La lunga e articolata riflessione proposta in questi giorni dal responsabile economico del PD, il giovane economista Emanuele Felice, rappresenta un significativo passo avanti nel posizionamento della principale forza politica del centro sinistra, assumendo il binomio uguaglianza-sviluppo come asse strategico.
E’ una posizione interessante, largamente condivisibile che deve sempre di più orientare non solo l’azione amministrativa (nazionale e locale) ma, mi auguro, anche e soprattutto le strategie delle alleanze politiche oggi, la ricostruzione di un partito nel territorio, sui luoghi di lavoro, nelle periferie da cui è di fatto assente (la sinistra tutta purtroppo), domani.
Da ultimo di una covata di giovani militanti politici, non mi sfugge infatti che, senza assumere la questione sociale come l’altra faccia della questione democratica, senza assumere un chiaro riferimento degli interessi, passioni, soggettività che si vogliono rappresentare, in Italia e nel Mondo, difficilmente se potranno organizzare le “casematte” politiche (partiti o movimenti, importa il giusto) e difficilmente tornerebbe a volare il “Pipistrello di Lafontaine” (per citare il libro di Luigi Agostini pubblicato da Ediesse qualche anno fa).
Senza stare nel gorgo del governo democratico, nel giusto equilibrio globale-locale, tentando di organizzare tutti coloro che da “sfruttati” ambiscono a divenire “produttori” – per citare Bruno Trentin, produttori di ricchezza ma oggi anche di senso – non vi può essere esercito pronto a tornare a combattere.
Sì, a combattere. Combattere una guerra che da anni si va sviluppando in molti campi (economico finanziario, sociale, tecnologico e quindi politico) e che ha visto, man mano, occupare fisicamente e simbolicamente gli spazi lasciati liberi da una sinistra che, smarrita, non ha saputo difendere la propria autonomia di pensiero e di lettura del mondo (la “guerra di classe” non ha mai smesso di essere combattuta dai ricchi, anzi visto l’aumento della loro ricchezza, della loro possibilità di cura e di vita, si può dire che l’hanno anche condotta bene…).
Una sinistra cioè che assumesse e assuma la questione del cambio di modello produttivo, di modello sociale e quindi ambientale e politico come le leve intorno a cui organizzare un ruolo nuovo della “proprietà sociale”, dello Stato e dell’Unione Europea e quindi dell’antico scontro tra detentori di potere e aspiranti all’uguaglianza, facendo delle classi popolari – attraverso l’ascensore sociale – la nuova classe dirigente.
Detto questo (male e velocemente) una siffatta possibile strategia di rilancio di una visione “socialdemocratica” oggi del PD, domani di un più largo fronte democratico, civico e chiaramente ambientalista e socialista, non è tema che una grande forza del lavoro come la CGIL può snobbare.
Secondo il vecchio principio autonomi sempre, neutrali mai, la riflessione di Emanuele Felice interroga anche noi, particolarmente in questa fase da cui potremmo uscire, post Covid, da destra o da sinistra, sapendo anche correggere strategie politiche, sindacali e contrattuali alla luce delle fragilità emerse (rimando all’articolo di Gaetano Sateriale “Come coniugare ricostruzione e sviluppo” pubblicato qualche giorno fa proprio su ll Diario del Lavoro ).
Ovviamente mettendo ognuno a disposizione la propria parzialità, la propria storia – e anche le proprie contraddizioni – dentro però una visione generale degli interessi nazionali.
Che sono gli interessi di una grande operazione di redistribuzione economica, di saperi, di strumenti collettivi, da fare partendo dalla centralità del lavoro.
Il lavoro tutto, salariato e non, avente ancora una forte componente manuale o una sempre maggiore concentrazione di sapere, dentro i luoghi di lavoro e nel territorio, lungo le filiere lunghe che tecnologia e globalizzazione hanno prodotto.
