nuova. Cos’è che la gente cerca? La fiducia, la comprensione, la compassione e qualcuno con cui parlare dei problemi che deve affrontare ogni giorno. In sostanza la presenza nei territori e qualcosa da dire. Chi sarà capace nei prossimi anni a tornare per le strade con un programma importante, sconfiggerà Salvini e le Lega. Chi pensa che il fenomeno si autodistruggerà, assisterà alla presa di potere con maggiori consensi del leader più amato e più odiato d’Italia. Dobbiamo tornare casa per casa, strada per strada, azienda per azienda.
Gloria Di Miceli
11 Giu 2020

Recovery Fund e il ruolo dell’Europa

Diciamocelo chiaramente: la proposta della Commissione europea di un “Recovery Fund” da 750 miliardi non ha precedenti nella storia dell’Unione Europea. Poi sicuramente verrà modificato in sede di approvazione, ma il dato politico di oggi è chiarissimo: con questa proposta la Commissione europea si è assunta una responsabilità inedita, che a mio parere merita pieno appoggio, non solo perché all’Italia conviene più di tutti; ma soprattutto perché dimostra che di fronte a situazioni enormi che riguardano tutta Europa, l’Europa unita è in grado di offrire risposte altrettanto enormi. Ora la palla passa alla fase delicata delle trattative, che sicuramente saranno lunghe, e finiranno per abbassare inevitabilmente l’asticella posta così in alto dalla Commissione. Infatti, prima ancora che la discussione arrivi al cospetto del Parlamento Europeo, la proposta deve essere approvata all’unanimità dal consiglio europeo che rappresenta i governi dei 27 stati membri. E qui abbiamo un problema che mi preme sottolineare: le procedure decisionali della UE, nelle fasi cruciali e sulle tematiche più importanti (come le manovre straordinarie di bilancio) richiedono l’approvazione dell’unanimità dei governi degli stati membri. Questo crea e creerà inevitabilmente dei compromessi al ribasso, in modo che i vari accordi possano essere accettati anche dagli stati membri più recalcitranti. Il difetto di questo sistema è evidente: quello che è, e che sarà, sotto i riflettori della discussione sono sempre e solo gli interessi contrapposti dei singoli stati; contrapposizioni che spesso dal mondo politico e dai media vengono esasperati in tutto e per tutto. Quello che passa in secondo piano è invece l’aspetto che dovrebbe rimanere centrale: l’interesse comune dell’Europa. E questo interesse comune, che c’è ed è particolarmente evidente proprio in periodi di emergenza come questo, trova la sua sede plastica nel Parlamento Europeo, l’organo della UE eletto da tutti i cittadini di tutti gli Stati, in cui gli europarlamentari si suddividono per gruppi politici e non per Stato di appartenenza. Allora nel mio piccolo mi permetto di dire una cosa: in questa fase di trattativa sul Recovery che si annuncia lunga e complessa, la politica si dimostri matura (o almeno un po’ più matura del solito): metta al centro dei propri obiettivi l’interesse comune dell’Europa e non pretenda di mettere sempre e comunque l’interesse dei singoli stati prima di tutto, in un continuo gioco al massacro in cui alla lunga perdiamo tutti, specialmente le realtà economiche e sociali più fragili. In altre parole: il Parlamento Europeo non sia succube dei governi europei e rivendichi il proprio ruolo di rappresentanza democratica. Il Parlamento europeo abbia l’ultima parola. Articolo pubblicato da La Nuova Ferrara il 2 giugno 2020
Mattia Franceschelli
10 Giu 2020

L’Italia dovrà farcela da sola: ha occasione, movente e mezzi

“Siamo in un momento decisivo, una crisi che non può essere affrontata da nessun paese da solo”, ha detto il 27 maggio 2020 la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen presentando a Bruxelles la proposta dell’esecutivo Ue per il lancio del Recovery Fund da 750 miliardi di euro. L’Italia ha sempre attribuito le cause che penalizzano la propria crescita a fattori per così dire esterni: ora alla locomotiva d’Europa (la Germania) che non corre più, ora alla minore crescita della Cina rispetto agli anni passati; ora all’America che impone i dazi ai prodotti italiani, ora all’Europa che impone l’austerità. Ora la causa è il Coronavirus. Il Coronavirus (ancora un fattore esterno) dà modo di potere escludere parzialmente gli altri fattori esterni, e fa emergere che le ragioni della bassa crescita sono invece da attribuirsi per lo più a fattori interni: evasione fiscale, macchina di governo (leggi: burocrazia) farraginosa, alto debito pubblico. Qualcosa sembra muoversi sul fronte della lotta all’evasione fiscale: la fatturazione elettronica (per es.). Qualcosa sembra che si muoverà sul fronte dello snellimento della burocrazia: un piano contro la “paura di firmare” che blocca le opere pubbliche, in modo da potere impiegare le risorse che l’Europa da tempo ha messo a disposizione dell’Italia e che ora le metterà a disposizione tramite il Recovery Fund (172 mld). Sul fronte del debito pubblico, invece, le cose peggiorano in maniera davvero drammatica. Il ricorso ai prestiti europei tramite la Bce, il Sure, il Recovery Fund, la Bei, i Btp (e forse il Mes) sembra oggi la soluzione più a portata di mano. Una “soluzione” che oggi è il salvavita (come il prestito al negoziante in difficoltà economiche) ma che domani strangolerà (perché il negoziante dovrà restituire somme sempre più elevate). Il debito pubblico non sarebbe un problema per lo Stato se lo Stato potesse stampare moneta con cui pagare i suoi debiti (prestando attenzione all’inflazione), ma sarebbe certamente un problema se lo Stato dovesse rivolgersi al mercato: le Agenzie di rating potrebbero valutare il debito pubblico italiano insostenibile e quindi degradare i suoi titoli a livello “spazzatura”, facendo così aumentare lo spread Btp-Bund sul quale si avventerebbero come squali gli speculatori finanziari che chiederebbero interessi più alti. Se l’Italia non può stampare l’euro in piena autonomia (perché ciò è prerogativa della Bce), potrebbe invece dotarsi di una moneta digitale circolante parallelamente all’euro e solo internamente alla nazione, proprio come avviene tra i privati che utilizzano come mezzo di scambio la criptovaluta bitcoin. La domanda è dunque la seguente: l’Italia potrà dotarsi di una moneta tipo bitcoin? Nel suo documento del 2015 dal titolo “Virtual Currency Schemes. A Further Analysis” la Bce approva lo scambio di bitcoin tra privati. Perché lo Stato italiano non potrebbe adottare la moneta digitale (non euro, non bitcoin) per scambi solo in Italia? Se l’Italia ricorrerà ai prestiti europei, il laccio che già oggi le si stringe attorno al suo stivale le si stringerà ancora più forte, le impedirà ancora di più di procedere con le riforme, a cominciare da quella fiscale. Oggi tutto è nelle mani della politica fiscale (la politica monetaria della Bce non riesce da tempo a stimolare l’economia nonostante iniezioni ingenti di liquidità), per cui solo riducendo le tasse e le imposte (Irpef e Iva) e iniettando fiducia negli italiani si potranno stimolare i consumi in mancanza di nuovi occupati. Ma con un debito pubblico che salirà al 155% del Pil non sarà proprio possibile ridurre le tasse e riavviare i consumi. Per evitare di ricorrere ai prestiti europei e potercela fare da sola, l’Italia potrebbe applicare la patrimoniale ai beni immobili dello Stato: si tratterebbe in pratica non già di una vendita ma di una trasformazione di beni in liquidità, in moneta digitale di Stato; tale liquidità verrebbe erogata a famiglie e imprese per spese di prima necessità (generi alimentari, pagamento di bollette e affitti) da soddisfare con moneta digitale. Per le risorse che la Ue erogherebbe a fondo perduto (circa 81 mld dei 172 mld del Recovery Fund) non c’è motivo per cui l’Italia non debba accettarle. A patto che vengano erogate senza altre condizioni se non per scopi ben definiti (es., investimenti nella digitalizzazione, green economy, e quant’altro stabilito dalla Ue).
Claudio Maria Perfetto
10 Giu 2020

