Coronavirus: Quo Vadis Africa?

Sono in molti a domandarsi quale sarà il reale impatto del Coronavirus in Africa. Stando ai dati forniti domenica 3 maggio dall’Africa Centers for Disease Control and Prevention (Africa CDC) i contagi risultano essere 43.029, i decessi 1.761, mentre i ricoveri sono 14.343. Da rilevare che, volendo confrontare questi numeri con la popolazione africana – oltre un miliardo e 300 milioni – non saremmo ancora di fronte a quello scenario catastrofico che tutti, ancora oggi, ritengono non solo possibile, ma probabile.

Si teme soprattutto che i contagi possano essere molti di più per la debolezza del sistema sanitario continentale che, nelle condizioni attuali, non è in grado di monitorare le possibili catene di contagio locali capaci di scatenare processi di moltiplicazione e dunque di propagazione della pandemia. La principale preoccupazione riguarda oltre la diagnostica, la mancanza di farmaci impiegabili e di ventilatori polmonari: nella Repubblica Centrafricana, ad esempio, risultano essercene solo tre. Si tenga presente che stiamo parlando, in termini generali, di paesi segnati da un basso rapporto di medici per popolazione – in media in medico ogni 5.000 – e da una spesa sanitaria media pari ad appena il 5% del già scarso Prodotto interno lordo (Pil) continentale. Dunque, la capacità di gestione e di risposta del sistema sanitario, a livello sia urbano sia rurale, è ritenuta scarsa e inadeguata.

E allora come si spiega che al momento, stando al Cdc Africa, i casi conclamati risultino essere 43mila in un continente tre volte l’Europa? Potrebbero esservi forse almeno due elementi in grado di attenuare l’impatto del Coronavirus in Africa.

Anzitutto, il fatto che la letalità, così com’è stata registrata negli altri continenti, interessi prevalentemente la popolazione più anziana, mentre l’impatto è meno rilevante per le giovani generazioni. Considerando che in Africa oltre il 60% della popolazione è sotto i 25 anni, gli effetti della pandemia dovrebbero rivelarsi più contenuti rispetto ad altre parti del mondo. A ciò si aggiunga una particolare predisposizione genetica delle popolazioni nilotiche e bantu a resistere maggiormente all’aggressione virale, anche se naturalmente la cautela è d’obbligo perché del Covid-19 la comunità scientifica internazionale sa ancora troppo poco. Detto questo, è innegabile la resilienza delle popolazioni autoctone africane costrette a convivere con altre malattie endemiche come quelle tropicali neglette (Mtn) per non parlare delle tre“big ones”, cioè malaria, Aids e tubercolosi, o di epidemie particolarmente gravi seppur territorialmente circoscritte come ebola.

Come se non bastasse, oltre all’impatto del virus sulle popolazioni africane, non vanno sottovalutate le ricadute economiche della crisi sanitaria globale. Infatti il Covid–19, tra i suoi effetti collaterali, ha infatti innescato una drammatica spinta recessiva sull’economia africana. Il crollo del turismo e delle esportazioni conseguenti alla chiusura delle frontiere, la volatilità sulle piazze finanziarie internazionali del prezzo delle commodity (materie prime), petrolio in primis, hanno messo in ginocchio le economie nazionali africane. Stando alla Banca Mondiale, vi sarebbero tutte le condizioni per un’imminente crisi della sicurezza alimentare, con previsioni di contrazione della produzione agricola comprese tra il 2,6% e il 7% a seguito, soprattutto, dei blocchi commerciali e della piaga delle locuste che stanno infestando numerosi paesi, soprattutto sul versante orientale del continente.

Come se non bastasse, sul continente africano si è abbattuta la mannaia impietosa delle agenzie di rating statunitensi che hanno declassato in queste settimane di pandemia ben dieci i paesi: Angola, Botswana, Camerun, Capo Verde, Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Nigeria, Sudafrica, Mauritius e Zambia. Si tratta di un fenomeno che, come secondo un copione ben consolidato, vede come protagoniste le tre grandi sorelle: Moody’s, Standard&Poor’s e Fitch le quali sono, alla prova dei fatti, entità economico-finanziare private, pesantemente segnate da un conflitto di interessi in quanto vantano partecipazioni azionarie importanti provenienti dalle più grandi banche, fondi di investimento e corporation internazionali.

A tale proposito è utile leggere il dettagliatissimo documento, di oltre 650 pagine, intitolato “The financial crisis inquiry report” redatto da una commissione bipartisan e pubblicato dal governo statunitense nel 2011, nel quale vengono evidenziate le gravi responsabilità delle agenzie di rating, prima e durante la grande crisi finanziaria del 2007-8. “La crisi non sarebbe potuta avvenire – scrissero gli estensori del rapporto – senza le dette agenzie. I loro rating, prima alle stelle e poi repentinamente abbassati, hanno mandato in tilt i mercati e le imprese”. Com’è noto, con la parola anglosassone “rating” si intende la valutazione della solvibilità di titoli obbligazionari e imprese rispetto al rischio finanziario in cui incorrono nel contesto dei loro rispettivi paesi. Poiché le agenzie di rating hanno un enorme potere di influenzare le aspettative del mercato e le decisioni di allocazione del portafoglio degli investitori, i declassamenti indotti dalla crisi del Coronavirus minano i fondamentali macroeconomici dell’intero continente. Infatti, le loro pagelle vengono puntualmente prese in considerazione dai mercati per giudicare lo stato di salute delle varie economie nazionali e, di conseguenza, per definire anche i tassi d’interesse sul debito pubblico. Sta di fatto che il declassamento operato dalle tre agenzie ha avuto un impatto devastante sulle economie africane, sia per quanto concerne l’aumento del costo dei prestiti, come anche in riferimento all’indebolimento dell’offerta di capitale da parte degli investitori stranieri. Questi giudizi, infatti, si basano fondamentalmente sulle previsioni riguardanti la debolezza dei sistemi fiscali e sanitari dei rispettivi paesi.

