La chiusura del Paese dopo l’8 marzo e la progressiva riapertura avviata dopo il 4 di maggio hanno prodotto anche nel tessuto economico e occupazionale di Roma e del Lazio delle ferite serie che necessitano di attente valutazioni di merito e richiedono terapie d’urto importanti.
L’edilizia e il comparto delle costruzioni sono stati tra i settori più penalizzati. Benché la chiusura delle attività decisa l’8 marzo consentisse, sulla base dei codici Ateco, la parziale apertura di alcuni cantieri, il bilancio del bimestre marzo/aprile 2020 è dal punto di vista economico e occupazionale molto pesante.
Nel mese di marzo del 2020 rispetto al mese di marzo 2019 le ore lavorate in edilizia, denunciate in cassa Edile, sono diminuite del -54% (con una perdita di 2.246.000 ore lavorate); nel mese di aprile 2020 la perdita rispetto allo stesso aprile del 2019 è stata del 85% (con una perdita di 3.234.378 ore lavorate). Il bilancio totale da numeri da capogiro: meno cinque milioni e mezzo di ore lavorate, pari a circa 700 mila giornate di lavoro perse. Un dato che corrisponde a oltre 18 mila operai edili rimasti fermi, solo in parte tutelati dagli ammortizzatori sociali, visto che la perdita media di occupati registrati in casse edile nel Lazio nel bimestre è pari a 7.000 operai. A questi dati, già pesanti, vanno ulteriormente aggiunti i dati relativi ad impiegati e tecnici, nonché alle partite Iva che operano sui cantieri come lavoratori autonomi. Un insieme di professionalità che rischiano, senza una ripresa sostanziosa e duratura, di andare ad alimentare il mercato del lavoro grigio.
I due terzi delle perdite sono localizzate nell’area metropolitana di Roma, ma anche il resto della regione ha subito un colpo forte al tessuto economico produttivo del comparto. Una perdita di fatturato stimabile nei soli mesi di marzo ed aprile 2020 di oltre 250 milioni di euro. L’edilizia e il comparto delle costruzioni hanno storicamente rappresentato per Roma e il Lazio una filiera produttiva essenziale, senza di essa non è pensabile una vera ripartenza: e non solo perché si tratta di una filiera ad alta intensità occupazionale, con una radicata presenza di imprenditoria locale ed un forte ruolo della microimpresa e dell’artigianato, ma perché non c’e’ settore della vita sociale, non c’e’ ambito territoriale dove, se si pensa ad un futuro diverso, non è chiamata in causa anche la filiera delle costruzioni.
C’e’ tanto da fare: dalla messa a norma delle scuole da realizzare entro settembre, alla manutenzione delle città messe a dura prova nella fase del lockdown; dalla difesa idrogeologica (male latente di molte aree della Capitale e della regione), alla riorganizzazione del sistema sanitario, da realizzare attraverso una grande rete di strutture versatili, moderne, diffuse; dalla troppo lenta ricostruzione post sisma 2016, alla modernizzazione delle infrastrutture, a partire dal completamento delle opere da sempre incompiute (per esempio la Orte Civitavecchia, la Roma Lido, la ferrovia concessa Roma Nord, il prolungamento delle linea B della metropolitana fino a San Basilio – Casal Monastero e della linea C fino al quadrante nord della città, l’adeguamento del ponte della Scafa, il raddoppio della Salaria, la ciclovia tirrenica), dalla cosiddetta “rigenerazione urbana” che, sostenuta con l’intervento pubblico, deve essere intesa come un processo capace di portare servizi di prossimità e lavoro assieme ad un livello adeguato di urbanità, all’efficientamento energetico e all’adeguamento alle misure antisismiche del patrimonio edilizio esistente. Infine alla tutela e valorizzazione dei borghi e dei piccoli Comuni, verso cui è cresciuta l’attenzione culturale e sociale in questi mesi, ma che rischiano di tornare nel dimenticatoio senza politiche strutturali di rivitalizzazione economica e sociale.