I 6,3 miliardi di FCA e l’esigenza di una politica industriale

Ha sollevato un acceso dibattito negli ultimi giorni la richiesta da parte del gruppo Fca allo stato italiano, che dovrebbe garantire per un prestito di 6,3 miliardi. Si tratta di un importo davvero ingente -il bollo auto, per dare un ordine di grandezza, frutta 6.6 miliardi di euro-, proporzionato peraltro all’importanza del settore (7% del Pil, 400.000 addetti considerato l’indotto). Prima domanda: “è conforme alla legge una richiesta del genere?” Risposta: assolutamente sì, perché la richiesta è stata avanzata dalla società controllata Fca Italy, che paga le sue tasse in Italia e che non distribuirà dividendi quest’anno. Il vero pomo della discordia è costituito dall’italianità del gruppo e delle sue prospettive occupazionali ed industriali per il nostro Paese. A differenza di quasi tutte le altre grandi case automobilistiche, Fca ha sede legale, fiscale e quartier generale fuori dal proprio Paese d’origine, rispettivamente ad Amsterdam, a Londra e a Detroit, e ha in larga parte perduto il legame privilegiato con l’Italia, non più ricordato dall’acronimo Fiat (Fabbrica Italiana Automobili Torino), nel momento in cui si è internazionalizzata. Vale la pena riavvolgere un attimo il nastro per analizzare con attenzione queste circostanze e confrontare il comportamento dell’Italia con quello di altri Paesi. Il tavolo con gli Stati Uniti Correva l’anno 2009, era da poco scoppiata la crisi finanziaria, alla Casa Bianca si era da poco insediato Barack Obama, mentre la Fiat era amministrata da Sergio Marchionne. La crisi aveva colpito duramente il settore automobilistico in tutto il mondo, riducendo in ginocchio la più piccola delle 3 grandi case americane, Chrysler. Di fronte alla prospettiva di un fallimento catastrofico dell’azienda, l’amministrazione Obama intervenne con decisione, non solo trovando nella Fiat di Sergio Marchionne un partner che potesse assorbire Chrysler, ma anchefacilitando in ogni modo l’accordo di fusione, fornendo nel breve termine e a condizioni di favore i capitali necessari e, cosa non meno importante, mediando con i sindacati americani. Dall’altro lato del tavolo, noi Per l’Italia la fusione era un’opportunità e un rischio al tempo stesso: da un lato Fiat era troppo piccola per poter sopravvivere da sola e aveva assoluto bisogno di integrarsi con Chrysler, dall’altro si intuiva il nuovo gruppo avrebbe gravitato più sull’ampio mercato americano che su quello asfittico italiano. Mantenere in Italia investimenti, lavoro e valore aggiunto era una sfida molto delicata, che avrebbe richiesto una politica di intervento non dissimile da quella di Obama: da un lato mediazione e distensione dei rapporti sindacali, dall’altro sostegno anche finanziario — pur nel rispetto dei vincoli europei — agli ambiziosi piani di investimento in Italia enunciati dal gruppo, irrealizzabili senza un sostanzioso apporto di capitale esterno. Ma a Palazzo Chigi in quel momento era insediato il governo Berlusconi IV -Tremonti alle Finanze, Sacconi al Lavoro e Scajola allo Sviluppo economico — e non fece niente di tutto questo, limitandosi a incoraggiare Marchionne a usare la sua posizione di forza per piegare le resistenze del sindacato. Un atteggiamento del tutto in linea con quello dell’opinione pubblica, che si limitò a schierarsi in tifoserie pro Marchionne o pro Landini come se stesse assistendo a un incontro di pugilato e non a una partita decisiva per l’economia del Paese. Dopo decenni di legami malsani tra lo Stato italiano e il Lingotto, questo legame è venuto a mancare nell’unico momento in cui sarebbe servito davvero, e Fiat ha affrontato l’internazionalizzazione senza nessun supporto del governo. Le conseguenze ce le portiamo dietro ancora oggi “Fabbrica Italia”, l’ambizioso piano di investimenti da 30 miliardi, annunciato da Marchionne, rimase lettera morta in mancanza di capitali sufficienti. La sede di Fca (come anche quella di Ferrari e perfino quella delle holding controllanti) venne spostata all’estero, e nel 2018 venne dato un ulteriore colpo all’italianità del gruppo con la vendita al fondo KKR (USA) di Magneti Marelli, punta di diamante nel settore della componentistica. E oggi riviviamo quella situazione Attualmente Fca sta per fondersi nuovamente, questa volta con Psa (Peugeot Société Anonyme). Anche quest’ultima, come Chrysler, ha alle sue spalle un intervento pubblico di salvataggio. Pochi anni prima, nel 2013, si era venuta a trovare in una situazione disperata, paralizzata dall’assenza sui mercati extraeuropei e dall’indisponibilità della famiglia Peugeot a finanziare il necessario aumento di capitale. Il governo socialista di Francois Hollande e Jean-Marc Ayrault è intervenuto, sottoscrivendo l’aumento di capitale (insieme a una casa automobilistica cinese, Dongfeng, con cui si è stabilito un legame di partnership e non di controllo) e fornendo ulteriori garanzie per oltre 7 miliardi. Anche in questo caso l’intervento pubblico ha avuto esito positivo: Psa è stata rilanciata ed ha avviato un percorso di espansione rilevando la Opel e investendo (al contrario di Fca) nella transizione ecologica. Quanto alla partecipazione pubblica del 12,5%, essa ha aumentato il proprio valore e il governo liberale di Emmanuel Macron ed Edouard Philippe non pare intenzionato a vendere. Proprio con Psa Fca sta per fondersi, con l’intenzione di creare il quarto costruttore automobilistico al mondo. Sede legale e fiscale: Olanda, quartier generale: Parigi. Per inciso, è proprio a quest’accordo che è legato il famoso maxi-dividendo da 5,5 miliardi di cui si sta parlando; gli azionisti non intendono rinunciare a questo dividendo, ma anche se volessero -non è questo il caso, ma ipotizziamo- non sarebbe comunque possibile. Questa fusione rappresenta per l’Italia un rischio molto maggiore di quella tra Fiat e Chrysler: una ulteriore ristrutturazione del gruppo è inevitabile; la sovrapposizione di marchi e modelli tra Peugeot, Opel e Fiat è una realtà innegabile e in effetti sono già previste sinergie, ovvero tagli, per 3,7 miliardi. La domanda non è “se si faranno i tagli”, la domanda è “dove verranno effettuati i tagli” Qui entriamo in gioco noi gli stabilimenti francesi sono tutelati dalla presenza dello Stato fra gli azionisti gli stabilimenti tedeschi sono protetti dall’accordo con IG Metall, il sindacato dei metalmeccanici tedeschi, e con il governo Merkel che blinda i posti di lavoro fino al 2023. l’occupazione in America è difesa dal governo, a prescindere dal suo colore politico, e con le mire di Psa verso il mercato americano, difficile pensare a grossi tagli di personale negli USA. Rimane una nazione scoperta, ed è la nostra; corriamo il rischio che il prezzo da pagare rimanga a noi. Per questo, attorno alla concessione del prestito ad Fca Italy deve essere impostata una trattativa che porti a un accordo per la salvaguardia di investimenti e occupazione, se non addirittura all’ipotesi di entrata dello Stato attraverso Cdp nell’azionariato Psa-Fca per controbilanciarvi la presenza francese. Un’ipotesi a parere di chi scrive interessante ma probabilmente tardiva, avanzata qualche giorno fa anche dal Segretario Cgil Maurizio Landini. Insomma, discutiamone La vicenda Fca dovrebbe insegnarci alcune cose: certamente dobbiamo combattere in Europa per porre fine allo scandaloso fenomeno delle società che prendono sede a Londra, in Olanda o in Lussemburgo per pagare meno tasse. Ma soprattutto ci deve insegnare che la politica industriale nel XXI secolo serve ancora e se non la facciamo noi la faranno gli altri paesi, a prescindere da quanto possano essere liberisti. E infine che, se non finalizzato a tappare i buchi di aziende decotte per tornaconto elettorale, l’intervento dello Stato nell’economia può avere successo.
Lorenzo Manuguerra
10 Giu 2020