Come ha osservato il professor Misheck Mutize, docente di economia finanziaria all’Università di Città del Capo “le decisioni di downgrade riflettono un tempismo negativo monumentale. Direi anche che, nella maggior parte dei casi, erano prematuri e ingiustificati”. Ma per avere un’idea di quello che è realmente avvenuto è emblematico il caso del Botswana da parte di Standard and Poor’s (S&P). Stiamo parlando – è bene sottolinearlo – di una delle economie più stabili dell’Africa subsahariana che prima del declassamento vantava un rating “A”. La S&P ha denunciato l’indebolimento delle entrate a causa di un calo della domanda di materie prime e della prevista decelerazione economica a causa di Covid-19. Il downgrade del Botswana, curiosamente, è avvenuto quattro giorni dopo che nel paese fosse imposto il lockdown e prima che le autorità sanitarie dichiarassero ufficialmente il primo caso di Covid-19.

E cosa dire del Sud Africa? Per questo paese, che appartiene all’aggregato geoeconomico dei Brics, l’agenzia Moody’s ha rilevato un aumento del debito del 62,2% rispetto al Pil, con una previsione fino al 91% entro il 2023; inoltre ha giudicato la crescita inferiore all’1%, prevedendo una recessione del -5,8% entro il prossimo triennio. Il governo di Pretoria si augurava che il giudizio di Moody’s non fosse pubblicato così in anticipo, non solo per constatare il reale impatto del virus sul paese ma anche per avere il tempo di constatare l’effetto delle misure economiche adottate su scala nazionale. Il risultato del downgrade ha generato una tale sfiducia tra gli investitori per cui, poco dopo, l’altra agenzia di rating Fitch ha ulteriormente declassato i titoli di stato considerandoli “ junk”, dunque “spazzatura”. La Nigeria è stata declassata invece da Standard and Poor’s (S&P) da “B” a “B-”. Il motivo sarebbe legato al fatto che il Coronavirus avrebbe aumentato il rischio di shock finanziari derivanti dalla riduzione dei prezzi del petrolio e dalla recessione economica. Questi downgrade stanno penalizzando fortemente l’economia reale del continente africano. E dire che sia il cartello del G8 come anche quello dei G20 hanno ripetutamente stigmatizzato il comportamento delle agenzie di rating auspicando una loro profonda riforma.

Come suggerito dal professor Mutize e da altri osservatori africani, sarà compito dell’Unione Africana (Ua) e dei paesi membri adottare dei meccanismi di sostegno ai governi del continente perché possano tutelare i loro mercati dalla speculazione finanziaria. Vale la pena ricordare che, dal punto di vista semantico, speculare e speculazione derivano dal latino speculum (specchio) e dai verbi spector (guardare, osservare) e speculor (che nella forma intransitiva significa guardarsi intorno, volgere lo sguardo da tutte le parti). E allora la speculazione, se fosse correttamente interpretata, potrebbe diventare un atto filosofico di alto profilo, richiedendo, appunto, di volgere lo sguardo da tutte le parti – sia in estensione che in profondità, sia dentro che fuori – scrutando il futuro e sottraendolo all’esclusivo vantaggio di un manipolo di nababbi. Senza dimenticare l’accezione implicita nella parola in oggetto, che allude all’astrazione, alla riflessione. Tutte dimensioni palesemente misconosciute dai fautori del dio denaro che guardano solo e unicamente alla massimizzazione dei profitti.

Una cosa è certa. Con queste premesse servirà a ben poco la recente decisione, adottata dai paesi del G20 di sospendere per un anno il debito dei paesi più poveri – tra cui figurano quelli africani – consentendo un risparmio complessivo di 20 miliardi di dollari. Tutta liquidità che dovrebbe essere investita, oltre che per contrastare la diffusione della pandemia, anche per mitigarne l’impatto della crisi economica. Ma attenzione: non si tratta di cancellazione del debito. Infatti il denaro dovuto sarà spalmato nel tempo e comunque condizionerà non poco la ripresa del continente, assommandosi a quello pregresso. L’adozione inoltre di nuovi programmi di prestiti sottoscritti dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e dalla Bm pone lo stesso problema, soprattutto per quanto concerne il meccanismo di rimborso. È evidente che per i governi africani, al momento, la priorità deve rimanere quella di contrastare la pandemia, rafforzando i presidi ospedalieri e intraprendendo azioni rapide per scongiurare le interruzioni nelle catene di approvvigionamento alimentare.

Ciò non toglie che fin d’ora, guardando all’Africa, occorre pensare al “dopo coronavirus” promuovendo scelte all’insegna della solidarietà globale, nei confronti in particolare di coloro che vivono nelle periferie del mondo. Come ha pertinentemente denunciato papa Francesco nell’Evangelii Gaudium: “Questa economia uccide”, perché fa prevalere la “legge del più forte, dove il potente mangia il più debole”.


Padre Giulio Albanese, missionario, già fondatore della MISSNA e firma di punta di Osservatore Romano ed Avvenire