Il cibo è una grande questione geopolitica (e la Cina l’ha capito prima degli altri)

Da trent’anni, una delle principali questioni affrontate nei congressi del Partito Comunista Cinese, in parte ancora coperta dal segreto di Stato, è come garantirsi cibo in periodi d’incertezze. Nell’ultimo Food Security Plan del 2019 si legge: “Le ciotole dei cinesi devono poggiare solidamente nelle nostre mani. Fare affidamento interamente sui mercati internazionali per alimentare 1,4 miliardi di abitanti è un rischio troppo grande per il governo cinese”.

Chiedersi come la Cina possa garantirsi i propri bisogni alimentari, soprattutto in situazioni di crisi globali, significa porsi un quesito centrale per la stabilità dell’intero pianeta. La questione non sta solo nei nuovi milioni di individui da sfamare, quanto in tutte quelle persone che cambieranno dieta, “occidentalizzando” le proprie abitudini alimentari. Cosa vuol dire? Maggiori consumi di carne, pesce, uova, derivati del latte.

Per nutrirsi con proteine e carne occorre, pro capite, una superficie di terreno cinque volte superiore rispetto a un nutrimento a base di soli cereali. Veniamo da una fase di innovazioni quasi miracolose, che hanno per esempio consentito di triplicare la produzione dei cereali in cinquant’anni. Ma sarà molto difficile replicare quei miracoli, perché un conto è triplicare la produzione di cereali, ben altra cosa è triplicare quella di carne.

Per nutrire gli animali allevati, infatti, serve la soia. E l’aumento dei capi di bestiame comporta un aumento esponenziale della domanda di soia, tanto che le superfici coltivate in tutto il mondo stanno superando quelle a grano e mais. Già oggi 36 paesi poveri esportano cereali per l’alimentazione animale anziché sfamare la propria popolazione. Quindi, almeno nel prossimo trentennio, non solo il consumo di cibo crescerà più rapidamente sia della popolazione mondiale sia della produttività del settore agricolo, ma crescerà anche il consumo delle risorse planetarie necessarie al soddisfacimento di questi nuovi stili di vita.

Se così sarà, il problema di garantirsi il rifornimento di cibo in situazioni di scarsità, come quella che stiamo vivendo, oltre che un problema umano, diverrà un serio problema geopolitico. E il fattore cinese sarà determinante. Perché nel Paese già negli ultimi trent’anni l’incremento della domanda di cibo è stato accompagnato da un radicale cambiamento delle abitudini alimentari, che alla tradizionale dieta a base di carboidrati, ha aggiunto consistenti apporti di cibi a contenuto proteico.

Nel 1990 il consumo di carne pro capite della Cina era di 25 Kg, a fronte di una media mondiale di 33 Kg. Ai giorni nostri, la media pro capite è di 62 kg, a fronte di una media mondiale di 45 Kg. La Cina oggi consuma quasi la metà della carne di maiale che ogni anno viene consumata da tutta l’umanità. Volendo estremizzare, se i cinesi dovessero allinearsi del tutto alle diete proteiche occidentali – come ha calcolato Earth Policy Institute di Washington – occorrerebbero circa 120 miliardi di animali e per nutrirli bisognerebbe impiegare due terzi delle terre arabili del pianeta.

Man mano la Cina si è quindi trovata “scoperta” sia nella produzione domestica destinata all’alimentazione umana, sia in quella di carni, dovendo di conseguenza ricorrere per entrambe a massicce importazioni. E per mantenere l’autosufficienza nella produzione dei tre cereali principali (con l’obiettivo di almeno il 95% di autonomia prefissato dal governo) ha dovuto sacrificare una delle sue colture più antiche, proprio la soia, divenendone sempre più estero-dipendente.

In questo cortocircuito, per mantenere fermi il dogma della sovranità alimentare e dell’indipendenza dai mercati nelle situazioni di crisi, alla Cina non sono rimaste allora che due strade percorribili.

La prima è stata quella di aumentare a dismisura le proprie scorte strategiche di cibo. È certo che ormai la Cina sia diventata il più grande magazzino di cibo del mondo. La seconda via, ancora più impattante sugli equilibri mondiali e assai discussa nei suoi diversi aspetti problematici, è stata invece quella di aumentare le proprie superfici coltivabili andando a prendersele all’estero.

A livello mondiale, la terra incolta è pari a circa il 20% della terra coltivata ed è concentrata in Africa e in America Latina. Ed è proprio lì che, come sappiamo, il Dragone ha puntato, investendo parte delle sue imponenti risorse finanziarie e trovando nello sterminato territorio africano, non senza conseguenze per i paesi interessati, quello spazio vitale necessario alla realizzazione della propria food security e della propria indipendenza alimentare.

E così, mentre in America con la pandemia si tocca con mano la pesante crisi di una parte del sistema dell’approvvigionamento alimentare a partire proprio dalle filiere della carne, il paese del Dragone annuncia per il 2020 raccolti e produzioni agricole record mai raggiunte fino a qui.