E se l’Italia profonda fosse la “terra promessa” della società nuova?

“Non esiste città ricca senza una campagna florida” – Fernand Braudel, storico

Se non sapessi quello che sta succedendo, la tragedia collettiva che stiamo affrontando, probabilmente non me ne accorgerei. Qui nulla sembra cambiato, in un paesino di 300 persone in Val d’Orcia, alle pendici del monte Amiata, in provincia di Siena. Nella via dove abito con la mia compagna, una via del centro storico stretta, dove le macchine non entrano, per 10 mesi l’anno siamo in quattro, noi compresi. Qui il distanziamento sociale lo abbiamo sempre, inconsapevolmente, applicato. Gli assembramenti, salvo per le feste consacrate e quelle due, tre occasioni l’anno, non sappiamo cosa siano. C’è un’Italia profonda, che chiamiamo di volta in volta aree interne, aree montane, spesso aree di crisi. Qui per ora il covid-19 ha colpito poco, nel caso specifico fortunatamente per niente. Perché siamo pochi, perché molti sono anziani quindi si spostano poco e niente.

Sono tante le realtà come queste. Più della metà dei comuni italiani, il 60 per cento della superfice nazionale, quasi un terzo della popolazione. Aree che hanno sofferto e soffrono, distanti da luoghi di lavoro, da centri sanitari, soggette a spopolamento e dispersione scolastica, prive di servizi pubblici e di investimenti privati. (gli uffici postali chiudono, se va bene c’è un negozio di generi alimentari, farmacia qualche giorno a settimana e non ovunque). Sarebbe ingeneroso dire che nulla è stato fatto. Ma alcune iniziative, anche economicamente valide, si sono rivelate finanziamenti a pioggia, utili a tamponare ma privi di sostenibilità futura. Finiti i soldi, la rabbia è esplosa. A pagarla, spesso, è stata proprio la sinistra. Piccole, ma significative, roccaforti rosse cadute inesorabilmente. Hanno fatto meno rumore, ma i piccoli numeri sommati fanno numeri grandi. Le periferie esistono anche fuori dalle città, e soffrono.

Qualcosa questa crisi però ci ha insegnato, anche in questi territori. Che alcuni lavori, con le dovute strutture informatiche e una connessione stabile e mediamente veloce, possono essere fatti ovunque. Che con pochi ma essenziali servizi (infrastrutture decenti, un trasporto pubblico locale appena funzionale, medicina di prossimità strutturata, istruzione superiore raggiungibile in tempi e modi decenti) si potrebbe fruire di un patrimonio immateriale incalcolabile, fatto di una socialità che sopravvive, di traffico inesistente, di sicurezza, di beni ambientali a portata di mano, di ritmi sostenibili, di vivibilità, di costo della vita basso.

In posti come questi un turismo non di massa, che non c’è mai stato, potrebbe ripartire subito. Distanziamento, zero o quasi contagi, spazi aperti e di pregio fin quanti se ne vuole. Ma forse potrebbe essere il momento storico e sociale per combattere il male che ha afflitto questi luoghi e ha sottratto lentamente servizi e opportunità: lo spopolamento.

Il futuro di molti potrebbe essere davvero nei piccoli borghi, nelle aree interne, nei paesini di montagna.

Potendo farlo, siamo certi che non ci sarebbero persone, famiglie, professionisti che sarebbero attratti da una vita diversa? Abbiamo appreso che lo smartworking (non il telelavoro, è sempre bene non confondere i termini)  non è una chimera e non preclude sviluppo e sostenibilità di molte aziende.

Puoi farlo ovunque se hai gli strumenti adatti. La differenza sostanziale potrebbe essere data nella scelta tra una casa che paghi poco più di 1000 euro al metro quadro, con una finestra che non affaccia su altre finestre ma su un panorama disegnato dall’uomo ma celebrato dall’Unesco come patrimonio dell’ umanità, con una porta non dico con le chiavi lasciate nella toppa, ma senza bisogno di blindature e grate, poco lontano da casa un’auto che non fatichi mai a parcheggiare (gratis) e prendi una volta settimana, persone con le quali parlare se ti va, silenzio se non ti va, boschi, prati, colline.

A fianco di lodevoli iniziative di sindaci e amministratori regionali, andrebbe affiancata una seria campagna nazionale di rilancio e ripopolamento dei piccoli borghi, fornendo non interventi a pioggia ma interventi strutturali in servizi e banda larga. Incentivando il trasferimento, per chi vuole, rendendo attrattivi luoghi ancora autentici, che tali devono rimanere. Noi siamo il Partito Democratico. Dobbiamo farci portatori di un modello di sviluppo diverso, che guardi al mutamento economico inevitabile e crei una prospettiva di sviluppo e rinascita per chi vive questi luoghi e dovrebbe avere il diritto di continuare a farlo, di chi ci nasce e dovrebbe avere il diritto – se vuole – di rimanerci, chi potrebbe tornarci dopo essere andato via, chi potrebbe volercisi stabilire.


Andrea Valenti è segretario provinciale del Partito Democratico di Siena