La “città dei 15 minuti”, tra utopia e progetti reali

Questa pandemia sta trasformando, e trasformerà, la concezione dello spazio delle nostre città e molti amministratori locali, architetti e urbanisti sono alla ricerca di nuove suggestioni progettuali in grado di orientare lo sviluppo urbano del prossimo futuro. Una delle proposte che da subito hanno avuto molto seguito è quella della “città dei 15 minuti”, proposta dalla sindaca di Parigi, Anne Hidalgo e fatta propria anche dalla città di Milano, nel documento Milano 2020.

La proposta vuole fare in modo che ogni cittadino possa raggiungere in quindici minuti di distanza, a piedi o in bicicletta, i servizi necessari per mangiare, divertirsi e lavorare. L’idea è certamente suggestiva e va nella direzione della sostenibilità ambientale e sociale, ma forse può essere utile un breve cenno di storia dell’urbanistica, per meglio posizionarla all’interno di una dimensione territoriale più ampia rispetto a quella strettamente urbana ed evitare che possa essere interpretata come una ricetta per le sole zone in ztl.

La città dei 15 minuti deriva dal concetto di “neighborhood unit”, unità di vicinato, elaborato per la prima volta nel 1923 in un concorso nazionale di architettura di Chicago, come proposta di assetto per costruire nuovi quartieri residenziali compatti. Si riteneva infatti che la prossimità tra servizi, attrezzature pubbliche e abitazioni potesse costruire comunità dotate di una riconoscibile identità sociale e culturale di scala locale, in grado di contrastare l’anonimità tipica delle grandi città. Tale proposta si inseriva nel dibattito nato all’inizio del Novecento in molte aree metropolitane nordamericane, su come contrastare la crescita delle principali città industriali che, con l’avvento della motorizzazione di massa, rischiavano di espandersi in modo incontrollato e di generare anonime e sempre più lontane periferie.

Come alternativa fu quindi elaborato il concetto di città-regione, esplicitato per la prima volta nel Regional Plan of New York and its environs, pubblicato nel 1929 dopo ben sei anni di lavoro. Il Piano aveva l’obiettivo di orientare l’attività di pianificazione in un’area che si estendeva attorno a Manhattan per circa 14mila Kmq e che contava nove milioni di abitanti, indicando una serie di indirizzi per i livelli istituzionali coinvolti. I più importanti erano:

  • disincentivare alte concentrazioni insediative al centro delle città attraverso programmi di edificazione residenziale in ambito suburbano, soprattutto con case mono e bifamiliari di bassa densità;
  • riportare le principali attività produttive nel centro delle città da cui stavano scappando per i crescenti livelli di traffico che rendevano le aree centrali sempre meno accessibili;
  • promuovere la costruzione di nuovi quartieri residenziali “compatti”, secondo i criteri dimensionali e spaziali dell’unità di vicinato, appunto.

L’attuazione del Piano fu poi demandato alla volontà delle amministrazioni locali, non essendoci un livello di governo corrispondente al territorio interessato e questo, insieme ai primi investimenti autostradali del governo federale, contribuì al sostanziale fallimento di tutto il Piano. I nuovi quartieri residenziali fuori città erano infatti privi di quei servizi che erano alla base dell’unità di vicinato e per poter accedere a qualunque forma di socialità era necessaria l’automobile.

Quali lezioni possiamo prendere dall’esperienza newyorkese degli anni Venti del Novecento oggi, nel mezzo della più grande pandemia mondiale del secolo?

Nell’area metropolitana di Milano, dove da qualche anno si assisteva a un forte processo di ri-centralizzazione, già prima della diffusione del covid-19 c’era una forte domanda di qualità sociale, ambientale e di nuove forme di riappropriazione che faticavano a trovare risposte adeguate sia per un apparato normativo superato, sia per processi di pianificazione sempre più burocratizzati, ma anche per la scala delle scelte di programmazione territoriale non sempre ottimali.

Per avere quartieri residenziali integrati con servizi, verde, uffici e fabbriche, servirebbe un grande ripensamento circa la localizzazione di alcune funzioni pubbliche e collettive che tradizionalmente non hanno mai varcato i confini della città centrale e che potrebbero, anche nell’hinterland e in particolare in quelle zone già servite dal trasporto pubblico, generare polarità e centralità metropolitane.

Il tutto con un mix di funzioni che permetterebbero di aumentare la qualità della vita dei comuni di medie dimensioni, di alleggerire la congestione (e quindi l’inquinamento) della città centrale e di ridurre i fenomeni di pendolarismo.

A differenza del territorio interessato dal Regional Plan di New York, qui abbiamo la città metropolitana quale ente di governo che, seppur di secondo livello, ha tra le proprie funzioni quella della pianificazione strategica, territoriale e ambientale, strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, la mobilità e la viabilità, il coordinamento dello sviluppo economico e sociale nonché il coordinamento dei sistemi di informatizzazione e di digitalizzazione in ambito metropolitano.

Nel dibattito attuale, in cui si parla di accorciare le filiere produttive lunghe della globalizzazione, riportando in Italia pezzi di produzione che abbiamo perso a favore di una delocalizzazione selvaggia, e in cui si sta diffondendo la consapevolezza circa la necessità di una presenza più forte dello Stato anche nell’economia, c’è forse anche lo spazio per rinforzare l’attività pubblica di programmazione territoriale, riorganizzando le dinamiche spaziali e avendo il coraggio di aprire a una stagione di politiche metropolitane innovative integrando ambiente, mobilità, attrezzature collettive e sistema produttivo.

Se non si avrà questo coraggio, il rischio è che la città dei 15 minuti sarà uno splendido slogan ma praticabile ben poco oltre il limite della zona C, con buona pace delle disuguaglianze tra centro e periferia.