Il tempo come unità di misura

Siamo culturalmente abituati a ragionare sulle città a partire dallo spazio, secondo una logica mono-dimensionale. Come se tutto dipendesse dal buon disegno – in pianta – di edifici, spazi aperti, verde urbano e servizi.

Ma le città – oggi più che mai – hanno molto a che fare quasi più col tempo che con lo spazio e dovremmo sforzarci di pensare a luoghi e comportamenti delle persone in tal senso. Se altri virus dovessero entrare nella nostra vita nei prossimi anni, non potremmo certo rinchiuderci in casa per sempre. Per esempio, dovremmo immaginare popolazioni diverse – bambini, giovani, anziani – che frequentano gli stessi luoghi in orari diversi, così da evitare sovraffollamenti e ottenere quel distanziamento sociale che in questi giorni stiamo sperimentando in forme estreme. Potremmo seguire l’esempio di Amsterdam che ha nominato un Sindaco della Notte, responsabile della gestione della città dopo il calar del sole.

L’obiettivo di rendere più rarefatti i rapporti sociali in particolari momenti di crisi, potrebbe condurci ad ampliare l’accessibilità ad alcuni luoghi distribuita sull’arco delle 24 ore e non sulle sole 12 diurne.  Potremmo seguire l’esempio di Bogotà che, in vista dell’arrivo del Covid19, ha proclamato tre giorni di chiusura della città in forma sperimentale, per studiare i comportamenti delle persone, gli effetti sociali ed economici, le capacità di risposta. E lo ha fatto settimane prima dell’emergenza vera, per riuscire meglio a gestire questo rischio che, nel loro caso, si somma a quello sismico e ambientale. Così la Grecia che ha optato con anticipo per la quarantena delle sue città, senza indugiare in ragionamenti opportunistici o solo economici, e, finora, i contagi limitati sembrano dare ragione alla tempestività delle sue scelte.

In secondo luogo, dovremmo ripensare la relazione tra scala macro- e micro-urbana. Va in questa direzione la recente proposta politica di Anne Hidalgo, sindaca di Parigi: la “città del quarto d’ora” (Ville du quart d’heure) è un modo innovativo di ripensare la Grande Parigi, come un puzzle di isole con una certa autonomia vitale. Un quarto d’ora è l’unità di misura del suo progetto, che immagina di ripensare la città intorno a servizi e funzioni raggiungibili dai cittadini a piedi o in bicicletta entro quel lasso di tempo. È una metafora stimolante. Riporta la città ad una dimensione più umana, ad isole e comunità solidali, nelle quali siano presenti scuole, servizi al cittadino, negozi e tutto quello che rende confortevole il vivere urbano, lasciando più possibile a casa l’auto. Un’esperienza che diventa modello cruciale, positivamente, nei momenti di crisi e di pericolo per la salute.

Il coraggio di fare (che gli altri non hanno)

Oggi tanti scrivono “faremo”, “cambieremo”, “abbiamo sbagliato”, dilungandosi in slanci di solidarietà verso gli altri o afflati ecologici verso il pianeta. E fa specie leggere di tali conversioni socialiste, parole accorate di cambiamento e riscoperta di certi valori, proprio da coloro da cui non ce le aspetteremmo, quantomeno per primi.

Sono certi manager, certi imprenditori, certi amministratori, certi politici: una certa classe dirigente che potere e responsabilità l’aveva anche prima, ma che proclama solo oggi, con doverosa retorica, di voler cambiare rotta. È l’emotività di questi giorni che fa crescere il senso di colpa per quello che non si è fatto finora o semplicemente il maggior tempo libero finalmente dedicato a pensare?Oggi siamo tutti più sensibili: ci emozioniamo scorgendo il ritorno della natura o ascoltando il racconto dei medici in corsia o di chi si prodiga per gli altri, mettendo insieme risorse e cuore. Ma sarà più difficile cambiare, quando, scampato il pericolo, non saremo più ostaggio della paura e tornare alla vita di prima ci parrà la migliore sorte possibile.

Servirebbe coraggio. Quel coraggio politico che ebbero alla metà dell’Ottocento Frederick Law Olmsted e Calvert Vaux che immaginarono il Central Park di New York, un parco che sembra naturale ma che fu progettato dalla volontà umana in ogni suo dettaglio.La città in quegli anni godeva di uno straordinario sviluppo urbano, erano sorti i primi grattacieli e lo spazio edificabile era un bene davvero scarso e quindi prezioso; il mercato e la pressione della rendita spingevano tutti gli attori urbani – politici, costruttori, architetti – a massimizzare i profitti. La sola idea di rinunciare a quel suolo apparve a tanti una cosa del tutto assurda.Ma è proprio in quel momento che la città – su suggerimento di un’urbanistica attenta al bene comune – riesce ad immaginare uno straordinario gesto di rinuncia, scegliendo di realizzare un grande parco a disposizione di tutti.

Certamente si pensava alla salute delle persone ma più in generale il progetto rispondeva ad una moderna idea di benessere collettivo. Il Central Park rappresenta ancora oggi un’opera di bonifica ambientale e di ri-naturalizzazione per antonomasia, da cui possiamo imparare tanto. Il terreno preesistente presentava cave, avvallamenti, paludi e baracche abusive, che scoraggiava il sindaco di allora, Alexander Josephyn, dal proseguire nel progetto. Ma Vaux non si fermò di fronte alle difficoltà. E così fu.