Un’accelerazione senza precedenti al processo di integrazione europea. Ora tocca a noi

È vero che la forza si manifesta nei periodi di maggiore difficoltà, è vero che dalle crisi, per quanto drammatiche possano essere, nascono anche le opportunità. È così per l’Europa che stiamo conoscendo in queste settimane e mesi di emergenza sanitaria. Ieri è stata aggiunta al calendario un’altra data, in un tempo assai ristretto, da segnare sul calendario. La proposta di Recovery Fund avanzata dalla Commissione è solida, dettagliata, ingente.

Sarà oggetto di ulteriori negoziati nelle prossime settimane tra i 27 stati membri, ma è sicuramente un tassello importante per la definitiva individuazione degli strumenti messi a disposizione dall’Unione per affrontare tempestivamente e adeguatamente la crisi, sanitaria quanto economica e produttiva. Ma non è solo questo. Si tratta, a ben vedere, dell’accelerazione al processo di integrazione più consistente della sua travagliata ed eccezionale storia, almeno dai tempi della caduta del muro di Berlino.

Innanzitutto per la rapidità delle scelte compiute. In poche settimane si sono susseguite decisioni la cui portata, sia in termini quantitativi che di scelta degli strumenti, fanno impallidire i trent’anni che abbiamo alle spalle. L’Europa dell’austerità, solo fino a tre mesi fa incubo costante – a volte solo mediaticamente reale – dei cittadini di mezza Europa, sembra un ricordo sbiadito da decenni di storia. Così come sembrano ricordi sbiaditi alcune prime uscite un po’ improvvide delle leadership europee nei primi giorni dell’emergenza.

Da allora tutto è cambiato: la temporanea modifica delle regole sul Patto di stabilità e sugli aiuti di Stato, pietre angolari dell’architettura finanziaria e fiscale dell’Europa pre-pandemia; l’intervento di oltre 1000 mld sui mercati dei titoli nazionali della BCE, che avevamo già conosciuto sotto la guida di Mario Draghi e che è stato confermato con forza, liberandolo anche dai tetti di acquisto per ogni singolo paese; strumenti a sostegno dei lavoratori come lo Sure, i fondi messi a disposizione dalla BEI per le imprese, per la spesa sanitaria senza condizionalità come il nuovo MES, per un valore complessivo di oltre 500 mld; ora la proposta del Recovery Fund della Commissione, 750 mld di euro complessivi, di cui buona parte, 500 mld, in sussidi, la cui composizione avverrà attraverso la vendita di titoli legati al Bilancio pluriennale dell’UE. Solo a pensarlo, pochi mesi fa, ci avrebbero presi per pazzi.

Anche durante lo stesso corso della pandemia molti dubitavano della praticabilità di questa risposta. A giusta ragione, ieri, è stato evocato con il termine di Next Generation, a sottolinearne la portata generazionale delle misure proposte e a immaginare la funzione che esse svolgeranno per definire la nuova Europa. Whatever it takes, ad ogni costo, si disse ad inizio pandemia.

Siamo andati oltre, credo. Siamo nel campo delle scelte che non solo risponderanno alla crisi, ma che disegneranno il futuro dell’integrazione. Ora resta da concludere il negoziato, non sarà semplice e non vanno prodotte lacerazioni. Soprattutto preoccupano i tempi, persistono problemi tecnici e spinte politiche tese a procrastinarne eccessivamente gli effetti, scelta che può comprometterne l’efficacia. Ma la strada sembra segnata. E resta, quando queste risorse comuni saranno rese nelle disponibilità di ciascun paese, utilizzarle con responsabilità, con lungimiranza, con equità.

Questo è l’aspetto, che fin da subito, bisogna assillarci, anche prima che esse siano definitivamente assegnate. La crisi sta già pesando sulle spalle dei più deboli. Piccole imprese, lavoratori precari e di aziende che già prima della pandemia erano in crisi, chi era già escluso o marginalizzato dal circuito economico o dal mercato del lavoro, come le donne. A breve quella forza necessaria nei periodi di difficoltà, quelle opportunità da cogliere nei periodi di crisi, toccherà a noi come paese, insieme all’Europa, dispiegarle. Anche in questo caso, bisognerà fare qualcosa in più che whatever it takes. Bisognerà ridisegnare un paese dalle sue basi economiche e amministrative, dalla riparazione dei suoi divari territoriali e di genere, dalla ricomposizione delle sue fratture sociali.

Ecco, forse possiamo mutuare un vecchio motto risorgimentale: fatta l’Europa, è ora di rifare l’Italia.


Pina Picierno è parlamentare europea del Partito Democratico