Non è solo, dunque, una questione di risorse e di investimenti che pure sono indispensabili, è questione di scelte strategiche, di orientamenti istituzionali seri e condivisi, di innovazioni 4.0 nei processi produttivi e nell’organizzazione del lavoro, di una nuova responsabilità sociale di tutti gli attori che metta al centro la serietà e la trasparenza della pubblica amministrazione, la rapidità delle decisioni, la tracciabilità e la legalità a partire dalla lotta al dumping contrattuale e al lavoro nero sui cantieri. E anche il tanto atteso incentivo del 110% porterà un effettivo beneficio, solo se sarà collegato oltre che ai controlli fiscali su chi ne beneficia, anche alla regolarità e alla sicurezza del lavoro.
Per “fare” davvero serve, insomma, una forte spinta su 5 player dell’innovazione.
• Digitalizzazione delle stazioni appaltanti e assunzioni di giovani professionisti (architetti, ingegneri, informatici, economisti, geometri) nella Pubblica Amministrazione.
• Innovazione nei processi di gestione delle imprese e loro maggiore capacità di fare rete.
• Innovazione dei sistemi di relazioni industriali, spesso appesantiti da bizantinismi, per garantire nel rispetto del confronto tra le parti, un’operatività snella e assicurare sui cantieri edili la parità di condizioni di trattamento di tutti coloro che vi lavorano attraverso meccanismi come il contratto di cantiere e il contratto di filiera.
• Innovazione di prodotto, la pandemia e la fase di chiusura in casa hanno dimostrato, ad esempio, la necessità di innovare l’ offerta edilizia in termini tipologici, dimensionali, , nelle dotazioni tecnologiche e nei materiali, nel rapporto con lo spazio pubblico.
• Innovazione nei meccanismi di decisione politica, attraverso l’accorciamento dei tempi di decisione, pur nella salvaguardia degli istituti di democrazia che presiedono alle scelte partecipate, e una messa in mora dei ricorrenti “pentimenti” su opere già decise e cantierate.
Un’edilizia di qualità, all’interno di una filiera delle costruzioni, a queste condizioni non può che far bene alla ripartenza del Paese.
Serve però, in ultima analisi, una capacità di offrire risposte tanto sul mercato privato che su quello delle opere pubbliche che va sviluppata a partire da un protagonismo delle istituzioni e da un rinnovato patto tra le forze imprenditoriali, del lavoro, dell’ambientalismo e della tutela dei diritti di cittadinanza nell’ambito di un progetto di lungo termine di riconversione in chiave sostenibile di interi comparti della produzione e di innalzamento della qualità della vita nelle città. Da questo punto di vista occorre recuperare un ritardo perché l’Italia è pressoché l’unico Paese europeo a non avere una vera e propria agenda di politiche urbane, coerente con quella esistente a livello dell’Unione, e l’unico grande sistema amministrativo europeo a non avere un ministero responsabile per le politiche urbane. Nel tempo si è affermata l’idea che i rapporti tra lo stato e le autonomie locali debbano essere segnati dall’assenza di responsabilità dell’amministrazione centrale verso la condizione urbana. Una politica per le città è uno degli asset da cui ripartire per arrestare il processo involutivo dei nostri grandi sistemi insediativi in atto da tempo, migliorare la qualità della vita per i cittadini, contrastare le disuguaglianze urbane che sono disuguaglianze nella fruizione di diritti quale quello alla mobilità, all’istruzione e alla formazione, ai servizi e alla salute.
E’ necessario rimettere in agenda grandi politiche nazionali per migliorare la condizione di vita urbana, e sarebbe curioso se non lo facesse il paese che più di altri ha sempre fatto scorrere la propria linfa vitale nelle reti delle città. Questa è la grande sfida che abbiamo davanti.
Marco Tolli è responsabile politiche territorio e infrastrutture segretaria PD Lazio,
Giovanni Carapella è responsabile forum edilizia e politiche abitative del PD Lazio