Ci sono immagini che nascono già con la capacità di trasformarsi in simboli. Fotogrammi capaci di immortalare non solo una scena ma un’emozione collettiva, pronti a diventare patrimonio della memoria più di molte parole.
È accaduto tante volte in passato, con tratti più o meno forti, in senso positivo oppure a rappresentare dolore e indignazione, come nel caso di Aylan. E continua ad accadere anche in una società che dalle immagini sembra sopraffatta. O forse è proprio il rumore di fondo nel quale siamo immersi che ci rende più attenti alla ricerca di senso nel caos.
Le immagini che resteranno di questi giorni immediatamente successivi all’ondata del virus che ha scosso il mondo sono, senza ombra di dubbio, quelle dell’onda che è tornata a scuotere l’America, dopo l’uccisione a Minneapolis dell’afroamericano George Floyd da parte di un poliziotto bianco, poi sospeso dal servizio e arrestato.
Come uno tsunami la protesta è montata, dilagando in diverse città degli Stati Uniti e arrivando anche a New York, scoprendo al mondo il bubbone di una ferita mai davvero rimarginata, nonostante le cerimonie in memoria dei paladini dei diritti civili e l’elezione di un nero alla Casa Bianca.
Una ferita su cui soffia il fuoco delle parole del presidente incredibilmente succeduto a Barack Obama, quel Donald Trump che nell’aizzare la protesta invocando la violenza contro i manifestanti, o schierandosi platealmente contro l’antifascismo, deve aver intravisto un’occasione troppo ghiotta di distrarre l’opinione pubblica dalla disastrosa gestione della crisi Covid, in vista del voto di novembre.
Ma proprio mentre la protesta ha toccato il suo punto più cruento – il bilancio parla finora di tre vittime degli scontri in Iowa e in Kentucky – a riportare il senso nel caos sono arrivate, con tutto il loro carico simbolico, le immagini di poliziotti, bianchi e neri, uomini e donne, inginocchiati insieme ai manifestanti in segno di solidarietà e di condanna per quanto accaduto a Floyd e, di conseguenza, all’America.
Un gesto che ricorda, forse non a caso, la protesta inscenata dai campioni neri di football inginocchiati durante l’inno americano, in segno di protesta contro Trump.
Di fronte al fuoco che continua a divampare – e a un bilancio che potrebbe diventare di ora in ora più drammatico – sono fotogrammi che rischiano di essere derubricati, loro stavolta, a semplice rumore di fondo.
Mentre invece meriterebbero di guadagnare il centro della scena. Perché forse gli unici, in un momento in cui rabbia e violenza rischiano di prendere ancora di più il sopravvento, di ricordare a tutti – e più di tutti agli statunitensi – che c’è anche un’altra America. Un’America che non è disposta a rimanere in silenzio pur indossando una divisa. In poche parole, un gesto che contiene in sé la forza di rammendare gli strappi di una società, a cui tutto il mondo guarda, che sta rischiando di smarrire se stessa.
A compiere questo gesto potente e simbolico sono stati finora gli agenti di Camden in New Jersey, Ferguson, nel Missouri, e Flint, in Michigan. E poliziotti si sono inginocchiati anche in altre parti degli Stati Uniti, nella contea di Miami Dade in Florida, Santa Cruz in California, a Washington e a New York.
Il capo della polizia di Camden si è unito in prima fila alla marcia pacifica di protesta, indossando uniforme e mascherina. Mentre lo sceriffo della Contea di Genesee a Flint ha detto parlando del poliziotto che ha ucciso Floyd, rivolgendosi alla folla: “Non pensate per un secondo che lui rappresenti i poliziotti di tutta questa nazione. Andiamo là fuori per aiutare le persone, non per fare queste cose”.
Sono gesti che in queste ore stridono con le immagini di una protesta che continua a divampare feroce. Per questo, in una società che si nutre di simboli, anche dalla loro capacità di contagiare la parte sana di paese che rifiuta ogni forma di razzismo potrebbe dipendere il bilancio finale di una vicenda terribile, e la profondità delle cicatrici che porterà con sé.