Da quando la politica non fa più Politica

La Politica, nel corso del tempo, si è dovuta adattare a diversi momenti storici, a strane congiunture che si sono venute a verificare, a cambiamenti di portata epocale. Ecco come in un primo momento nella storia moderna ci si è trovati in una condizione di sostanziale eurocentrismo, incontrastato per secoli, che ha lasciato dopo la Prima Guerra Mondiale spazio al potere statunitense, e dopo il secondo scontro si sono creati i due blocchi delle superpotenze. Dopo la fine della cortina di ferro, in cui la costruzione di una via alternativa all’appoggio di uno schieramento o di un altro sembrava impossibile, si ebbe un momento di enorme smarrimento politico: con l’Est che si apriva all’Occidente, le nuove tecnologie permisero una diffusione sempre maggiore delle notizie provenienti da ogni angolo del globo, fruibili per tutti nei quotidiani. E la politica non è riuscita a correre alla stessa velocità dello sviluppo tecnologico, arrancando prima, distaccandosi completamente poi, dimostrandosi incapace di reagire, non adattandosi ai cambiamenti. Nel caso italiano, la giustificazione di una scelta, di un intervento in territorio straniero, di una determinata politica, non si poteva più ricondurre ad una logica dei blocchi, ad un assecondare la politica statunitense per mantenere una stabilità interna ed esterna. Il terremoto politico determinato da Tangentopoli e dalle elezioni del 1994 ha poi determinato un cambio tanto repentino quanto rivoluzionario della scena politica, e si è passati da una politica di convergenza ad una politica di contrapposizione, basata sul mostrarsi diversi da altri. Ma questo non basta. Per chi ama questa materia, il ridursi al distanziarsi dalle altre forze non è sufficiente, e anzi fa disamorare, fa pensare che una semplificazione del pensiero ad una futile dicotomia non serve. Questa visione bipolare è stata trasmessa anche a chi, come me, fa parte delle nuove generazioni, dei Millennials, di chi alle comunicazioni immediate è abituato perché non ha conosciuto un mondo diverso (o, per lo meno, non aveva ancore le capacità di comprenderlo). Non avendo avuto modo di ricevere alcun tipo di educazione politica diversa, è facile per noi giovani entrare all’interno di una logica dicotomica per cui tutto ciò che fa un personaggio è sbagliato, e tutto quello che fa chi rispecchia il tuo colore politico è giusto, indipendentemente da quello che realmente sono state le motivazioni e spesso le azioni stesse. Ma questo non crea consapevolezza, così come non crea benessere, crea solo odio immotivato all’interno dell’opinione pubblica. Spesso ci si scorda che non è importante chi dice cosa, ma cosa dice quel qualcuno. Nel giro di pochissimi anni avvenimenti esterni hanno acquisito sempre maggiore peso nel condizionare l’opinione pubblica, nel guidare le sue scelte e nel cambiare le sue abitudini; la politica, d’altro canto, non è più riuscita a giustificare questi cambiamenti, a strutturare un pensiero critico che riuscisse a offrire una visione del mondo e un’idea da cui essere guidati. Questa enorme mancanza, necessaria alla Politica stessa, ha portato alla creazione di movimenti e pensieri populisti e qualunquisti, che possono contare su un’ottima comunicazione e dei messaggi poveri di contenuti, ma impeccabili da un punto di vista di comunicazione. Ormai si è abbandonata l’idea che la Politica, oltre ad amministrare e guidare le masse, debba anche (e soprattutto) educarle. Non intendo con ideali schierati in una direzione o nell’altra, ma in senso di comprensione della realtà che ci circonda, che non si può più ascrivere ad un contesto nazionale, ma internazionale: senza un minimo di conoscenza il dibattito si riduce ad uno sterile utilizzo di slogan, solo per andare gli uni contro gli altri, e senza far capire il perché di una determinata scelta a coloro che rappresentano l’elettorato. Se in momenti di difficoltà come questi si parla di ciò che la gente non conosce senza spiegare loro niente, è molto semplice per il populismo avanzare, cavalcare le difficoltà e dire che una determinata scelta è sbagliata usando slogan. Se solo la politica tornasse ad essere Politica, educando, amministrando, gestendo, forse allora questa piaga che sta distruggendo un sistema vincente che difficilmente si è costruito, potrà essere sconfitta. Ma fino a che non si riprenderà l’essenziale funzione pedagogica, sempre più persone parleranno di argomenti complessi per slogan e non per conoscenza e lì, la Politica, morirà. Non nego che i miei vent’anni appena compiuti mi portino a sperare con tutto il cuore che ci sia ancora la possibilità di cambiare le cose, e che per farlo dovremmo tutti tentare di comprendere la realtà che ci circonda, con grande umiltà, insieme. Allora, la strada da prendere è forse la più aspra e scoscesa, è quella più lunga. Ma forse, è anche l’unica che non ci porterà in mano al più becero populismo e qualunquismo, in mano a chi cambia idea a seconda delle emozioni delle masse. Siamo diversi, mostriamoci tali.
Alessio Demetrio
9 Giu 2020

