Questa crisi può essere una grande occasione per ripensare il nostro futuro. La parola a Jean-Paul Fitoussi

“La crisi economica dopo la pandemia sarà massiccia, forse la più forte che abbiamo mai conosciuto. Colpirà fortemente il ceto medio-basso e tante imprese non riusciranno a riaprire”. L’economista francese Jean Paul Fitoussi, tra i più autorevoli in Europa, è piuttosto netto nell’inquadrare le ripercussioni dell’emergenza sanitaria sull’economia: “È qualcosa di enorme”, ci racconta telefonicamente. Ma allo stesso tempo, il professore emerito dell’Institut d’Etudes Politiques di Parigi si dice ottimista sulla possibilità che tutto questo possa diventare una grande opportunità. Un’occasione per ripensare il futuro potendo fare finalmente ciò che finora non si è fatto, ovvero spostare l’attenzione sui settori ormai dimenticati come educazione, ricerca, energia ed economia verde.

La ricetta di Fitoussi, da professore di economia, è quella di sostenere nel breve termine domanda e offerta (famiglie e imprese), con il sostegno forte da parte dello Stato. Ma da pensatore e filosofo dell’economia pone l’accento su quello che a suo giudizio dovrebbero fare i governi, ossia pensare molto meno al Pil e dare maggiore priorità ai “fattori che sono importanti per il benessere”, come la sicurezza economica, l’ambiente e l’uguaglianza in tutte sue dimensioni, inclusa quella di genere.

Jean-Paul Fitoussi

Scettico sull’Europa di oggi (“per il momento è assente”), ma fiducioso su quella di domani (“la speranza è che diventi una federazione con una vera politica”), Fitoussi traccia insieme a noi un quadro su questa nuova (e anomala) crisi economica, analizzandone le conseguenze anche politiche. E per usare una metafora del suo libro, Il teorema del lampione, ci indica dal suo punto di vista cosa andrebbe “illuminato” per uscire più forti dalla tempesta che ci apprestiamo ad affrontare.

Professor Fitoussi, partiamo dal definire i lineamenti di questa nuova crisi economica. È una crisi diversa perché sta colpendo direttamente sistema produttivo e consumi. Cosa dovrà aspettarsi il ceto sociale più debole?
È una crisi che non viene dalla finanza, come successo in altre occasioni, ma dal virus. È legata quindi al crollo dell’offerta, avendo colpito fortemente il lavoro, uno dei fattori di produzione. È una crisi di offerta, che diventa immediatamente anche una crisi di domanda. Perché è chiaro che nel momento in cui la gente non può andare a lavorare ha meno reddito a disposizione, con la conseguenza inevitabile di generare minori consumi. In più, i negozi e le altre imprese sono stati chiusi per molto tempo.

Cosa dobbiamo aspettarci e quanto durerà?
Non sappiamo se il virus se ne andrà, se tornerà. E non sappiamo nemmeno se le imprese colpite sopravvivranno, soprattutto nel settore del turismo e in quello dei trasporti aerei. Ma è chiaro che in tanti non riapriranno se il mercato manca. Un mercato meno stimolato a causa del minor reddito a disposizione dei cittadini.

E questo si tradurrà in problemi per il ceto sociale medio-basso.
Beh, sì, come accade in ogni crisi. Le fasce fragili soffriranno di più. La povertà aumenterà, come pure la disoccupazione. Basti guardare i dati arrivati dagli Stati uniti, dove il numero di disoccupati ha raggiunto livelli davvero preoccupanti, 26 milioni in più. È evidente quindi che una crisi del genere riguarderà soprattutto le fasce medie, che soffriranno il fatto che le persone non si muoveranno liberamente nelle proprie città, per paura del virus. Per fare un esempio semplice: non si andrà dal medico lo stesso numero di volte con cui ci si andava prima, né dal parrucchiere. Così come non si acquisteranno gli stessi servizi anche in altri settori.

Veniamo da un decennio molto pesante, indebolito dalla enorme crisi del 2008. Ma la storia è lastricata di momenti critici, finanziari ed economici, recessioni e depressioni e poi riprese. Ce la faremo anche questa volta?
La differenza rispetto alla precedente crisi finanziaria è che adesso va aiutata una grande fetta della popolazione, non solamente le banche come nel 2009. Nell’immediato, quindi, va stimolata con forza sia la domanda sia l’offerta, perché abbiamo bisogno che le imprese non spariscano, altrimenti l’economia andrà a pezzi. E sembra che, per una volta, i governi l’abbiano capito.

