Sviluppo sostenibile e lotta alle disuguaglianze, la fase due della nuova Italia

L’emergenza sanitaria ha piegato il Paese. Il coronavirus ha schiacciato quel che si è trovato di fronte. E’ colpa sua se i cittadini sono stati divisi in compartimenti; se sono stati costretti a stare a casa. Li ha allontanati dalle pratiche quotidiane, creando una società che non riesce a vedersi se non quando si ritrova in fila davanti ai supermercati. Fabbriche e industrie, chiuse anche loro. Soltanto la filiera alimentare insieme con i servizi essenziali hanno preso sulle spalle il peso dell’intera nazione. Il coronavirus non può essere una scusa per abbassare la guardia sulle politiche ambientali perché sarà anche riuscito a svuotare le città e a renderle forse più respirabili, ma nessuno può azzardarsi a pensare che sia possibile sacrificare l’ambiente in nome della ripartenza. Né di vecchi modelli industriali.

Per molte ragioni questo non deve accadere, non ora.

Nella fase 2, nella ripartenza dell’Italia, io ci vedo altro. Sviluppo sostenibile, in testa. Lotta alle diseguaglianze sociali. Istruzione scolastica innovativa e formazione universitaria protesa alla ricerca e al mercato di domani. Tutto nel segno della discontinuità rispetto ai vecchi schemi di un Paese che ormai non c’è più. Perché per ora ci ritroviamo ogni giorno di fronte a un appuntamento fisso: gli aggiornamenti della Protezione civile, il bollettino delle diciotto, come un evento atteso, come un’antica liturgia prima del pranzo della domenica.

E insieme con quell’appuntamento, ci troviamo proprio dove quelle regole primitive ci hanno portato: le continue deroghe che il sistema ha prima richiesto e poi imparato a tollerare, fino a giustificarle. Con la sanità che ha mostrato tutta la sua fragilità nella rete territoriale e di medicina di prossimità, con l’indifferenza per la difesa del territorio che ha portato a stragi di innocenti sotto alluvioni e valanghe di fango, con il pensiero corto dell’industriale che guarda soltanto alla produzione ‘a-tutti-i-costi’ senza farsi troppe domande dell’inquinamento e della sicurezza dei suoi lavoratori (leggi ex-Ilva), con i condoni (edilizi e fiscali che siano) sbagliati nel momento sbagliato, con l’abusivismo che cancella i nostri gioielli naturali, con l’evasione e l’elusione delle tasse che rubano i servizi al popolo.

Così piano piano, di volta in volta, senza neanche troppe resistenze, quello che doveva essere eccezione è diventato normalità. Una normalità che forse riesce a spiegarci anche come mai, questo Paese funziona e lavora meglio quando è in emergenza; mettiamola così, sarà che l’emergenza è il regno delle deroghe, dove antiche abitudini sono disinvoltamente di moda.

Oggi ci troviamo esattamente nel punto in cui il sistema si è rotto, mandando in frantumi quello schema al quale ci eravamo troppo semplicemente abituati. Si è scontrato contro se stesso, quel sistema.

Per questo è il momento di essere ancora più convinti nelle nostre azioni, proprio come tradizionalmente avviene in una fase post-bellica. Perché noi oggi stiamo uscendo da una guerra. Dovremmo affrontare il futuro, e nello specifico il Green deal, con l’entusiasmo che si diffuse nel Paese durante la ricostruzione degli anni ’50 e ’60. Ci vorrebbe quella stessa operosità costruttiva, quella stessa voglia di futuro. E una sola chiave per aprire tutte le porte: sviluppo sostenibile come filtro della società, solidarietà e regolarizzazione dei migranti, istruzione innovativa, cura delle fasce più deboli della popolazione.

Quattro i passi da compiere: la prima cosa da fare è garantire la sopravvivenza delle famiglie e delle imprese; quando la situazione sarà incentrata verso una normalizzazione servirà un’opera di semplificazione; poi una valutazione degli effetti delle misure e nel caso una rimodulazione del taglio; poi la creazione delle condizioni per generare e realizzare i necessari investimenti sociali.

Il punto di partenza è incrementare gli investimenti per il Green deal; qualsiasi elemento di discontinuità rispetto al passato è cosa buona; per andare ancora di più in profondità. Se il Paese si è ‘rotto’ e con esso il vecchio modello che rappresentava, si ha finalmente l’opportunità di ‘rompere’ anche con lo schema degli ultimi 30 anni.

L’emergenza coronavirus è una tragedia. Umana, sanitaria, economica. Va combattuta in tutti i modi possibili. Per sconfiggere la pandemia dobbiamo pensare a mezzi nuovi, strumenti eccezionali ad hoc, risorse imponenti, ‘soldi-in-mano’ ai cittadini. Ma questo non può, e non deve diventare un alibi per indebolire la normativa ambientale di questo Paese. Soprattutto non può essere la scusa del momento per dire, ‘sul Green deal, abbiamo scherzato…’.

Né in Italia, né in Europa. Maggiore flessibilità, allentamento delle regole al Patto di Stabilità, non possono essere riequilibrati riducendo le prospettive della decarbonizzazione in virtù di un cambiamento del modello industriale: l’economia circolare non va sacrificata sull’altare degli eurobond o di un estensione del rapporto tra deficit e Pil.

Quella del governo sul Green deal, soltanto pochi mesi fa, era una promessa. Mi auguro venga mantenuta. Lo stesso spero, e mi aspetto, avvenga in Europa.

Rossella Muroni è una parlamentare di Liberi e Uguali, già presidente nazionale di Legambiente