Giovani e crisi Covid

I giovani stanno pagando di più, non dimentichiamocene completamente. Pochi giorni fa è uscito il rapporto Istat sull’andamento dell’occupazione nel primo mese di “vero” lockdown (aprile): come ci si poteva attendere la situazione è molto pesante. Il calo complessivo è nell’ordine dei 280mila occupati rispetto a marzo. Dato il blocco dei licenziamenti imposto dal Governo (misura pur necessaria), le imprese come “valvola di sfogo” per le perdite subite hanno dovuto lasciare a casa soprattutto lavoratori a termine (che appunto non vengono tecnicamente “licenziati” ma non rinnovati): su 200mila occupati dipendenti in meno, 130mila sono lavoratori a termine (più del 60%; e si tenga presente che parliamo delle variazioni complessive, i contratti effettivamente non rinnovati sono probabilmente molti di più). Di fatto, spesso a essere lasciati a casa sono i giovani (perché appunto spesso assunti con contratti precari): rispetto a marzo, le classi che più hanno sofferto il calo dell’occupazione sono quella 15-24 anni (-3,4%) e 24-34 anni (-2,2%), anche se nessuno è stato risparmiato purtroppo (35-49 anni, -1,3%; over50, -0,4%). E parliamo solo di aprile. E non stiamo valutando i disagi subiti dai giovani per il blocco delle lezioni e le difficoltà per molti di accedere agli strumenti necessari per usufruire della didattica a distanza (l’Istat stima che almeno il 12,3% dei ragazzi tra 6 e 17 anni non abbia un tablet o un pc a disposizione in casa) a quanti, soprattutto maturandi e studenti universitari, ancora a volte non hanno certezza di come si svolgeranno i loro esami (va detto che ogni università è un mondo a sé ma i disagi sono diffusi). In questo scenario, qualcosa si muove: ad esempio, pare che si vada verso un allargamento della No Tax Area per gli studenti universitari e per la scuola nel DL Rilancio sono stanziati 1,4 miliardi. Tutti interventi per i quali va riconosciuto al PD di essersi battuto. Ma paiono pur sempre misure di “tamponamento”, non siamo ancora ad una vera fase di progetto di lungo periodo, quella di cui ora avremo bisogno (anche banalmente per poter accedere alle risorse europee auspicabilmente in arrivo nel fondo “Next Generation”). Cosa si può fare? Visto che abbiamo mostrato quanto i giovani stiano prima di tutto pagando la crisi occupazionale innescata dal Covid e contando che la situazione pre-Covid non era certa comunque idilliaca, si potrebbe partire da un pesante intervento di riduzione del costo del lavoro giovanile: come suggerito dal Senatore Nannicini, si può pensare a decontribuzione totale di tre anni per i giovani assunti con contratti stabili (costo circa 10 miliardi), misura non dissimile da quella approvata nel 2018 dal Governo Gentiloni. Altro tema (comunque legato all’inserimento nel mondo del lavoro) può essere quello della fiscalità: il ministro Gualtieri ha indicato in modo chiaro la necessità di rivedere l’attuale impianto dell’Irpef. Un suggerimento può essere quello di valutare una sorta di “No Tax Area” per i giovani, ad esempio con un azzeramento delle imposte personali per gli under 25 e un dimezzamento per gli under 30 (il costo di questa misura non è lontano dal costo del taglio del cuneo che andrà in vigore a luglio ed è in parte finanziabile con una revisione delle imposte successorie, ad esempio sulla falsa riga delle indicazioni dell’Osservatorio sui Conti Pubblici di Carlo Cottarelli). Altro punto può essere il problema dell’accesso alle professioni: a parere di molte associazioni dedicate al tema, è ormai anacronistico continuare a mantenere un esame scritto per fornire l’abilitazione allo svolgimento della professione, contando che i giovani aspiranti medici, psicologi, infermieri, avvocati, commercialisti ecc… non solo hanno studiato per anni la materia (trasformando spesso di fatto l’esame scritto in un doppione) ma svolgono appositi tirocini (il cd “praticantato”) per imparare il lato “pratico” del loro futuro lavoro. Il tutto sorvolando sul tema contingente del caos in cui sono precipitati con l’emergenza alcuni esami, a cui si spera una soluzione si possa velocemente trovare (a titolo di esempio, molti attendono i risultati delle prove scritte dell’esame di avvocato da sei mesi e spesso sono ancora ignote le date di svolgimento delle prove orali). Un primo gesto di attenzione sarebbe coinvolgere in modo chiaro i giovani in questi cd “Stati Generali” (o in qualsiasi forma di consultazione si voglia scegliere, magari coerentemente partendo da una seria consultazione dei giovani interna al PD), ad esempio rispondendo all’appello lanciato dalla piattaforma “Officine Italia”. Quasi simbolico in sé come atto, ma per una volta non solo si parlerebbe di giovani, ma si farebbero parlare i giovani. Si potrebbe andare avanti. Il punto cruciale è che i giovani a questa crisi ci sono arrivati già stremati (disoccupazione comunque stabilmente sopra il 30%, quasi il 25% di NEET, una delle spese per istruzione tra le più basse d’Europa), e sono tra le categorie che anche questa volta rischiano di pagare il conto. Ridare a loro priorità non può essere un vuoto slogan, ma una scelta chiara perché le risorse non sono infinite, come qualcuno pensa, e bisogna scegliere dove indirizzarle.
Franco Cibin
9 Giu 2020