Perché il tema del governo democratico dell’innovazione (ancor prima della sua quantità o del mero apporto alla crescita di valore aggiunto) è qualcosa che rimanda agli strumenti sindacali, certamente, ma ancor di più agli strumenti della politica e – aggiungo – anche al ruolo che l’organizzazione e l’autorganizzazione di spazi di democrazia economica dovrà avere sempre di più in un riassetto che vada oltre la mera “architettura istituzionale”.
Nuove e vecchie mutualità (dal collocamento alla formazione, dalla qualità del tempo libero all’accesso al welfare per la persona) per riconnettere sul territorio ciò che crisi e trasformazione disconnettono, per ridurre il rischio sociale insito in ogni “rivoluzione/riconversione” e offrire spazi di azione collettiva altrimenti difficile da agire.
Nuovo welfare pubblico intorno a cui ricostruire spazi, fisici e sociali, in grado di accompagnare la transizione demografica e il multiculturalismo (due facce della stessa medaglia) e verso cui piegare politiche economiche di nuova generazione (la mia amica Laura Pennacchi direbbe “Creazione di lavoro, attraverso il lavoro”).
Riconversione green delle città e delle produzioni e democratizzazione e controllo politico dell’enorme potenza di calcolo oggi a disposizione (e su cui la dicotomia è chiara: tecnologia di pochi o dell’umanità). Si consideri questo ultimo tema, per esempio, anche solo dalla prospettiva dell’accesso alle cure e ai prodotti della ricerca biotecnologica o farmaceutica…
E quindi il ruolo dello Stato Innovatore, non più mero agente regolatore degli spiriti animali, ma produttore, alimentatore diretto di innovazione al servizio di tutti.
Tutto questo declinato anche solo in termini di strategie contrattuali (per la riforma dell’organizzazione del lavoro e la redistribuzione di orario), di strategie salariali (“il principale anello a cui aggrapparsi” avrebbe detto Sergio Garavini), di aggressione dei colli di bottiglia che riducono la produttività di sistema (i veri colli di bottiglia in un paese dove si lavora tanto, si compete sul costo del lavoro e si investe poco, si chiamano credito, infrastrutture e banda ultra larga, costo energetico e logistico, giustizia celere) rappresenta un universo sterminato da esplorare.
E non è tema diverso da quello di una riforma fiscale basata realmente su progressività e tassazione della ricchezza, di una riforma significativa della Pubblica Amministrazione e, attraverso politiche industriali selettive, di una qualificazione dell’imprenditoria italiana (in parte stracciona, in parte sotto capitalizzata, in parte incapace di riconvertirsi).
Tutto questo ci pone, allora, la domanda delle domande: e noi come lavoratori, come Sindacato cosa siamo disposti a metterci, per dar vita ad un nuovo “Rinascimento del Lavoro” (che non a caso seguì quella nuova centralità dell’uomo, nota universalmente come “umanesimo”, che influenzò cultura ma anche istituzioni)?
Questo sottende, forse, anche lo stesso appello che alcuni ex Segretari Generali di CGIL, CISL e UIL, pongono al Governo, ma di fatto a tutti i protagonisti della vita politica, economica e sociale del Paese (si veda l’appello a firma di Benvenuto, Cofferati, Epifani, Pezzotta e altri sempre sul sito de Il Diario del Lavoro).
Ci piaccia o no, è da come sapremo dare tutti, ognuno per la propria parte, una risposta a questi quesiti che potremmo contribuire ad una nuova stagione politica ed economica nel paese e, magari, tramite questa, condizionare e facilitare una riflessione ed un’azione più ampia, in un’Europa e in un Mondo, mai oggi così piccolo ed interconnesso.
E se nel far questo dovesse rafforzarsi una organizzazione anche politica portatrice di tale sfida “egemonica”, come militante della CGIL ritengo sia utile proprio agli interessi che tutti i giorni proviamo a tutelare nei luoghi di lavoro e nel territorio e quindi – lo dico senza mezzi termini – da sostenere e alimentare.
Alessandro Genovesi – Segretario Generale della Fillea Cgil