“Lavorare meno, lavorare tutti”, così si urlava nelle piazze negli anni ’70. Non era una moda passeggera o una pretesa da hippie, piuttosto un’esigenza e un’opportunità mai completamente capita. Sono passati tanti anni e quel modello lavorativo, mai applicato, è tornato prepotentemente in voga, complice la pandemia e la crisi occupazionale che ne è derivata. Soltanto poche settimane fa, ha lasciato di stucco il titolo inequivocabile del quotidiano ‘Avvenire’, che si faceva promotore della ‘settimana corta’ di lavoro, vale a dire un’ideale settimana lavorativa composta da quattro giorni, che quindi si chiuderebbe il giovedì pomeriggio invece che il venerdì.
Ma il quotidiano cattolico non è certo l’unico a voler rimettere sul piatto l’argomento: dal mondo dem agli studenti, passando per i movimenti femministi, si sente, pressante, l’esigenza di riappropriarsi del proprio tempo libero e di dare una risposta concreta al problema della disoccupazione post Covid.
Abbiamo detto, e ridetto, che il mondo si trova oggi ad un giro di boa. Per quanto sia auspicabile il cambiamento, ci rendiamo conto che, anche solo immaginare una società diversa, è molto complicato. Perché ci impone di pensare in modo differente, di rompere gli schemi e di abbandonare la ‘confort zone’ di ciò che già conosciamo. Ma se non ora quando è il momento di cambiare?
La proposta della premier neozelandese, Jacinda Ardern, la politica più “pop” del momento, di ridurre la settimana lavorativa va letta proprio nell’ottica di questo cambiamento radicale: ripensare l’intero mondo del lavoro, a partire dalla possibilità di istituzionalizzare lo smart working, è una necessità concreta per sconfiggere la disoccupazione e la precarietà. E per vivere meglio.
Non è un concetto nuovo. Già John Maynard Keynes aveva molto chiaro il fatto che l’inarrestabile progresso tecnologico avrebbe comportato una disoccupazione crescente in società capitalistiche ed avrebbe richiesto provvedimenti strutturali. L’unica terapia efficacia in grado di contrastare la crescente disoccupazione, per l’economista britannico, era la netta riduzione dell’orario di lavoro.
Nel tempo i lavoratori hanno lottato duramente per arrivare alle 8 ore attuali di lavoro ma non si è riusciti, se non in casi sporadici e isolati (come in Germania per alcuni lavoratori dell’industria automobilistica) ad arrivare alla tanto agognata ‘settimana corta’. In Danimarca oggi si lavora in media 7 ore e mezza (e c’è un progetto pilota per arrivare a 33- 30 ore settimanali); situazione analoga in Svezia e Finlandia. In Italia si lavora tanto (rispetto alla Germania per esempio lavoriamo 180 ore contro 160 al mese) ma con una produttività più bassa.
Dopo quasi un secolo, quindi, l’orario di lavoro è rimasto pressoché invariato nei paesi industrializzati, malgrado gli enormi aumenti di produttività che, come aveva previsto Keynes, hanno ridotto drasticamente l’energia umana impiegata per unità di prodotto. Per questo la disoccupazione è cresciuta moltissimo, così come le disuguaglianze, la competitività e la mancanza di tempo libero.
Ma chi lo ha detto che lavorare tante ore dia un risultato migliore per l’economia complessiva di un paese? Anche se è sempre stato così, non vuol dire che non si possa cambiare. Il momento è davvero propizio per stravolgere le regole, non solo a livello nazionale ma anche europeo. E si vedrà che i benefici sono parecchi.
La premier neozelandese ha, per esempio, messo in luce come, con una riduzione dell’orario di lavoro, le persone possono essere più libere di viaggiare contribuendo al rilancio del turismo messo in crisi dalla pandemia e in generale dell’economia locale. Ma non solo. Nei paesi dove ci sono state già sperimentazioni, il giudizio dei lavoratori è sempre positivo: si lavora meglio, più concentrati, c’è più tempo da dedicare alla famiglia, ad un parente malato, ai propri interessi culturali.
Diversi studi hanno poi evidenziato che c’è una stretta correlazione fra il lavorare molte ore e adottare uno stile di vita e di consumo estremamente impattante dal punto di vista energetico. Cambiare questo paradigma eviterebbe di passare tanto tempo in auto per gli spostamenti (meno smog, meno inquinamento, meno inquinamento acustico) e limiterebbe anche l’acquisto di pasti pronti o preconfezionati rispetto al cucinare prodotti freschi e di stagione. Alla Microsoft Japan, dove hanno sperimentato la ‘settimana corta’, hanno notato un abbassamento del 25% del consumo di elettricità negli uffici e una riduzione addirittura del 59% del numero dei fogli stampati dai dipendenti. Lavorare di meno avrebbe insomma anche un effetto positivo per il pianeta. E in generale sulla qualità della nostra vita, che migliora sensibilmente.
Si avrà la forza e la volontà di produrre un profondo mutamento culturale che potrebbe dare il via a un nuovo modello di lavoro? La strada per riacquistare un tempo ‘liberato’ dal lavoro vale la pena di essere intrapresa per lavorare meno, meglio e tutti.