Ma saranno necessarie anche soluzioni diverse, ad esempio il part-time working, che ha come grande vantaggio quello di mantenere il legame tra l’impresa e il lavoratore e dunque il capitale umano. L’abbiamo fatto in Francia e lo state facendo in Italia. Finora, in Francia, questa misura ha coinvolto 12 milioni di lavoratori e ha fatto in modo che la disoccupazione non aumentasse in maniera spaventosa. Almeno per il momento.

Guardando al prodotto interno lordo, in questi giorni banche di investimenti e autorevoli organismi internazionali stanno diffondendo stime molto preoccupanti per il futuro. Che numeri ci sono dietro questa crisi?
Quello che sappiamo già oggi è che sarà enorme, forse la più grande che abbiamo mai conosciuto. Non è paragonabile con la crisi finanziaria, che ha fatto scendere il Pil di 3-4 punti percentuali. Qui si parla di almeno il 10% in meno. E a mio avviso i numeri saranno anche peggiori. Dunque è una cosa enorme. Non abbiamo vissuto niente di paragonabile. Ma offrirà anche opportunità che sarebbe più che un errore, una colpa, non cogliere.

Di che tipo?
Si potrà finalmente fare quello che non è stato fatto finora per pigrizia e spirito dottrinario. La crisi sanitaria ci ha svegliato: avevamo lasciato a pezzi il settore sanitario, in Francia come in Italia. Non abbiamo ad esempio messo sufficienti risorse in settori come l’educazione e l’università. Non si può pensare di avere una ricerca di punta senza un’università di punta e una educazione adeguata. E poi ci sono investimenti da fare su infrastrutture, trasporti, economia verde, le nuovi fonti di energia. Il punto è che per risparmiare risorse e poter rispettare il Patto di stabilità e il Fiscal compact non si è investito abbastanza (per usare un eufemismo).

A proposito di regole europee e di UE. Per uscire definitivamente dalla crisi non dovremmo forse guardare a quale direzione prenderà l’Europa in questi mesi? Come giudica le misure prese finora? E come sta il Vecchio continente?
Il vero problema oggi è che i Paesi europei non si amano più. I Paesi del Nord non amano quelli del Sud. Amano il clima, il cibo, ma non il resto. Sulle misure prese in considerazione dall’Unione, per un momento c’è stata la speranza (si veda al blocco del patto di stabilità) che per una volta l’Europa potesse utilizzare tutti gli strumenti di politica economica (monetaria e di bilancio). Ma sulla politica di Bilancio c’è ancora una dura negoziazione in corso: i paesi del Nord non vogliano sentire parlare di Corona bonds e ancora meno di eurobond. Servirebbero almeno di un triliardo di euro in più, e dico bene, almeno. Dobbiamo ricostruire come accade dopo una guerra. Mentre considero i 500 mld già decisi per il fondo una goccia d’acqua in mezzo al mare. Equivarrebbero in pratica a una media di 1000 euro per ogni abitante dell’Unione. Cioè nulla a che vedere con un vero piano di rilancio in tale circostanze.

E a tutto questo aggiungerei la sentenza della Corte costituzionale tedesca, che con i suoi attacchi alla Bce non fa altro che irrigidire il clima politico europeo. Credevo che la Germania potesse prendere una nuova strada, ma quei forti attacchi diretti ai pilastri dell’Unione europea, le due istituzioni federali (Bce e Corte di giustizia europea), non fanno ben sperare per il futuro.

Eppure la sentenza di Karlsruhe potrebbe aprire un forte dibattito interno nella Germania, creando i presupposti per nuovi passi in avanti. Non crede? Se l’anima più europeista tedesca avrà la meglio all’interno di quel dibattito, ci troveremmo di fronte a una Germania più socialdemocratica, finalmente pronta a ragionare su una politica fiscale europea, trascinando magari anche Austria e Olanda. Che ne pensa?
Sì, l’abbiamo detto diverse volte. Ma non è così scontato. Cerco da un sacco di tempo l’anima europea tedesca e non l’ho ancora trovata. Diciamo che per il momento l’Europa è assente. Non c’è. Guardi per esempio come stanno reagendo gli Stati Uniti: hanno già messo 2mila miliardi di dollari finanziati dalla Fed, che quindi non costeranno niente, e hanno dichiarato che si tratta solo dell’inizio.

Dal punto di vista culturale, però, l’intervento pubblico per crescita e sviluppo sociale sembra essere visto sempre meno dannoso per il bene comune. E nel recovery fund pare addirittura ci saranno delle risorse da destinare a fondo perduto. Si sta riscoprendo Keynes anche in Europa come è stato già fatto oltreoceano?
Non si tratta di Keynes, ma del fatto che nelle democrazie occidentali c’è un protettore che si chiama Stato. Lo Stato deve intervenire altrimenti ci troveremo in difficoltà, come si troverebbe in grave difficoltà la democrazia. Finora abbiamo legato le mani ai governi senza permettere loro di fare gli investimenti necessari. Ma adesso si deve cambiare passo. Sono i beni più importanti per i cittadini come la scuola, la salute e la sicurezza economia a determinare il modo in cui vivono le persone, le speranze di un progresso sociale. Se il Recovery fund dovesse offrire risorse a fondo perduto, andranno valutate attentamente le condizioni. Io non accetterei nemmeno un centesimo se dovessero venire fuori le stesse condizioni applicate alla crisi greca. Condizioni che hanno creato un pericoloso precedente, generando tra le persone il timore che in cambio di risorse si debba per forza affrontare una serie di enormi sacrifici.

