Serve più Stato per avere più mercato

Alcune settimane fa Andrea Orlando ha posto il tema di ridefinire il ruolo dello Stato nella economia post Covid. Anche altri esponenti del Pd lo hanno fatto. Non darei nessuna importanza alle scontare  accuse di statalismo ricevute. Non è solo legittimo ma necessario affrontare il tema. Giusto governare l’emergenza ma bisognerà cominciare a porsi anche il tema di una strategia che guardi alla prospettiva ed individui risposte più profonde e innovative.

E dovremo farlo archiviando prima possibile le categorie di liberisti e statalisti.

Era una contrapposizione che già globalizzazione e rivoluzione digitale rendevano obsoleta. La realtà stravolta dal Covid e dalle sue conseguenze la renderà pressoché incomprensibile. Nei momenti eccezionali che cambiano in profondità le cose o minacciano di farlo, serve la capacità di andare oltre le classificazioni. Nel 2008 in piena crisi Lehman, Bush ed Obama non ebbero dubbi e con i poteri straordinari concessi dal congresso, convennero sulla necessità di nazionalizzare, una settimana prima del fallimento, Fannie Mae e Freddie Mac, colossi del credito immobiliare che avevano iniettato 5,4 mila miliardi di titoli tossici nel sistema. Statalisti insospettabili, direi.

Robert Reich, economista di fama mondiale e ministro del lavoro con Clinton nel suo bellissimo “Come salvare il capitalismo”, siamo nel 2015, distrugge la romantica convinzione che il capitalismo come oggi lo conosciamo sia un sistema meritocratico in cui chiunque, se lavora davvero sodo, può farcela; e che il mercato sia così com’è perché la sua razionalità intrinseca l’ha plasmato nel migliore dei modi possibili. E’ la politica che ha responsabilità e potere di determinarne le caratteristiche e le condizioni.

Soprattutto Reich fa a pezzi l’idea liberista, che escludere l’intervento dello Stato in economia, sia una scelta neutra, che tutela alla pari la libertà ed i diritti di tutti. Astenersi dall’intervenire è, così come intervenire, una scelta che tutela alcuni interessi e non altri e che ha concrete, determinabili conseguenze economiche e sociali. Il tema non è quindi se lo Stato debba intervenire ma per quali interessi e quali obiettivi debba farlo.

Oggi tutti sottolineiamo il valore di internet e del digitale. Non posso non ricordare che senza le scelte coraggiose del governo Renzi, la strategia banda ultralarga e un deciso intervento pubblico, scelte poi proseguite da Gentiloni, se avessimo lasciato fare al mercato, saremmo ancora a scommettere sul doppino in rame. Con vantaggio evidente dell’incumbent ma con svantaggi evidenti di imprese e cittadini. E anche allora non mancarono sulle colonne dei più importanti organi di stampa, le accuse di “dirigismo economico”.

Aver privatizzato Telecom e la rete, unici fra i grandi paesi europei, ha fatto pagare e fa pagare al Paese un prezzo altissimo. Ma ad alcuni ha portato benefici cospicui. Poche settimane fa, Mario Draghi sul Financial Times in un articolo di straordinaria forza ha tracciato alcune linee, disegnando un ruolo del pubblico molto interventista. Le banche, scrive Draghi, devono diventare “vettori degli interventi pubblici”, quindi “il capitale necessario per portare a termine il loro compito sarà fornito dal governo, sotto forma di garanzie di Stato su prestiti e scoperti aggiuntivi”.

E a quali imprese debbano andare questi aiuti, Draghi lo specifica con la stessa chiarezza. “Le banche, scrive infatti, devono prestare rapidamente a costo zero alle aziende favorevoli a salvaguardare i posti di lavoro”. La ricetta di Draghi è interessante proprio perché dichiara apertamente l’obiettivo dell’intervento, cioè la tutela con le imprese dei posti di lavoro. La questione semmai riguarda il credito: con gli accordi di Basilea e con la privatizzazione, le banche sono ormai da tempo aziende private che rispondono agli interessi degli azionisti, spesso ed in modo crescente  non italiani, e agiscono secondo una pura logica di profitto finanziario.

Come è logico che sia per ogni impresa privata. Farne dei “vettori di interventi pubblici”, orientati all’economia reale più che alla finanza, lo sperimentiamo in questi giorni, non è impresa semplice, nonostante la forte spinta di inedite iniziative di Bce e del governo.