Urbanismo tattico per favorire il trasporto sostenibile

Per lanciare un vero trasporto sostenibile e rivoluzionare le grandi città il bonus per mezzi elettrici non basta, è importante ma per far si che venga usato da una buona parte della popolazione qualsiasi mezzo sostenibile necessita di vie sicure e libere da traffico automobilistico. Perché già è molto rischioso viaggiare in auto (per questo prima molte famiglie sceglievano i suv pure in città) ma in bici è veramente pericoloso se non ci sono ciclabili separate. Il problema adesso è la continuità delle ciclabili perché molte piste si interrompono e necessitano di attraversamenti stradali pericolosi. Penso che la soluzione immediata sia nell’urbanismo tattico e nel creare fasce temporali in cui alcuni percorsi che possano essere di lavoro (dal lunedì al venerdì tra le 7 e le 8 e pomeriggio 5/6) e per svago (il sabato e domenica) siano inibiti al traffico veicolare ed a uso delle bici. Questo è possibile e non aggraverebbe il traffico perché toglierebbe molto traffico di automobilisti singoli che si sposterebbero in bici e simili. Favorire il trasporto sostenibile intraquartiere e negli spostamenti medi di città è possibile. Dobbiamo invertire il paradigma del traffico, da creare maggiori spazi per le auto a ridurli a favore di mezzi elettrici e ciclabili creando piste sicure e prive di traffico automobilistico per spostamenti di lavoro e scuola (licei in particolare). Molti spostamenti (stimati in 60%) quotidiani sono per tratti tra 3 e 12 km e percorribili se in condizioni di piste sicure pure in bici. Una altra importante iniziativa potrebbe essere sperimentata chiudendo il sabato e la domenica la laterale della colombo per arrivare al mare Spero di essere stato utile e d’ispirazione.
9 Giu 2020

Fate presto

Per prima cosa: fare di tutto per non far cadere il governo. Poi abbassare le tasse progressivamente a tutti. Controllare l’evasione fiscale in qualsiasi modo; portare le pensioni a 1000 euro per chi ha versato anche più di 35 anni di contributi. Direi di fare tutto velocemente, evitando per una volta di citare i soliti tavoli di discussione. Non sono d’accordo con le ore di 45 minuti a scuola, credo sia il solito risparmio sulla pelle dei ragazzi.
Laura Rosellini
9 Giu 2020

Rafforzare la medicina del territorio, non solo le terapie intensive

La pandemia è stata uno stress test per l’organizzazione sanitaria. Qualsiasi evento imprevisto di una simile portata lo sarebbe stato: lo sono stati in un passato non troppo lontano, sia pure limitatamente ad aree territoriali circoscritte, le catastrofi naturali o quelle derivanti da incidenti industriali. Ma in questo caso le dimensioni del rischio, oltre che del danno, hanno avuto una importanza che non trova paragoni possibili: almeno da quando abbiamo un servizio sanitario universalistico e generalista. Tutta l’organizzazione sanitaria è stata interessata dalla pandemia: non solo le terapie intensive ed i reparti specialistici, ma anche i servizi della prevenzione, della continuità delle cure, della riabilitazione, delle altre specialità oltre quelle più direttamente chiamate a fronteggiare i casi più gravi. Eppure: di cosa si è parlato? Esclusivamente di terapie intensive. Forse perché il loro tasso di utilizzo, superiore alle capacità programmate, è stato l’indicatore della gravità della situazione, ma anche di una disfunzionalità di sistema più generale e meno immediata da cogliere. Per ridurre questa disfunzionalità, dobbiamo dotarci esclusivamente di più posti letto ospedalieri e terapie intensive? E’ su questi servizi che oggi dobbiamo investire, anche con le risorse del MES? La risposta non può essere né drastica né univoca. Sicuramente è un dato di fatto che, in quasi 30 anni, il numero di posti letto ospedalieri sia nettamente diminuito: dai 311mila posti letto registrati nel 1998 siamo arrivati a 191mila nel 2017. Un dato enorme. Colpisce ben più della fantasia, modifica lo scenario ad esempio di quei paesi della provincia italiana in cui l’ospedale non c’è più. Ma le cifre non dicono, ad esempio, quante “lungodegenze” siano state riconvertite in RSA, termine che abbiamo imparato a conoscere anche se non ci occupiamo di sanità; o quanti nuovi servizi residenziali complementari agli ospedali siano stati creati. Per cui se per un attimo lasciamo stare il conto dei posti letto, rispetto al numero complessivo di medici in Italia non stiamo poi così male: infatti in Europa siamo al secondo posto nella graduatoria del numero di medici per abitante. E le cure le dispongono i medici, non i letti. Quindi se non bene: benino. In questa graduatoria Europea scendiamo però al decimo posto se consideriamo i soli medici di famiglia: il primo punto di riferimento della sanità pubblica per i cittadini. Una delle conseguenze della scarsità di medicina generale è che si genera una pressione impropria sugli ospedali: se è difficile parlare con il tuo medico, e ti senti male, vai al Pronto Soccorso. Tanto che i pronto soccorso sono perennemente sovraffollati, generando tempi di attesa dopo il triage che si aggirano facilmente attorno alle 12 ore. Sono tutte situazioni in cui l’ospedale è il servizio giusto cui rivolgersi? Sembra di no. Infatti, solo ad un terzo delle persone che si rivolgono al Pronto Soccorso vengono attribuiti i codici Rosso o Giallo (i colori attribuiti convenzionalmente ai pazienti che hanno reali condizioni di urgenza, tali da giustificare l’accesso al Pronto Soccorso) Questo significa che 2/3 dei pazienti che si rivolgono “d’urgenza” all’ospedale potrebbero ricevere risposte più adeguate e forse più rapide se si rivolgessero ad altre strutture sanitarie, a partire proprio dai medici di medicina generale (il medico di base). Torniamo quindi al punto: abbiamo abbastanza medici di base in Italia? Quelli che dovrebbero lavorare prioritariamente da filtro e prima risposta, da agenti di prevenzione e orientamento? Non pare. Innanzitutto in Italia abbiamo in media meno di un medico di base ogni 1000 abitanti (i posti letto ospedalieri sono circa 3,6 ogni mille abitanti). Inoltre se facciamo due conti, a partire dal dato semplice per cui ogni medico deve lavorare un ora a settimana ogni 100 pazienti in carico, risulta che ad ognuno di noi adulti spetta mezz’ora del tempo di lavoro del proprio medico all’anno. Mezz’ora all’anno del tuo medico. Per fortuna i medici di base sono tanto generosi da lavorare ben di più di quanto previsto dai loro contratti: ma, diciamola così: si tratta sempre di un millesimo di medico di base a testa. Ora, se questa dotazione di medicina generale risulta palesemente insufficiente in tempi ordinari, pensate cosa può significare rispetto all’aumento di domande di intervento nel corso di una epidemia quando, come nei mesi appena trascorsi, ad ogni colpo di tosse o starnuto si veniva invitati a consultare il proprio medico. Poi, sicuramente, potremo parlare di modalità più mature e funzionali dell’organizzazione della medicina generale; dell’utilità degli studi medici associati; di quanto può essere vantaggioso istituire il servizio infermieristico territoriale o diffondere modelli come quelli delle Case della Salute sperimentati nel Lazio ed in altre regioni del Centro Italia. Ma senza un cospicuo investimento sulla medicina di base e su quella del territorio, rischieremo di avere nei prossimi anni una organizzazione dei servizi per la salute ancora meno elastica e flessibile rispetto ad un bisogno sanitario che non solo è in continua evoluzione, ma che è anche suscettibile di incidenti come quello della pandemia. Il riparto dei finanziamenti che arriveranno dal MES per qualificare l’offerta sanitaria, se vuole guardare al futuro, dovrà andare necessariamente a rafforzare la medicina del territorio.
Cristiano Di Francia
9 Giu 2020