Parlando di condizioni, i 240 miliardi del MES disponibili per le sanità dei governi europei sono senza condizionalità a quanto pare. E si otterrebbero a un costo molto minore rispetto all’approvvigionamento tramite mercati…
In questo caso sarebbe stato davvero ridicolo parlare di condizioni, perché non stiamo parlando di una crisi che deriva da un comportamento sbagliato di un Paese. Non c’è un responsabile della crisi e sarebbe stato insensato mettere condizioni. Senza nessuna condizione quindi si può usare, certo. Ma ci si può fidare? Consideriamo che ai vertici c’è la stessa gente, con la stessa dottrina che ha quasi ammazzato l’Europa. Quindi bisogna stare attenti ad ogni mossa.

Ma adesso c’è anche Gentiloni nella Commissione e altri posti dell’Unione sono diversi rispetto a quelli di dieci anni fa.
Si, questo è vero. Ma la presidente Von der Leyen non viene certo da una scuola di politica espansiva. La situazione in Europa non è così semplice. In ogni caso, nonostante io faccia l’avvocato del diavolo, resto fiducioso che l’Europa prima o poi possa diventare una federazione con una vera politica. Anche per riconquistare un ruolo importante nel consesso internazionale.

Bisognerà anche resistere al vento antieuropeista della destre estremiste. A una nuova galassia neofascista, xenofoba e populista, che non fa certo rima con l’europeismo sociale di cui ci sarebbe bisogno. L’idea di Europa federale è in pericolo?
Su questo ho cambiato idea recentemente. Per me questa ondata non è venuta spontaneamente, ma è stata la conseguenza delle scelte dei partiti socialdemocratici europei, che non hanno fatto la politica che la gente si aspettava. Dunque è aumentata la rabbia e si sono cominciati a votare gli estremi. È come quando un medico non riesce a risolvere un problema e si va da uno stregone. Credo che questa situazione potrà risolversi solo quando i partiti socialisti e di centro sinistra faranno le giuste scelte politiche.

Chiuderei con una domanda generale, sull’approccio che a suo giudizio si dovrebbe avere nei confronti dell’economia. Lei più volte ha detto che quello che conta è la distribuzione del reddito tra la gente, non il Pil. E in uno studio aveva anche individuato i limiti del Prodotto interno lordo come indicatore della performance economica e del progresso sociale di uno Stato. Quale dovrebbe essere la “misura” del benessere? E per usare una sua metafora (dal suo libro “Il teorema del lampione”), cosa dovremmo davvero “illuminare” per uscire da questa nuova crisi?
Vanno misurati i fattori che sono importanti per il benessere. Come in parte si sta già facendo con gli istituti nazionali di statistica. Educazione, occupazione decente, sicurezza economica, sicurezza in generale, qualità dell’ambiente, uguaglianza tra le persone e in particolare tra i generi, fiducia nelle istituzioni, partecipazione alla vita democratica.

Tutto questo si può misurare e si possono mettere i governi di fronte ai risultati. Se per esempio il Pil aumenta, ma la misura del benessere no, bisognerebbe ripensare le scelte di politica economica. Essendo una media, la crescita del PIL non mi dice niente sulla ripartizione dei redditi. Preferisco una crescita di 2% che dia benefici alla maggioranza della popolazione piuttosto che una crescita del 10% che dia benefici solamente all’1%, ai più ricchi.

E quando le disuguaglianze sociali diventano troppo grandi, nelle società si comincia ad intravedere la violenza. Ecco, mettiamo il lampione sui fattori che generano il benessere sociale, e mettiamo i risultati sotto il naso di chi ci governa. Io, per ogni misura presa, vorrei sapere quali sono le conseguenze sull’educazione o sul capitale umano. E se queste ultime diminuissero preferirei si cambiasse strada. Bisogna dare tutta la priorità possibile al benessere e non al Pil.

Jean-Paul Fitoussi è Professore emerito all’Institut d’Etudes Politiques di Parigi e alla Luiss di Roma. È attualmente direttore di ricerca all’Observatoire francois des conjonctures economiques, istituto di ricerca economica e previsione, ed è autore di numerosi saggi.