La politica economica ai tempi del Covid-19, tutte le risorse devono essere mobilizzate

La pandemia del COVID-19 porterà ad una crisi senza precedenti dai tempi della Grande Depressione. Nel suo ultimo rapporto, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) prevede una caduta del PIL italiano del -9,1% a fronte di un calo di quello dell’Area Euro del -7.5%. Sono cifre spaventose, da economie in guerra. La crisi del Corona virus ha altre caratteristiche che la rendono peculiare. In primis, colpisce sia la produzione delle imprese (l’offerta, usando un gergo economico) che la domanda aggregata, riducendo i consumi delle famiglie e gli investimenti. È una crisi che colpisce principalmente l’economia “reale”, ma che potrebbe ulteriormente peggiorare se venisse colpito gravemente il settore finanziario. Infatti, l’incapacità delle imprese e delle famiglie di pagare i loro debiti potrebbe mettere sotto stress il sistema bancario, richiedendo salvataggi pubblici per evitare bancarotte, con un conseguente aggravio sul debito sovrano. Inoltre, la lunghezza della recessione è incerta perché la ripartenza dell’economia potrebbe arrestarsi improvvisamente di fronte a nuovi focolai. Infine, la crisi del COVID-19 è globale e all’interno dell’Unione Monetaria Europea (UME) può essere considerata come uno shock simmetrico, che colpisce cioè tutte le economie nazionali dell’area (anche se in maniera diversa).     

I costi economici della crisi derivano solo in parte dalle spese collegate all’emergenza sanitaria. La maggior parte di essi scaturisce dall’impatto delle misure di contenimento (“lockdown”) sull’attività economica necessarie per appiattire la curva dei contagi. Come ha scritto Mario Draghi, siamo in guerra e dobbiamo agire tempestivamente e risolutamente per evitare che l’attuale crisi muti in una depressione, lasciando cicatrici permanenti sulla nostra economia. Per questo motivo, sono necessari interventi di politica economica sia dal lato dell’offerta che della domanda che devono seguire tre direzioni complementari. Innanzitutto, bisogna fare tutto il possibile per uscire al più presto dalla fase di contenimento, permettendo all’economia di ripartire senza pregiudicare in alcun modo la salute dei lavoratori e dei cittadini. Durante la fase di lockdown, sono necessari provvedimenti di sostegno economico alle famiglie e alle imprese. Infine, bisogna già pianificare gli interventi di politica economica da dispiegare alla fine della fase di contenimento per far crescere l’economia a pieno regime.  

In un’economia di guerra, tutte le risorse devono essere mobilizzate per raggiungere la vittoria. Questo implica che gli interventi pubblici devono andare spesso oltre la logica delle analisi costi-benefici comunemente impiegate dagli economisti. Se durante la Battaglia d’Inghilterra, Winston Churchil avesse preso le sue decisioni sulla base di analisi costi-benefici, probabilmente la Storia avrebbe avuto un altro corso. In queste circostanze, ricorrere al “mercato” non sempre funziona e il governo può adottare misure speciali per il benessere collettivo estranee alle logiche del laissez faire. Un esempio storico illuminante è la grande mobilitazione ordinata da Roosevelt durante la Seconda Guerra Mondiale che portò a risultati produttivi straordinari. Possiamo e dobbiamo fare lo stesso per superare l’attuale emergenza sanitaria che richiede la produzione di mascherine, ventilatori, farmaci di contrasto al COVID19, test tamponi, test sierologici, etc., nonché l’aumento delle capacità delle terapie intensive. Queste necessità primarie potrebbero richiedere alcuni interventi pubblici “intrusivi”, come indicato anche in un articolo sul blog del FMI, necessari per far ripartire l’economia tutelando la salute dei lavoratori: la prioritarizzazione degli ordini pubblici rispetto a quelli privati, la riconversione della produzione di imprese e industrie, nazionalizzazioni temporanee e selettive (ad es. ospedali privati), controlli dei prezzi, etc.

