Per una necessaria riforma delle integrazioni salariali

Lo stress-test dell’emergenza pandemica ha portato in evidenza i limiti e le fragilità del nostro sistema giuridico-istituzionale deputato ad intervenire nelle situazioni di crisi occupazionale prolungata. In verità, già parlare di sistema a me pare più una lodevole aspirazione che una veritiera descrizione di ciò che invece si presenta come un insieme, non sempre coordinato ed organico, di norme particolari e di istituti a carattere generale. A questo insieme, in effetti, ben può riferirsi ciò che Gino Giugni disse del diritto del lavoro: essere, cioè, il risultato di una formazione non lineare ma semmai stratificata, quanto al tempo, e alluvionale, quanto alle fonti di produzione.

La conseguenza più evidente è nota: la pluralità di regimi che rasenta, anzi sfocia, in una sorta di balcanizzazione delle tutele. Non si tratta solo delle differenze connesse alla originaria macro-distinzione tra lavoratori autonomi e subordinati – sulla quale dirò in seguito – ma anche, e ancor più, di quelle derivanti dalla differenziazione interna tra categorie di lavoratori egualmente subordinati, tra comparti produttivi, tra settori di attività, tra imprese diversamente dimensionate, a volte anche tra territori.

Ciò è vero sul piano strutturale, che per un giurista è naturalmente dato dalla configurazione degli istituti chiamati in causa, cioè da tutti quegli elementi che spesso sfuggono all’attenzione dei policy makers in genere più attenti alle dimensioni macroeconomiche tanto da non riuscire talvolta a valutare in via previa quanto una approssimativa disciplina giuridica svuoti di effettività le decisioni assunte.

Ma se è vero sul piano strutturale, lo è egualmente sul piano funzionale, della ratio cioè e degli obiettivi perseguiti da tali istituti. Funzioni, per la verità, plurime e complesse dal momento che le esigenze di tutela del reddito individuale devono coniugarsi con quelle di promozione delle opportunità di lavoro e di riorganizzazione innovativa del sistema produttivo interessato dai fenomeni di crisi.

Per queste ragioni non ho mai pienamente apprezzato, lo confesso, l’espressione “ammortizzatori sociali”. Questa espressione, assumendo una parte per il tutto, pars pro toto, è molto utile nella misura in cui rende immediatamente percepibile il bisogno e l’urgenza di mettere in atto misure concretamente attuative di quei “doveri inderogabili di solidarietà” che la Costituzione pone come elemento necessario del nostro stare insieme come comunità civile. E tuttavia, è poco utile se e nella misura in cui orienta l’attenzione più sull’intervento immediato per temperare la situazione di bisogno individuale e meno sulla necessità di operare per consentire un riposizionamento positivo nel mercato dell’attività in crisi.

Chi ricorda l’esperienza di anni lontani – quella, cioè, delle imprese decotte tenute artificialmente in vita, dei lunghi anni di cassa integrazione come alternativa al licenziamento in attesa di una mobilità guidata point to point, dell’intervento di politiche passive di sostegno al reddito annidate sotto la veste di pseudo politiche attive – sa bene quanto scivoloso sia un terreno in cui è necessario coniugare emergenza sociale e politiche proattive. Anzi, ricorderà sicuramente la sorte della legge 223 del 1991: approvata dopo dieci anni per razionalizzare il sistema della cassa integrazione, della mobilità e dei trattamenti di disoccupazione e quasi subito rimessa in discussione dalle crisi dei primi anni novanta che hanno richiesto l’adozione di interventi in deroga.

Proprio qui, però, a ben vedere, si annida la sfida di una modernità possibile che per essere inverata chiede a tutti di saper incastonare ogni problema all’interno di una prospettiva di sistema rinunciando ad ogni facile semplificazione, in genere più dipendente dal passato che ispirata al futuro. Non si tratta, sia chiaro, di costruire modelli perfetti in astratto, bensì di configurare strumenti capaci di adattarsi flessibilmente alla variabilità delle contingenze economiche e sociali, adottando una logica modulare e progressiva capace di assicurare nelle situazioni di crisi una sussidiarietà solidale e una solidarietà efficiente.

In questa prospettiva, a me pare che la prima urgenza sia proprio questa: superare una frammentazione regolativa che alla fine si traduce in una insopportabile e “burocratica” (nel senso deteriore del termine) frantumazione procedurale. Allo stato, è noto, esistono almeno cinque diversi protocolli per l’accesso e la gestione delle integrazioni salariali.

