1970-2020. Sono passati cinquanta anni. Mezzo secolo. Cinquant’anni che equivalgono ad ere geologiche, tanto il mondo e la nostra stessa quotidianità sono cambiate. Cinquant’anni dall’approvazione di due leggi che hanno segnato la storia del nostro Paese. Anzi, tre: una fu promulgata il 16, l’altra il giorno 20, la terza infine il 25. maggio. La prima porta come numero il 281, l’altra 300; l’ultima, infine, 352. All’epoca – qualcuno ancora ricorderà – le leggi venivano identificate con data, numero e titolo, non già con il nome del ministro di competenza, del parlamentare proponente o, peggio, con key-words buone più per la comunicazione mediatica che per la comprensione dei contenuti normativi.
Tre leggi, a distanza di pochi giorni. La Legge 16 maggio 1970 n. 281 recante “Provvedimenti finanziari per l’attuazione delle Regioni a statuto ordinario”. La Legge 20 maggio 1970 n. 300 recante ”Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. La terza è la Legge 25 maggio 1970 n. 352, recante “Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo”. Tre grandi leggi definite di attuazione costituzionale, perché la nostra del 1948 sarà pure la Costituzione più bella del mondo, ma quando si tratta di attuarla tutto diviene subito terribilmente complicato.
Tutti conoscono, per averla praticata frequentemente, la legge sul referendum: strumento di democrazia diretta – per sua natura molto più trasparente ed effettivo di quella sorta di webdemocrazia su piattaforma da alcuni oggi auspicata – che ha sostenuto, rafforzato e in alcuni casi anche animato grandi trasformazioni giuridiche e sociali. Molti conoscono la seconda legge, sia pure con il titolo breve di “Statuto dei lavoratori”. Pochi, forse, ricordano la prima, che però, a dispetto del titolo evocante generici provvedimenti finanziari, segna invece una pietra miliare della nostra storia politico-istituzionale. Infatti, disciplinando le entrate tributarie delle istituende regioni dettava però anche i criteri di delega al Governo per l’emanazione dei decreti delegati destinati a regolare, “simultaneamente per tutte le Regioni”, il passaggio delle funzioni ad esse attribuite dall’articolo 117 della Costituzione, nella formulazione allora vigente, e del relativo personale, dipendente dallo Stato. Per queste ragioni, la legge 281 del 1970 può ben essere assunta come punto di abbrivio del processo che ha portato alla formazione, sia pure ritardata, delle Regioni.
Certo, non è questo il momento più adatto per celebrare anniversari così importanti. La pandemia non consente orpelli retorici e neppure momenti cerimoniali. D’altronde, però, è anche vero che cinquanta anni non possono neppure passare sotto silenzio, soprattutto su temi, come il regionalismo da un lato e l’assetto delle tutele individuali e collettive nei luoghi di lavoro, dall’altro lato, che proprio le vicende di questo periodo hanno portato in evidenza, anche se spesso non nel migliore dei modi.
Non è il momento, no. E non è neppure luogo, questo, per una riflessione approfondita su tematiche difficili, complesse sul piano tecnico quanto su quello propriamente politico, segnate da mille cangianti sfumature, nel tempo e nello spazio. Temi, quindi, che respingono ogni tentativo di semplificazione e che impongono sempre di ricercare un opportuno contemperamento tra la coerenza rispetto ai principi affermati e la consapevolezza rispetto agli effetti attesi, che non sempre sono quelli che una valutazione a partire dai principi preannuncia o esclude.
Che ci sia necessità di ripensare il regionalismo, credo che oggi nessuno lo neghi. Anzi, dopo cinquant’anni è doveroso farlo. A giudizio di molti – ed anche mio, per esperienza diretta del governo regionale e non solo per evidenza scientifica – è necessario trovare oggi un nuovo equilibrio nelle relazioni tra i vari livelli istituzionali, e quindi nei rapporti tra governo centrale e autonomie regionali, da un lato, ma anche tra queste e le autonomie locali, dall’altro lato. In effetti, se la tendenza centralistica statale è fin troppo nota e sempre richiede di essere bilanciata in modo adeguato, è però altrettanto diffusa la tentazione onnivora di un neocentralismo regionale, per altro sollecitato, o comunque non temperato, dalla crisi fiscale e finanziaria delle realtà istituzionali subregionali, sempre più deboli e fragili. Per questo il progetto di un nuovo equilibrio multilivello appare tanto necessario quanto non facile da definire.
Ma su almeno tre cose si potrebbe, a mio avviso, iniziare a ragionare.
La prima: c’è da chiedersi se non sia giunto il momento di ridare forza al ruolo delle autorità centrali almeno nelle materie che definiscono alla radice la stessa consistenza dei diritti di cittadinanza e soprattutto in quei casi in cui i diritti proclamati risultano strettamente correlati, ed anzi immediatamente derivanti dai modelli organizzativi utilizzati. Si pensi, ad esempio, alla sanità, ma non solo. Personalmente ritengo che alcune materie debbano ritornare nella competenza dello Stato perché i diritti di cittadinanza non possono essere territorialmente differenziati. Prima ed oltre che di un regionalismo differenziato, avremmo bisogno di diritti egualmente effettivi nelle diverse regioni, che non possono certo pensarsi come microstati nello Stato.
