Da tempo è in atto una crisi che sembra effimera, ma che avanza e colpisce qui e ora, ed è definita dalle Nazioni Unite come “la più grande minaccia per l’umanità”. Non è il frutto delle conseguenze dell’epidemia, ma si tratta di una crisi che, proprio come quella del coronavirus, non conosce barriere, confini, e tocca il 98% della superficie terrestre. Si tratta della crisi climatica e ambientale.
L’OMS, Organizzazione mondiale della Sanità, di cui tanto sentiamo parlare, afferma che tra il 2030 e il 2050 saranno 250.000 le morti all’anno nel mondo a causa del cambiamento climatico. L’emergenza coronavirus, l’inquinamento e le emissioni climalteranti sono tre questioni intrinseche.
Quando su internet hanno cominciato a circolare le immagini satellitari della Cina e della Pianura Padana (una delle aree più inquinate d’Europa) che mostrano l’impressionante riduzione delle emissioni provocata dagli effetti del nuovo coronavirus, molti hanno pensato che questa terribile crisi avrebbe potuto avere almeno un effetto positivo: rallentare notevolmente il cambiamento climatico. In effetti a febbraio le misure adottate dalla Cina hanno provocato una riduzione del 25% delle emissioni di anidride carbonica rispetto allo stesso periodo del 2019.
Questo, secondo lo studio di G-Feed ripreso da Internazionale, “ha evitato almeno cinquantamila morti per inquinamento atmosferico, cioè più delle vittime del Covid-19 nello stesso periodo”. È possibile che per vedere una riduzione delle emissioni si dovesse aspettare un’emergenza di questa portata?
In verità, bisogna sottolineare il fatto che tutte le crisi economiche sono state accompagnate dalla riduzione delle emissioni. Anzi, le crisi economiche (come quelle del ’73, ’79, ’97, 2008) sono state gli unici momenti della storia recente in cui la crescita costante della curva delle emissioni si è interrotta. Ogni volta però, la ripresa ha portato con sé un vertiginoso nuovo aumento della curva. Se, come sembra, la Cina dovesse confermare la costruzione di centrali a carbone nel tentativo di far ripartire l’economia, a lungo termine gli effetti negativi potrebbero cancellare qualunque miglioramento.
Inoltre, in queste settimane si verificano continui episodi di cui poco si parla: migliaia di mascherine monouso che raggiungono e infestano le spiagge, aerei che sono costretti a volare e inquinare anche se vuoti a causa di un determinato regolamento europeo. Sempre più studi concordano sulla relazione tra diffusione del virus e inquinamento dell’aria, in attesa di essere convalidati dalla comunità scientifica internazionale. In Italia sono 80.000 i decessi all’anno dovuti all’inquinamento dell’aria. Un piemontese, in tempi normali (normali per così dire) ha un’aspettativa di vita inferiore di nove mesi a causa dell’inquinamento rispetto alla media in Italia. Per un abitante della città di Torino, che è dove abito, l’aspettativa di vita è inferiore di due anni.
Questa volta è l’Università di Harvard a dirlo: Il livello di polveri sottili potrebbe aumentare la letalità del Covid-19. Secondo lo studio diretto dall’italiana Francesca Dominici, sul lungo periodo basta l’aumento di un solo microgrammo per metro cubo di PM2.5 per accrescere del 15% il tasso di mortalità del virus. Ancora una volta l’industrializzazione, la produzione smisurata e lo sconvolgimento degli equilibri naturali sembrano non essere compatibili con gli equilibri fisici del nostro Pianeta.
Abbiamo messo la Terra alle strette e ne stiamo pagando le conseguenze sulla nostra stessa pelle. Un ulteriore punto di contatto consiste nel fatto che con il riscaldamento globale il rischio si amplifica: la fusione dei ghiacciai, in particolare del permafrost, potrebbe rilasciare molti batteri e virus sconosciuti e il caldo offrirebbe le condizioni ideali per farli proliferare.
Non sappiamo, o almeno non al momento, se possiamo considerare questo virus come una conseguenza dei cambiamenti climatici. Quello che possiamo dire è che esso è il risultato di quanto l’essere umano negli ultimi decenni ha abusato e distrutto la natura. Negli ultimi quindici anni un gruppo di scienziati ha cercato di capire se ci troviamo in una nuova epoca storica, ed è giunto ad una conclusione: l’Olocene è finito, e ci troviamo nell’Antropocene, l’epoca all’insegna della crescita smisurata in cui l’essere umano condiziona i cicli vitali sulla Terra.
C’è però un aspetto davvero positivo.
Possiamo fare tesoro di questo tempo di cattività domestica per pensare all’andamento della nostra società e al nostro comportamento all’interno di essa, e ancora per incanalare quella grande voglia di cambiare che negli ultimi tempi è maturata.
In questo panorama, l’Unione Europea gioca un ruolo fondamentale. I primi milioni stanziati dal Green New Deal, seppur insufficienti, non devono essere accantonati con il pretesto della crisi economica, come chiedono alcuni Stati Membri, ma essere messi al centro della politica di investimenti pubblici straordinari, approfittando anche del crollo del prezzo del petrolio per ridurre i sussidi pubblici agli idrocarburi.
Nel frattempo, i movimenti per il clima portano coraggiosamente avanti la loro battaglia e stanno promuovendo una raccolta firme che, se raggiungerà un milione di sostenitori nei 27 Paesi Membri, obbligherà le massime autorità europee a prendere in considerazione le loro 4 proposte. Che questa sia l’occasione per l’inizio di un nuovo Umanesimo, dove anche gli invisibili sono più visibili.
Le cause del cambiamento climatico sono qui e ora e ci viene data una possibilità di cambiare, adesso. Riusciremo a fare tesoro di questo tempo di momentanea paralisi, o una volta superato, l’impostazione, economica e non solo, del nostro sistema rimarrà quella di crescita infinita in un mondo finito?
Giorgio Brizio, attivista Fridays for Future