Durante la fase di contenimento, vanno dispiegati interventi di politica economica per mantenere le famiglie e le imprese in buona salute durante questa sorta di “coma farmacologico” che riduce le potenzialità produttive dell’economia. L’obiettivo deve essere di evitare a tutti i costi che gli effetti negativi ma transitori del lockdown sull’economia diventino permanenti con una perdita delle capacità produttiva, delle conoscenze delle imprese e delle competenze dei lavoratori, la distruzione di anelli della catena del valore. Gli interventi a supporto della liquidità delle imprese e delle famiglie (prestiti, garanzie pubbliche, differimenti di pagamenti delle imposte, etc.) sono necessari, ma non sufficienti e possono provocare un aumento dell’indebitamento del settore privato. Per sostenere le famiglie ed evitare un aumento della disuguaglianza e della povertà è necessario garantire il posto di lavoro e lo stipendio agli occupati ed aiutare i lavoratori intrappolati nel precariato e nel lavoro sommerso. Per questo motivo va esteso il Reddito di Cittadinanza trasformandolo in Reddito d’Emergenza e si può istituire un Sostengo d’Emergenza al Lavoro Autonomo, come indicato nella proposta del Forum Disuguaglianze Diversità e di ASviS. Le imprese devono essere sostenute direttamente attraverso il pagamento degli stipendi dei lavoratori. Fortunatamente l’Italia può contare sulla Cassa Integrazione che va estesa e semplificata perché ogni impresa in difficoltà possa accedervi velocemente (come già sta facendo). Se questi interventi non fossero sufficienti, il Governo potrebbe sostenere ulteriormente le imprese compensandole parzialmente per la perdita di fatturato (lo Stato agirebbe come “compratore di ultima istanza” secondo la proposta di Saez e Zucman)  Lo Stato deve fornire alle imprese aiuti condizionati. Per esempio, le imprese devono mantenere i livelli di occupazione, rinforzarsi patrimonialmente accantonando una parte  dei dividendi, pagare le imposte in Italia e perseguire obiettivi di sostenibilità tagliando le loro emissioni di gas serra.

L’impatto della crisi del COVID sulle nostre imprese rende ancora più urgente e rilevante un ritorno alla politica industriale considerata ormai come uno strumento di sviluppo anche in un articolo del Fondo Monetario Internazionale. Innanzitutto, le nostre imprese strategiche devono essere protette da eventuali acquisizioni straniere, soprattutto se al di fuori del perimetro dell’Unione Europea. A questo scopo, l’istituzione della  “golden power”, uno strumento puramente difensivo, andrebbe affiancata da una riforma che introduca una maggiorazione dei diritti di voto per gli azionisti stabili per consolidare e favorire lo sviluppo delle imprese italiane. Inoltre, un ruolo più attivo dello Stato potrebbe rendersi necessario per partecipare al capitale di imprese in crisi.

Lo Stato Imprenditore deve essere Innovatore focalizzandosi su missioni. Tra le innumerevoli missioni, due sono impellenti e tra loro strettamente complementari: sconfiggere l’attuale pandemia, rendendo l’Italia resiliente rispetto a quelle future, e la lotta al cambiamento climatico. Infatti, gli impatti dell’attuale crisi sull’economia e la società sono comparabili a quelli del riscaldamento globale accelerati a grande velocità. Inoltre, entrambe le crisi comportano costi sociali ed economici colossali, richiedono una riorganizzazione radicale della struttura economica, non possono essere risolti ricorrendo al mercato e richiedono un nuovo ruolo per lo Stato di sostegno e di guida all’innovazione. La prima missione richiede un forte investimento nella sanità pubblica e lo sviluppo di una rinnovata industria farmaceutica e biomedicale. Un esempio ci viene da come il governo USA ha creato a tempo di record l’industria degli antibiotici durante la Seconda Guerra Mondiale, salvando la vita a centinaia di migliaia di soldati e gettando le basi per lo sviluppo di un nuovo settore strategico. La lotta all’emergenza climatica è già al centro dell’agenda Europea con l’European Green Deal. Il nostro Paese deve essere un pioniere in questa battaglia che è una missione possibile: si possono già realizzare le politiche d’innovazione e industriali per trasformare l’economia, creare nuove tecnologie, imprese e settori per arrivare a zero emissioni entro il 2050, crescendo in maniera sostenibile. Per il successo di queste missioni è necessario sviluppare sinergie strette con il settore privato e valorizzare le imprese pubbliche che possono e devono avere un ruolo chiave. Le politiche industriali e d’innovazione mission-oriented permetterebbero di trasformare l’attuale crisi in opportunità per rilanciare stabilmente la crescita della produttività e dei redditi, colmando il divario che ci sta progressivamente separando dai nostri partner europei. Inoltre, contribuirebbero a ridurre la secolare dualità che separa il Nord ed il Sud del nostro Paese. Infatti, lo sviluppo del Mezzogiorno passa necessariamente per una nuova stagione industriale (l’attuale crisi mette a nudo i limiti di una strategia di crescita basata sul turismo e i servizi) che porti alla valorizzazione delle imprese esistenti (per esempio un centro di ricerche sull’idrogeno all’ILVA) e alla creazione di nuove eccellenze come il CIRA.