Nel piano Colao non c’è il Mezzogiorno

Il piano Colao cosa dice di nuovo? Sono le solite chiacchiere assemblate nel tempo.Per il Mezzogiorno, poi, non dice un Colao. Io sono del Gargano, una zona ormai spopolata, con un patrimonio edilizio e agricolo di valore zero, senza parlare del patrimonio umano utile solo per il centro-nord. L’ambiente (parco naz. Gar.) e il turismo, motori dello sviluppo, sono slogan che fanno solo ridere i polli e quegli illusi come me che nella storia ci hanno creduto. Ambiente e turismo non danno lavoro a decine di migliaia di persone e continuare a dirlo è da ricovero. Il Mezzogiorno ha bisogno di investimenti nel campo dell’industria e del manifatturiero con occupazione per migliaia di giovani; nel Gargano c’è bisogno di zone no tax per favorire investimenti dall’Italia e dall’estero che intendono anche delocalizzare; nel Gargano c’è bisogno di strade, servizi, sanità, cultura e turismo, ma ciò, comunque non basta se non arrivano i grandi investimenti produttivi. Andate a verificare in che condizioni sono comuni come San Nicandro G.co (il mio), San Marco in Lamis, Monte S.Angelo,ecc. ormai spopolati. Non vi vergognate: ANDATE A VEDERE I DATI STATISTICI. Leonardo Di Monte (iscritto PD)
Leonardo Di Monte
9 Giu 2020

Investire sulla Famiglia è investire sul futuro dell’Italia

L’esperienza dell’isolamento ci ha fatto riscoprire la grande importanza della Famiglia: senza di essa non ce l’avremmo fatta. Non so perché (questione culturale?) ma la politica e anche il nostro partito non dà importanza alla famiglia, luogo in cui si impara a vivere in comunità… A mio parere, alcune priorità del dopo Covid (sperando sia proprio un dopo…): • AGEVOLARE IL PART-TIME LAVORATIVO (tanto più di questi tempi in cui manca il lavoro per tutti) in quanto deve diventare un diritto del lavoratore e i contributi del datore di lavoro per due part-time devono costare meno di quelli per un tempo pieno. • ISTITUIRE L’ASSEGNO UNICO PER OGNI FIGLIO se studente, fino al 26° anno di età oppure fino a quando, come reddito, non sia più a carico dei genitori. • CONSIDERARE COME LAVORO IL SOSTEGNO E LA CURA ALLA PERSONA DISABILE O ALL’ANZIANO PARZIALMENTE O TOTALMENTE NON AUTOSUFFICIENTE. Al familiare che lo sceglie dovrebbero essere versati contributi figurativi per la pensione in quanto i costi per le istituzioni pubbliche, raffrontati a quelli di un posto in struttura semi-residenziale o residenziale, sarebbero decisamente inferiori. I figli sono il futuro delle nostre comunità anche da un punto di vista economico, gli anziani sono la memoria e l’esperienza da salvaguardare. Investire sulla Famiglia è investire sul futuro dell’Italia.
Giacomo Calcagno
8 Giu 2020

Sinistra di governo e crisi democratica

Oggi, dopo le manifestazione della destra e del triste spettacolo in Parlamento dei sovranisti, dobbiamo creare un fronte comune di sinistra a questa deriva direi antidemocratica e sovranista che sta prendendo l’opposizione nel nostro Paese ispirandosi magari ad Orban o ai polacchi o perchè no a Trump e Putin. Invece noi dobbiamo batterci contro di loro con proposte sociali, fiscali ed economiche forti e coraggiose prendendo esempio dalle socialdemocrazie avanzate o dalla Spagna e dal Portogallo. Esempio: un salario minimo legale per tutti i lavoratori e lavoratrici, oltre a maggior fondi per la scuola con il Recovery found che arriverà a Settembre anche se limitato, la sanità usando il Mes, la trasformazione ecologica con il New Green Deal. Insomma una sinistra e un PD di governo sì, ma di sinistra riformista, perché abbiamo ancora 3 anni per cambiare Paese grazie ai fondi europei. E servirà coraggio ed ispirazione dalla cultura liberal socialista, mettere da parte rancori e sedersi attorno ad un tavolo, perché no, con un Congresso e stabilire cosa si vuole fare nei prossimi anni e in questo decennio dando priorità a mio avviso a politiche green, sociali e sanitarie per un Italia diversa. Non ho ancora rinnovato la mia tessera del PD dopo 2 anni e mezzo di militanza (ho 29 anni e sono laureato in Scienze Politiche a Padova) e dopo trascorsi nella sinistra di Nichi Vendola oggi riabilitato da una sentenza di tribunale dopo 7 anni. Vorrei infine una sinistra unita con Leu, Verdi per una sinistra come quella veneta la mia, che ha trovato nell’impegno civico e ambientalista la vittoria a Padova e Rovigo e si candida ad essere competitiva a Zaia con programmi ben precisi e articolati sull’ambiente e sul sociale perché nessuno rimanga indietro, questo lo slogan che più mi piace e spero possa essere realtà a breve. Un saluto compagne e compagni , amiche e amici.
Matteo Santato
7 Giu 2020

E se organizzassimo un Dem Pride?

Ci stiamo concentrando molto sul “cosa”, ma forse non abbastanza sul “come”. Nonostante Nicola Zingaretti avesse ben chiaro che il PD, una volta entrato nel governo col M5S, non dovesse essere “pigro” e dovesse aumentare la propria attività politica, mi sembra che il Partito Democratico sia troppo appiattito sull’azione di governo e sia sostanzialmente assente nella percezione di molti elettori ma anche di molti militanti. Nel partito, infatti, non scorre la linfa vitale della discussione e della partecipazione alle scelte. Ancora, nonostante la vittoria congressuale di Nicola Zingaretti con la proposta “Basta ego-crazia, ripartiamo dal Noi”, il partito, almeno per come lo vivo io, è sostanzialmente un partito di apparato dove la gestione è basata sulla gerarchia interna e non si sente il bisogno di coinvolgere iscritti e militanti nelle decisioni. Forse dovremmo cercare un giusto equilibrio tra il “partito liquido” e quello gerarchizzato del ‘900. Forse, nel favorire il giusto ricambio generazionale dei dirigenti, dovremmo formarli perché incentivino la delega dei compiti e la partecipazione responsabile, anziché evitare questi meccanismi nel timore di perdere il controllo del partito. Il risultato di tutto ciò a me sembra essere un certo scoramento dei militanti. Essi vivono più la frustrazione che l’azione di governo non sia mai abbastanza efficace, piuttosto che l’orgoglio di stare combattendo una battaglia veramente epocale. Ma come? Eravamo percepiti come il partito delle banche e delle élite e ora stiamo realizzando la più grande operazione di protezione sociale mai attuata nel nostro paese! Come mai non emerge il nostro orgoglio per lo sforzo che il partito sta compiendo? Certo siamo cambiati, e molto, in questi mesi: eravamo partiti da una sostanziale ostilità per il reddito di cittadinanza e ora abbiamo iniziato a parlare di reddito universale (vedi il bell’articolo di Alberto Ferrara su Immagina dell’1/6). Per non parlare dell’azione fondamentale che il partito sta compiendo a livello europeo per modificare le politiche economiche e finanziarie di austerità e trasformarle in politiche espansive. E allora? Orgoglio Dem o, appunto, Dem Pride. Scendiamo in piazza. La destra italiana l’ha fatto, col suo stile caciarone, il 2 giugno. Noi possiamo ben farlo senza perdere altro tempo e, come dicono dalle mie parti, senza farsi troppe menate!
Maurizio Montanari
7 Giu 2020

Ricominciare a sinistra

Trentasei anni fa come oggi, Enrico Berlinguer pronunciava il suo ultimo comizio a Padova. “Compagni, lavorate tutti, casa per casa, strada per strada, azienda per azienda”. Qualche mese fa, in televisione, Achille Occhetto, ultimo segretario del partito comunista Italiano, intervistato nella trasmissione dell’Annunziata, ha dichiarato con una lucidità incredibile che per fare politica non basta la passione, ma serve il rigore della ragione. Occhetto ha poi fatto un’analisi brevissima, ma efficace, sullo stato di salute della sinistra italiana e soprattutto del Partito Democratico, indicando come soluzione alla crisi di consensi la messa in campo di un pensiero complesso, affiancato da una comunicazione semplice, che dia un’anima al popolo della sinistra. Quello che è mancato in questi anni, a suo dire, è stato il rapporto con il ceto popolare e una risposta vera alla crisi. In questo preciso momento storico la domanda che più spesso ci facciamo noi di sinistra è come mai l’Italia, regione dopo regione, comune dopo comune, si sia svegliata improvvisamente leghista. La questione non è certo semplice, ma di sicuro per evitare la superficialità di qualsiasi risposta, è bene sgombrare il campo da ogni tipo di alibi che attribuisce agli elettori la colpa di non accontentarsi di quello che offre oggi la sinistra. L’ascesa di Salvini al potere, dalla presa del suo partito al ministero degli interni, è stata dirompente . Ciò di cui si è parlato meno spesso è stata la lenta e silenziosa presa dei comuni da parte della Lega e quindi la presenza dei seguaci del carroccio sui territori. Come Pisa, Ferrara o altre città toscane o emiliane, storicamente roccaforti rosse. Perché oggi anche chi si dichiarava di sinistra, trova nella lega una valida alternativa? Forse vale il detto che gli spazi lasciati vuoti vengono presi da qualcun altro. Nell’era post ideologica in cui viviamo, se una percentuale di elettorato si tiene ancorato alle ideologie, la maggior parte dell’elettorato, specie i nuovi elettori, sentono il bisogno di risposte semplici a problemi complessi che nessuno negli anni ha saputo risolvere. Si sceglie il verde per alternativa, per stanchezza, perché sembra interpretare in maniera più semplice -talvolta semplicistica- il nostro tempo, facendo appelli alla percezioni della gente. La paura dell’invasione dello straniero, per esempio, obbliga la politica di oggi a tenere conto del fenomeno immigrazione con maggiore impegno, pur non essendo, con numeri alla mano, un fenomeno di tale portata. L’Italia, secondo uno studio condotto dall’istituto Ipsos, è il primo paese, tra i 15 dell’Ocse, per distanza tra percezione e realtà. E quello che fa una certa parte politica oggi è giocare proprio con le percezioni dell’elettorato. Sono aumentati i reati, il fenomeno dell’immigrazione è in aumento, è diminuita la sicurezza, manca il lavoro. Se tutti questi argomenti venissero affrontati con dati alla mano, ci accorgeremmo quanto l’agenda politica sia talvolta lontana dai veri problemi del paese e sia modellata semplicemente attorno al consenso facile. È pur vero che se i cittadini avvertono certi problemi o hanno certe sensazioni, la politica deve svolgere il doppio ruolo di raccontare la verità delle cose e affiancare ai dati una soluzione alle questioni sollevate. Se in Italia sono presenti il 7% degli immigrati, ma i cittadini ne percepiscono il 25%, da qualche parte si deve cominciare presto. Bisogna stare però attenti alla propaganda che si autoalimenta. Se l’elettore medio leghista lamenta la gestione dell’immigrazione e la presenza per le strade di giovani migranti magari finiti in giri poco legali, dovrebbe riconoscere nei decreti sicurezza esattamente l’effetto opposto da quello auspicato. Non è togliendo l’asilo ai richiedenti, chiudendo le strutture di accoglienza, disintegrando i progetti di integrazione che si combatte l’immigrazione clandestina. Così si sono soltanto messe in strada migliaia di persone che, non avendo nulla, è probabile che trovino proprio nelle attività illegali le loro uniche forme di sostentamento. E la propaganda leghista si autoalimenta. Ma al di là della propaganda, non è certamente soltanto questo il motivo per cui la Lega di Salvini ha raggiunto da sola picchi del 34% ed ha preso comuni e regioni nell’ultimo anno. Ritorniamo alla presenza nei territori. Negli anni di governo, il Partito Democratico ha perso lentamente il polso della politica locale. Uno dei colpi di grazia maggiori se l’è dato da solo, promuovendo e votando l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti che, per lo meno, dava a disposizione dei maggiori partiti un budget per la sopravvivenza, budget che adesso i partiti non hanno più. Oggi se trovi un privato disposto a finanziarti bene, che sia a Mosca o in Italia, avrai più possibilità di concorrere nell’agone politico. Viceversa o ti autosostieni o muori lentamente. Susanna Turco, nel dicembre 2018, per l’Espresso, si avventurò a raccontare il lento decadimento dei circoli del PD, da Roma a Bologna. Sedi chiuse, debiti precedenti, dipendenti in cassa integrazione, mancano i soldi per tenere una saracinesca aperta o pagare la luce. Al posto di qualche sede storica, adesso ci stanno attività commerciali. A Bologna, racconta la giornalista, hanno chiuso 30 sedi in 10 anni. Pensate cosa ci sarà nelle città che tradizionalmente non sono mai state rosse. Più che il deserto. In questi anni il Partito, oltre a perdere terreno e spazi, ha perso elettori perché non c’è stato. È stato lontano da quei luoghi da cui oggi viene fuori il maggior consenso per l’alternativa leghista. Ci sono state importanti riforme, qualche numero da negativo è diventato positivo, ma in certi luoghi non puoi raccontare soltanto di numeri che crescono, se in quei luoghi non è cambiato niente e se la percezione continua ad essere un’altra. Il rapporto con le persone, il dialogo per le strade c’era finché il partito era presente, finché la luce era accesa, finché non venivano lasciati soli segretari e piccoli dirigenti. Un partito troppo poco presente in periferia, quasi assente in provincia, che regge ancora per i comuni medio grandi. In tal senso ne sono conferma i risultati di una rilevazione a cura di Noto sondaggi e EMG acqua, commissionata dall’Associazione nazionale per la modernizzazione degli enti locali. I comuni con più di 60 mila abitanti, cioè i grandi centri, si affidano all’attuale maggioranza di governo, ora spostata a sinistra. Nei comuni con pochi abitanti la Lega avanza. Appare quindi evidente che la lontananza, fisica e non solo, dai palazzi del potere e dai maggiori centri, genera consenso verso chi sembra coinvolgere proprio quella fetta di elettorato nelle province e nelle campagne italiane. Durante la campagna elettorale in Umbria per le regionali, Salvini ha tenuto comizi 51 volte in giro per la regione, il suo competitor 15. La presenza nei territori non è una frase da recitare a memoria ad ogni assemblea, per condannare qualcun altro ed autoassolversi. La presenza in politica è fondamentale. Nella recente campagna elettorale tra i democratici americani nel 2018, Alexandria Ocasio-Cortez ha strappato un seggio al congresso a Joseph Crowley, sulla carta imbattibile, proprio girando il suo quartiere porta a porta, offrendo un’alternativa valida, coinvolgendo i cittadini di Queens e Bronx e facendoli sentire parte di una storia nuova. Cos’è che la gente cerca? La fiducia, la comprensione, la compassione e qualcuno con cui parlare dei problemi che deve affrontare ogni giorno. In sostanza la presenza nei territori e qualcosa da dire. Chi sarà capace nei prossimi anni a tornare per le strade con un programma importante, sconfiggerà Salvini e le Lega. Chi pensa che il fenomeno si autodistruggerà, assisterà alla presa di potere con maggiori consensi del leader più amato d’Italia. Dobbiamo tornare casa per casa, strada per strada, azienda per azienda.
Gloria Di Miceli
7 Giu 2020

Stop al consumo del suolo pubblico e rivedere la legge sugli appalti

Ho partecipato da poco ad una riunione ambientalista, molto interessante, l’argomento era: stop consumo suolo pubblico. Non condivido sempre le idee degli ambientalisti, ma stavolta hanno detto cose molto ragionevoli, o meglio sono anni che se ne parla, ma fin’ora non è stato fatto niente, i Verdi hanno depositato una legge che è ferma al Senato già da due anni, con la quale si chiede la revisione di tutti i piani regolatori dei comuni e che propone la ristrutturazione degli immobili inutilizzati e/o demolirli e ricostruirli con nuove tecnologie. Fatelo subito, in tutte le città ci sono dei catorci pieni di zecche abbandonati ai topi che fanno pietà. Le storture della legge sugli appalti. Sulla legge degli appalti c’è troppo da dire, si pensi solo che adesso nel 2020 si sta procedendo ai lavori nelle scuole e il decreto era stato approvato dal governo Renzi nel 2014, 6 lunghissimi anni di preventivi, autorizzazioni, ricorsi, documenti, ecc. ecc. In tutti i comuni dovrebbe essere istituito un anagrafe delle imprese, dove gli imprenditori si iscrivono e depositano i documenti necessari al fine di partecipare alle gare, l’iscrizione avrà un numero progressivo che sarà dichiarato nell’offerta economica, l’anagrafe bisognerebbe aggiornarlo ogni sei mesi, confermare i requisiti o dichiarare le eventuali variazioni che sono intervenute. L’anagrafe delle imprese dovrebbe essere depositato nel comune ove ha la sede legale della ditta, ma utilizzabile in tutto il territorio nazionale.
Sandra Tosques
7 Giu 2020

Recuperare dall’evasione fiscale

Per evitare l’evasione ci vorrebbe un coinvolgimento molto ampio dei singoli Comuni, sopratutto in quelli più piccoli.
Carlo Crippa
7 Giu 2020

Nessuno si può salvare da solo. Idee per il lavoro ai tempi del Covid

“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Diciamolo chiaramente, non c’è un’unica risposta allo Tsunami del Covid-19: dovranno essere le più disparate. Per fare fronte alla più grande crisi dal dopoguerra ad oggi il centro delle strategie politiche dovrà necessariamente essere la valorizzazione delle competenze, per rispondere adeguatamente alla tempesta perfetta, già innescata dalla robotizzazione e digitalizzazione del lavoro. Nessuno dovrà essere lasciato solo a “rifarsi” il suo kit di competenze per ricollocarsi. Per mettere al centro le Persone è indispensabile che nessuno sia obbligato a risolversi la propria “occupabilità”, in autonomia, in solitudine. La retorica del self long learning non convince più nessuno, nessuno si può salvare da solo. Il tema centrale è quello delle politiche attive del lavoro, per combattere la disoccupazione nel lungo periodo e tutelare i soggetti più deboli in cerca di occupazione, superando le dicotomie generazionali e culturali. Lo smart working dovrà diventare una dimensione strutturale del lavoro, non una semplice alternativa al lavoro in ufficio, ma una scelta deliberata per i benefici già comprovati sulla produttività, sulla conciliazione dei tempi di lavoro e sull’ambiente. Per uscire dalla crisi servono, dunque, strategie a lungo termine che vadano oltre gli strumenti disposti per tamponare l’emergenza, come i vari ammortizzatori sociali e la cassa integrazione, un’apertura a un modello di governance basato sul dialogo continuo e proficuo con tutti gli attori socio-economici, rimettendo al centro il patto sociale, attraverso la concertazione. E allora sì che nessuno sarà più solo e impareremo tutti a dialogare con i robot ed a ballare disinvoltamente grazie ad un drone.
Flavia Balestrieri
5 Giu 2020
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