Ri-pensare la crisi per immaginare il futuro

Come ri-pensare le categorie fondamentali che sino ad ora ci hanno permesso di dire il presente per immaginare, in primis, un futuro possibile? Domanda che sorge di fronte alla crisi sanitaria, economica, politica e culturale di questi nostri giorni convulsi e che mi ha indotto a riprendere in mano alcuni “classici” del pensiero economico e politico contemporaneo.

Ecco un passo su cui mi pare vale la pena riflettere: «“Lavoro per tutti”, “sicurezza sociale” e “libertà dal bisogno” non sono cose ottenibili se non come sottoprodotti di un sistema che scatena le libere energie degli individui. Quando la “società”, il “bene della collettività” e il “maggior bene per il maggior numero di persone” diventano il criterio supremo dell’azione dello Stato, nessun individuo può più progettare la propria esistenza. Difatti, se il “bene della società” o il “benessere generale” sono gli scopi supremi, i “pianificatori” stabili devono arrogarsi il diritto di entrare in ogni settore del sistema economico. E se i diritti degli individui intralciano la via, i diritti degli individui devono venir cancellati». Così scriveva John Chamberlain nel 1944, nella sua Premessa a La via della schiavitù di Friedrich A. Von Hayek (tr. it. di D. Antiseri e R. De Mucci, Rubbettino, Catanzaro 2011). Ma perché partire da un testo simile (ristampato nel ‘76 e poi ancora nel ‘95) per pensare l’emergenza che si sta consumando in questo tempo? La risposta sembrerà banale: ne La via della schiavitù si condensano perfettamente tutte le cause strutturali che ci hanno condotto al disastro attuale. Benché Hayek non fu (almeno negli anni ’40) un «devoto del laissez faire» del libero mercato, è certo che l’ideologia liberale d’occidente, anche con quel libro, già si preparava a un preciso contrattacco culturale, a fronte del crescente “interventismo” dello stato in campo economico.

Quel che è certo è che alcune righe che Chamberlain scrisse nel ’44 possono suonare, oggi, quantomeno ironiche. Parafrasando Hayek, il giornalista americano dichiarava infatti che sarebbe stato molto più rischioso per gli uomini «cercare di indovinare quello che farà il governo» – laddove vi sia uno Stato “pianificatore” – piuttosto che «cercare di indovinare dove andava il mercato». Perché? Semplice: «I fattori del mercato obbediscono a leggi oggettive» – scriveva Chamberlain – giacché «i governi sono soggetti a una gran quantità di capricci». È palese come tali “profezie” abbiano condotto a non pochi problemi, a esser buoni. Come è altrettanto evidente quanto il “mercato”, specie quello finanziario, al pari di un dio dispettoso possa oggi mettere a tacere tutti i flebili “capricci” di qualsiasi governo di sorta. Altroché salvaguardia della “democrazia”, verrebbe da pensare. 

Del resto Hayek, nella prefazione del ’95 a La via della schiavitù, aveva dichiarato che occorreva far chiarezza sul senso della parola liberal: «Io impiego il termine “liberal” nella sua accezione originaria ottocentesca, ancora di uso corrente in Inghilterra». Dunque, qui si trattava di far valere definitivamente non tanto quella tradizione liberale e universalistica di stampo, per così dire, giacobino, ma bensì l’autentico liberalismo conservatore – quello rimasto sospeso tra il 1814 e il 1850, per intenderci. E pur affermando che un’organizzazione politica autenticamente liberale non potava farsi paladina «dei privilegi costituiti», d’altro canto Hayek disse chiaramente che «il vero liberale deve talvolta far causa comune con il conservatore». D’altronde nei paesi occidentali il così detto welfare state, per Hayek, aveva «ampiamente rimpiazzato il socialismo», precisamente ciò che soffocava, per sua natura, la libertà. Come se quest’ultima – intesa nella sua declinazione esclusivamente individuale – potesse essere realmente garantita dai capricci del mercato o da gruppi di potere rinchiusi nei propri particolari interessi di classe, appunto.

In Italia, da parte nostra, pensavamo che il 2008 fosse stato l’apice del disastro. Oggi abbiamo scoperto che non è stato così. Alla luce di tutto ciò, allora, non sembrano così peregrine e spaventevoli le proposte per la ricostruzione del Paese lanciate dall’ex ministro Andrea Orlando: da un lato, un settore pubblico che torni a promuovere la conversione ecologica dell’economia, che sappia indurre l’imprenditoria a investire su settori strategici a favore della società e, dall’altro, imporre delle regole precise per le grandi compagnie private che beneficiano di risorse altrettanto pubbliche. Magari, almeno dal secondo dopo guerra.

Ad ogni modo, questo “italianissimo” liberalismo conservatore continua a produrre ciò che Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere, già nel 1930, definì «sovversivismo dall’alto» (si veda il terzo quaderno raccolto nel I volume dell’Edizione critica dell’Istituto Gramsci, Einaudi, Torino 2014). Il centro-destra, non a caso, in questi mesi ce ne ha mostrato la solita forma farsesca. Bastino, quindi, le parole di Gramsci: «Il concetto prettamente italiano di “sovversivismo” può essere spiegato così: una posizione negativa e non positiva di classe: il “popolo” sente che ha dei nemici e li individua solo empiricamente nei così detti signori». Resta il fatto che questo «“sovversivismo” popolare è correlativo al “sovversivismo” dall’alto, cioè al non essere mai esistito un “dominio della legge”, ma solo una politica di arbitrii e di cricca personale o di gruppo».

È certo che questa crisi, almeno al campo progressista e di sinistra del Paese, imporrà un profondo lavoro socio-culturale, oltre che politico ed economico. Pena il lasciar prevalere tendenze ancora peggiori di quelle che ci hanno condotto sin qui: le stesse che ci condurrebbero, da un lato, a maggiori speculazioni economiche, politiche e finanziare e dall’altro alla riaffermazione della violenza come unico modo d’esistenza e di legittimazione sociale e politica. 


Edoardo Raimondi è giornalista pubblicista, dottorando in Filosofia