Le politiche economiche discusse finora sono molto costose e avranno certo un impatto sulle nostre finanze pubbliche già provate dal forte calo del prodotto, che porterà ad un forte aumento del rapporto debito pubblico/PIL. Il piano straordinario PEPP di acquisti di titoli privati e pubblici messo in campo dalla Banca Centrale Europea sta impedendo il verificarsi di una nuova crisi del debito sovrano, consentendo all’Unione Europea di guadagnare tempo per trovare una soluzione condivisa per contrastare la crisi. Purtroppo, nonostante un accordo sull’utilizzo dei fondi del MES, l’introduzione di un sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione in un’emergenza (SURE) e la mobilitazione di risorse della Banca Europea d’Investimento, è ancora in corso un confronto tra i vari Paesi su come realizzare il “Recovery Fund”.

In Italia il dibattito si è dogmaticamente appiattito sull’opportunità o meno di ricorrere ai fondi MES, mentre è più che mai necessario un approccio pragmatico alla gestione delle nostre finanze e debito pubblici. Una regola semplice da seguire è preferire soluzioni europee che non facciamo aumentare il debito pubblico italiano o che comunque ne limitino al massimo la crescita. Infatti, è bene considerare che ogni prestito europeo farà crescere il debito pubblico del Paese che ne beneficerà esattamente come interventi che aumentino il deficit nazionale. Un ulteriore aumento del già elevato debito pubblico italiano ci porterebbe ad una situazione di fragilità strutturale che perdurerà anche dopo la crisi, quando il nostro debito dovrà essere onorato o rinnovato in un contesto in cui il divario tra la salute dei nostri conti pubblici e quello dei partner europei virtuosi sarà aumentato ulteriormente.

Che cosa si può fare quindi? È necessario ed urgente disegnare interventi e strumenti che possano essere il primo passo per la realizzazione di vere politiche fiscali di stabilizzazione nell’Unione Monetaria Europea (UME) come auspicato anche in questo articolo del Fondo Monetario Internazionale. Infatti, un altro lavoro sempre del FMI suggerisce che l’assenza di meccanismi di condivisione del rischio fiscale può mettere in pericolo l’esistenza dell’UME con una conseguente perdita di benessere sia dei Paesi mediterranei che di quelli del Nord. Molti economisti di diversa nazionalità e scuole di pensiero hanno proposto alcune soluzioni che vanno verso una maggiore solidarietà e integrazione europea che porterebbe vantaggi a tutti i suoi cittadini. Per esempio, sette economisti tedeschi hanno chiesto l’emissione di bond europei e diversi piani per realizzarli sono stati proposti (per esempio qui). La stessa Unione Europea potrebbe invocare l’articolo 122 del Trattato di Funzionamento dell’UE per creare uno strumento di solidarietà contro la pandemia raccogliendo essa stessa risorse sui mercati finanziari. Inoltre, l’espansione del bilancio europeo potrebbe essere parzialmente finanziata dall’introduzione da un’imposta patrimoniale europea che colpisca in maniere progressiva l’1% dei cittadini più ricchi. Infine, la Banca Centrale Europea potrebbe finanziare con un intervento una tantum i deficit dei Paesi membri (“helicopter money”) oppure convertire una frazione del loro debito pubblico esistente in titoli a scadenza perpetua a tasso zero, riducendo istantaneamente il loro stock di debito (si veda qui). Trattandosi di interventi una tantum, l’indipendenza della BCE non sarebbe messa in discussione come del resto il suo mandato di stabilizzazione dei prezzi, dato che l’inflazione europea è abbondantemente al di sotto la soglia del 2%.

Certamente la realizzazione di questi interventi di politica economica europei è vincolata dal superamento di ostacoli legali e politici. Ma la crisi del COVID19 pone l’Unione Europea di fronte ad un bivio: o si dà un nuovo slancio al processo d’integrazione europeo, oppure c’è il rischio che l’edificio costruito con molti sforzi negli ultimi decenni possa crollare rovinosamente favorendo movimenti e forze politiche autoritarie e nazionaliste.

Andrea Roventini è professore associato di economia alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa