Una sola umanità, un solo pianeta. Conversazione con Salvatore Veca

L’anno scorso Salvatore Veca ha pubblicato “Qualcosa di sinistra. Idee per una politica progressista”. Un testo (edito da Feltrinelli) in cui l’autore mescola, con attenzione e passione, le sue vesti abituali di intellettuale, filosofo e accademico, con quelle dell’attivista. A circa un anno da quell’uscita di quel lavoro, lo abbiamo incontrato telefonicamente.

Con lui abbiamo ragionato degli effetti profondi della pandemia e di come “attrezzare una sinistra nel ventunesimo secolo”. Nelle righe che seguono abbiamo cercato di riassumere quasi un’ora di conversazione, consapevoli del rischio che questo testo banalizzi riflessioni ben più raffinate.

Il primo vasto argomento da affrontare riguarda le trasformazioni socioculturali che abbiamo visto emergere con prepotenza in queste lunghe settimane di lockdown globale. Abbiamo assistito al ritorno della Politica come luogo della decisione e al ritorno dello Stato come Istituzione necessaria per la protezione sociale dei cittadini e per l’orientamento dei processi economici.

Non c’è dubbio che in tutti i Paesi in cui questa pandemia ha esteso le sue ali oscure è emersa, quasi fosse una mano invisibile, la responsabilità della politica e dello Stato.

In qualche modo l’emergenza coronavirus ha portato a termine quella fase dei processi di globalizzazione innescati dal collasso dell’equilibrio della guerra fredda. Una globalizzazione che, mentre generava interdipendenza tra gli Stati, contemporaneamente registrava la contrazione dell’agenda pubblica, la riduzione dello Stato e il rafforzarsi di quella ideologia neoliberista che possiamo tradurre nella frase per fortuna che c’è il mercato, perché se il mercato funziona i problemi si risolvono. Questa cultura è stata largamente presente in tanti Paesi del mondo, mescolata con le culture thatcheriane e reaganiane in occidente, con culture confuciane nel mondo orientale e anche con diverse culture locali dell’America latina.

La globalizzazione liberista ha affrontato due crisi vere: quella finanziaria del 2008, da cui non eravamo ancora completamente usciti, e quella che affronterà a causa del Covid.

La pandemia, come sappiamo, ha diversi effetti: il primo attiene la salute di ognuno, e quindi, conseguentemente, la salute pubblica. Per la meccanica stessa della trasmissione del contagio, “se io proteggo me, sto proteggendo anche te”. Una vera interdipendenza umana planetaria, per cui la salute diventa una dimensione comune. La protezione di qualcuno coincide con la protezione di tutti. Ecco perchè nella dimensione della salute pubblica, intesa come bene comune, riemerge la funzione dei sistemi sanitari pubblici. Sistemi in cui ciascuno, in qualche modo, deve qualcosa agli altri. Curare chiunque, a prescindere sia esso ricco o povero, significa curare l’intera comunità.  

A partire da questo piano, in ampie sfere della cittadinanza, è sbocciata l’urgenza di una riabilitazione della politica: è tornato chiaro che il pubblico può riguardare tutti. Ora si tratta di rispondere all’altezza di questa percezione. Perché se i fallimenti della mano invisibile riguardano i mercatisti, i crampi della mano visibile erodono la fiducia nei confronti del pubblico.

Il ritorno dello Stato nella scena pubblica, dopo decenni di ubriacatura neolibersta, ci pone questioni differenti: da un lato, appunto, proprio il ritorno dei governi nei processi economici, ma dall’altro un rinnovato valore dei confini nazionale (o perfino regionali) come luoghi di sicurezza.

I confini si sono consolidati ma il virus ha viaggiato oltre i confini, tanto da diventare pandemia globale. Il virus attraversa i confini ed evoca l’interdipendenza anche biologica degli esseri umani.

Oggi abbiamo una frazione di popolazione che non ne può più di alcuni confini: sono le persone che alimentano il commercio mondiale, l’innovazione, la tecnologia, ma anche l’arte e la cultura.  Donne e uomini che non vedono l’ora di riconoscersi come cittadini del mondo. Dall’altra parte una frazione di popolazione che invece percepisce nell’assenza di confini solo costi e percepisce la prossimità come una virtù. E’ la polarizzazione registrata negli ultimi anni.

Però lo sappiamo: le cose non accadono fino a che noi non ci assumiamo la responsabilità di cambiarle. Mentre gli imprenditori politici del muro e i populisti continueranno a soffiare sul fuoco, noi dovremo saper riconoscere le ragioni di quelle ansie, capirle, smontare pezzo su pezzo.  E poi cambiare il racconto. E’ il momento in cui si può evocare una consapevolezza di genere umano: una sola umanità e un solo pianeta.

Abbiamo anche assistito a un’impennata nei processi di diffusione della digitalizzazione. Lo smart working (per fare un esempio) è diventato oggetto di sperimentazione e discussione generalizzata. La scuola e l’università hanno sperimentato per necessità. I mercati online hanno subito un’ulteriore, rapida espansione…

In questi mesi abbiamo assistito a un’accelerazione di quanto avevamo già pensato. Quel che era possibile è diventato necessario. In un Paese in cui il digital divide pesa ancora molto, il digitale ha mostrato la possibilità di diventare uno strumento quando altre certezze collassano. E’ importante questo punto perché l’insieme delle tecnologie digitali diventano uno strumento da cui non può essere escluso nessuno. Ecco perché si pone il tema della cittadinanza e della sovranità digitale, da cui conseguono bisogno di educazione e formazione digitale.

Questo è il grande tema del futuro: il digitale può essere un potere oppressivo da Grande Fratello centrato su capitalismo impaziente del tutto e subito – che ci porta in un mondo post umano e rende l’uomo e donna antiquati. Oppure un’opportunità massiccia per cui è possibile che il digitale possa tornare interamente a vantaggio della cittadinanza, a partire dall’educazione delle persone.

Quale può essere in questo mondo che cambia, evolve e sembra non concedersi mai un attimo di tregua, il ruolo della sinistra? Su quali basi il pensiero progressista può ricostruirsi? Quali lezioni dobbiamo apprendere da questi mesi?

Per anni abbiamo vissuto la globalizzazione cattiva, ora è tempo di una globalizzazione decente. Ritorna quello slogan di fine secolo “un altro mondo è possibile”. Mi piace citare Stephen Hawking: “Possediamo la tecnologia per distruggere il pianeta su cui viviamo, ma non abbiamo ancora sviluppato la tecnologia per sfuggire da questo pianeta. In questo momento condividiamo un solo pianeta, e dobbiamo lavorare insieme per proteggerlo”.

Questo ci impone, come progressisti, di studiare una globalizzazione di diritti e di equità. Se la pandemia ci ha mostrato l’importanza delle istituzioni pubbliche, allora noi non possiamo più usare l’alibi che la politica possa giocare solo in contropiede. La politica deve saper organizzare il futuro, non solo reagire al presente. Perché quando serve politica, le persone chiedono una politica coraggiosa, supportata dalle competenze. 

Il grande tema intorno a cui costruire la sinistra è sempre quello: la lotta aIle disuguaglianze. Vorrei che tutti leggessimo l’articolo 3 della Costituzione tutte le sere, sapendo che oggi gli ostacoli da rimuovere sono affini ai mali che limitano lo sviluppo sostenibile.

Ecco le nostre priorità: la sintesi tra l’articolo tre della Costituzione Italiana e gli Obiettivi di sviluppo sostenibile.

Penso sia lo stesso messaggio che cercano di dare milioni di giovani in tutto il mondo. Una generazione cosmopolita che parla di cambiamento climatico e futuro. In un mondo segnato ancora dalla presenza di schiavisti globali e di lavori che scompaiono inesorabilmente, unire economia circolare, digitalizzazione, rivoluzione ambientale significa rendersi conto di quanti nuovi lavori si possono inventare sui grandi obiettivi sulla sostenibilità.

Infine, vorrei sostenere una clausola fondamentale e finale. Nessun cambiamento starebbe in piedi se non partissimo da affrontare a testa alta il tema dalla parità di genere. Ecco perché mi piace concludere con una nota citazione di Mill.

“Io credo che le relazioni sociali dei due sessi, che sottomettono l’un sesso all’altro in nome della legge, sono cattive in sé stesse, e costituiscono oggidì uno dei precipui ostacoli che si oppongono al progresso dell’umanità: io credo ch’esse debbono dar luogo ad una perfetta eguaglianza senza privilegio, né potere per l’un sesso, come senza incapacità per l’altro”. – John Stuart Mill