Con qualche rafforzamento del decreto liquidità possiamo forse illuderci di aver tolto qualche sassolino dalla corsa ad ostacoli delle imprese verso il credito. Ma da qui a trasformare le banche in una parte consapevole e collaborativa del sistema paese ce ne corre. Ne abbiamo avuto la riprova già nella crisi finanziaria del 2008. E temo che per molti versi stiamo assistendo allo stesso film.

Non credo ci siano ancora le condizioni per porre il tema di una revisione delle regole di Basilea o almeno di un ruolo molto più incisivo di Bce e banca d’Italia a garanzia di una concezione del credito come la declina Draghi, ma sono convinto che si affermerà sempre di più la necessità di disincentivare la finanza per la finanza ed incentivare la finanza per l’economia reale. Il credito rappresenta una precondizione per il mercato e non è sostenibile che sia condizionato da interessi, per quanto legittimi, di azionisti privati rispetto all’interesse generale del mercato stesso e del sistema economico di un paese.

Anche in questo caso, come nel caso della rete, in altri paesi europei il tema si pone diversamente perché non tutte le banche sono pubbliche o perché la logica di sistema nazionale salda con grande efficacia pubblico e privato. Quando Dario Franceschini giustamente propone alla sua omologa francese di lavorare insieme ad una Netflix europea è un incorreggibile statalista o lancia una idea che apre uno spazio di mercato ai produttori europei evitando che siano omologati e stritolati nell’oligopolio di piattaforme americane e cinesi?

Si è evocata una nuova Iri. Vi ha fatto cenno pochi giorni fa anche  il ministro Patuanelli. A me sembra una idea di cui è utile discutere. Non ho la certezza che sia lo strumento giusto, non ignoro le controindicazioni ma, pur tenendo conto che siamo in un mercato unico europeo e che gli investimenti stranieri non sono certo di per se’ un dato negativo, sono convinto che servano strategie di consolidamento e di crescita del sistema produttivo italiano.

O dobbiamo fingere di non vedere che potenti realtà finanziarie straniere stanno preparando l’assalto a pezzi pregiati del sistema produttivo italiano? Magari con il sostegno di banche o di finanza pubblica che alcuni paesi mettono a disposizione.

La forza ed il limite del sistema Italia sta nella creatività e nell’ingegno di aziende magari piccole e sottocapitalizzate, zavorrate dalla burocrazia e dal credito, ma con un talento ineguagliabile. La vertiginosa difficoltà che accompagnerà i prossimi mesi rischia di esporre le filiere più appetibili, dalla moda al turismo, all’assalto dei grandi fondi finanziari internazionali. E a chi obiettasse che questo è il mercato, va risposto che questo è soltanto l’accentuarsi di una tendenza all’oligopolio che la globalizzazione ha innescato e che rischia di fagocitare l’idea stessa di libero mercato.

La questione peraltro non si ferma alle aziende ma investe in pieno il tema delle infrastrutture. A cominciare da quelle strategiche. Non si può ragionevolmente pensare che l’unica risposta sia il golden power.

In un suggestivo articolo di pochi giorni fa Marcello Messori, economista apprezzato ai più alti livelli istituzionali e non solo in Italia, e Giuseppe Di Michele, brillante, giovane  economista lanciano l’ipotesi che la commissione europea,  con ll supporto della Bei, diventi la nuova proprietà delle infrastrutture strategiche degli stati membri, costituendo di fatto il nocciolo duro di una identità economica europea. In questa chiave, la discussione sul 5G e sulla rete da realizzare potrebbe diventare la grande occasione per affidare alla Bei, con l’accordo degli Stati e magari la partecipazione degli operatori europei, il compito di realizzare la rete in tutta Europa, di assicurare gli investimenti necessari e garantire integrità e neutralità dell’infrastruttura.

 La prima, vera, grande opera pubblica europea. Una sorta di moderna società del carbone e dell’acciaio.

Ecco, il tema di un nuovo ruolo del pubblico sta già nel cuore di una discussione reale. E non ha meno valore per il fatto che oggi dire “pubblico” evoca più la dimensione europea che quella nazionale. Lo slogan meno stato più mercato non è mai stato così privo di senso come ora. Non c’è più, se mai c’è stata, una contrapposizione fra liberisti e statalisti, semmai la vera distinzione è fra i sostenitori, consapevoli o meno, di un oligopolio in atto che, sfruttando l’impotenza degli Stati nazionali, rischia di annullare il valore della libera iniziativa e coloro che difendendo l’idea di libero mercato, invocano una più incisiva presenza del pubblico. Non ci sono ricette scontate o predefinite in una realtà del tutto inedita ma senza un ruolo più forte ed incisivo del pubblico, il mercato non sopravviverà.