La seconda: ci sono materie che, per loro caratteristiche, invocano un governo ed una gestione capace di assumere un orizzonte più ampio di quello strettamente regionale e in grado di coinvolgere anche aree territoriali più ampie. Certo, qualcuno potrà dire che si tratta di situazioni già ora non sottratte alle intese autonome e volontarie tra le singole regioni. Ma ovviamente una cosa è la scelta politica tra regioni interessate, spesso condizionata dall’affinità politica, altra e diversa è costruire modelli di governo e di gestione di specifiche materie a carattere interregionale. In fondo, a pensarci bene, la differenza tra il porto di Genova e quello di Gioia Tauro sta tutta nel retroporto: Liguria, Piemonte e Lombardia per quello; Rosarno e San Ferdinando, per questo.
La terza: è oggi necessario riprendere una discussione, troppo presto interrotta, in ordine alla geografia amministrativa degli enti intra-regionali come precondizione per dare senso e valore ad ogni discorso sul ruolo di programmazione e controllo da affidare alla Regione. La questione è semplice: la dimensione dei problemi attuali – ambiente, rifiuti, tutela del territorio, trasporti, mobilità e così via – non può essere affrontata da singoli comuni spesso con poche anime e sempre con poche risorse, umane strumentali e finanziarie. Per questo, credo sia necessario costruire, rafforzare ed estendere anche sul piano amministrativo una logica di territorio, comprensorio, distretto, bacino, ambito (la fantasia nominalistica nel nostro paese è quasi un’arte). E ciò potrebbe darsi favorendo la creazioni di reti organizzative forti tra gli enti prossimi e rafforzando dimensioni territoriali omogenee, capaci di assicurare – in una logica di sussidiarietà – una risposta adeguata ai bisogni ed i diritti dei cittadini. Personalmente, e l’ho ripetuto più volte, ritengo che sia necessario riformare le amministrazioni locali per tutelare le comunità locali, sempre più in affanno perché piccoli e piccolissimi comuni non riescono a garantire servizi adeguati, la qual cosa, in uno con la mancanza di lavoro, non può che provocare la desertificazione di ampie aree del territorio, con tutte le conseguenze note.
Per il lavoro e lo Statuto dei lavoratori il discorso è ancora più difficile. A distanza di cinquant’anni, il substrato organizzativo e tecnologico presupposto dallo Statuto e le stesse modalità di erogazione della prestazione lavorativa sono radicalmente cambiati. Intelligenza artificiale, digitalizzazione dei prodotti e dei processi produttivi, internet delle cose, tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni e così via, mettono in discussione le tradizionali regole del lavoro. Vero pure è che le regole costruite per tutelare i diritti individuali e collettivi di chi lavora non sono mai immobili, non lo sono mai state fin dall’origine; subiscono, anzi, continui cambiamenti perché continuamente cambia il mercato, la configurazione dell’impresa, l’organizzazione del lavoro, la tecnica e la tecnologia del lavoro. E’ semmai la velocità del cambiamento che sembra subire una accelerazione singolare e rischia di rendere ora i prodotti normativi già superati quando pronti nelle sedi formali.
Nonostante ciò, lo Statuto rimane lì, a segnare – e non solo simbolicamente – l’ingresso della Costituzione in fabbrica per assicurare i diritti di cittadinanza di chi lavora e della sua rappresentanza sindacale. A ben vedere, proprio questo è il costante snodo fondamentale delle regole chiamate a governare quella strana relazione, contrattuale ma asimmetrica, che fonda il potere organizzativo del datore di lavoro e vincola il prestatore di lavoro: come assicurare, cioè, la garanzia dei diritti della persona che lavora in un contesto organizzato per le esigenze del mercato e che perciò di questo ha i tempi e ne subisce le trasformazioni. E come farlo senza determinare effetti perversi, non attesi e soprattutto non voluti quando impattano in negativo sull’occupazione. Questa è dunque la sfida perdurante: come dare cioè veste nuova a valori perduranti perché trovano fondamento nella Costituzione. Proprio per questo, operare sulle norme giuridiche che regolano il lavoro non è facile, soprattutto quando si vuole evitare un approccio meramente ideologico e ricercare invece un punto di equilibrio tra interessi e bisogni in conflitto. Per questo sarebbe opportuno guardare al lavoro come una sorta di ecosistema complesso da maneggiare con attenzione, per non ritrovarsi poi con regole del lavoro sempre più caotiche, alluvionali, emergenziali, settoriali, spesso occasionali.
Fu un grande Maggio quello di cinquant’anni fa, denso di ideali (poi troppo spesso traditi) e di aspettative (forse troppo spesso deluse). Ma non ha senso guardarlo ora con rimpianto e nostalgia. In fondo, ad osservarlo bene, sta invece lì a dimostrare che le cose possono cambiare. Ma per cambiare davvero bisogno avere una visione, un sogno ed impegnarsi a realizzarlo. E il sogno di quel Maggio era che la Costituzione non è un foglio di carta. A prenderla sul serio, è l’anima della nostra democrazia. Ancora oggi.
Antonio Viscomi è un deputato del Partito Democratico