A ben vedere, tale articolazione risulta originariamente derivata dalle causali, cioè alle ragioni giustificatrici – ordinarie o straordinarie – dell’intervento pubblico, ma nel tempo appare poi correlata anche ad altri aspetti significativi: dalle dimensioni aziendali ai comparti produttivi, dall’intervento dei fondi bilaterali alle situazione di crisi globale, fino ad arrivare alla c.d. cassa in deroga e all’impegno delle Regioni nella relativa procedura di autorizzazione. In sintesi, può ben dirsi che la progressiva estensione del campo di applicazione delle integrazioni salariali dall’originario settore industriale all’intero universo del sistema produttivo sia stata realizzata attraverso un duplice dinamismo: per sommatoria progressiva di modelli differenziati (per ambito, soggetti, risorse e procedure) e per accumulo stratificato delle causali, dal momento che a quelle originarie pensate per sostenere la riorganizzazione dell’impresa in una specifica fase di difficoltà di mercato si sono affiancate altre e più recenti derivanti dalla urgenza della crisi, questa pandemica come quella precedente derivante dalla bolla speculativa dei subprime.

Da questo sovraccarico funzionale delle integrazioni deriva però non solo l’appesantimento procedurale ma anche l’oggettiva torsione di uno strumento di politica industriale (utile per consentire all’impresa di non perdere capitale umano in una fase di crisi temporanea del mercato o di ristrutturazione aziendale) in uno di sostegno al reddito del lavoratore e quindi di politica sociale, appena appena camuffato sotto il fragile velo di aleatorie politiche attive del lavoro, più dichiarate che praticate. Le conseguenze sono facilmente intuibili ove solo si pensi al diverso ruolo che può assumere la dimensione collettiva e sindacale nella gestione dei processi di ristrutturazione aziendale e nelle diverse procedure volte ad assicurare l’erogazione dei mezzi di sostegno al reddito dei lavoratori (ed è sufficiente, per rendersene conto, una lettura comparata degli accordi regionali per la cassa in deroga e dei diversi termini da essi previsti). Togliere il troppo e il vano dal coacervo di norme che disciplinano le integrazioni salariali è dunque azione opportuna, anzi necessaria nella prospettiva di una semplificazione procedurale sostenibile e coerente con la diversificazione delle finalità perseguite.

In questa prospettiva c’è però una questione che credo opportuno porre fin da subito all’attenzione. E vorrei farlo citando testualmente l’art. 1, comma 2, della proposta di Regolamento del Consiglio che istituisce uno strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione in un’emergenza (SURE) a seguito della pandemia di Covid 19 (2020/0057 (NLE) del 2 aprile 2020): “… consentire il finanziamento di regimi di riduzione dell’orario lavorativo e di misure analoghe miranti a proteggere i lavoratori dipendenti e autonomi e pertanto a ridurre l’incidenza della disoccupazione e della perdita di reddito”.

Annidata in questo frammento normativo vi è non solo, e neppure tanto, la conferma della prevalente finalità di sostegno al reddito dell’intervento comunitario ma, a ben vedere, anche la chiara indicazione della logica conseguenza da ciò derivante: se l’integrazione salariale è da intendere come funzionale a sostenere il reddito piuttosto che come strumento di politica industriale, allora non può che avere carattere universale e quindi essere tale per l’universo mondo dei lavoratori in difficoltà a prescindere dalla tipologia contrattuale di cui si è parte.

Qui, però, il problema diventa terribilmente complicato, a motivo della dimensione tendenzialmente individuale dell’attività professionale e dell’assunzione del rischio di mercato da parte del lavoratore autonomo. Ma è proprio qui, a ben vedere, che si colloca la sfida riformista dei prossimi anni.

In estrema sintesi, vale la pena ricordare che i nostri sistemi giuridici, ma prima ancora i nostri modelli di costruzione sociale, si basano su una macro distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo dalla quale storicamente sono stati fatti derivare regimi differenziati di tutela. Da tempo, questa distinzione è oggetto di discussione, non rispecchiando più la complessità del mercato del lavoro: vi sono lavoratori formalmente subordinati che godono di grande autonomia e capacità negoziale e vi sono lavoratori formalmente autonomi che subiscono una profonda condizione di debolezza nel mercato (come sanno bene tantissimi giovani liberi professionisti). E tra questi due estremi una congerie infinita di possibilità.

Quella distinzione, tuttavia, continua ad operare non solo nell’ordinamento giuridico, ma ancora più nella cultura diffusa tanto di chi è pregiudizialmente ostile all’universo del lavoro autonomo, spesso reputato non solidale nei propri doveri fiscali, ma anche di chi, a fronte della complessità del reale, si rifugia in una categoria dai confini incerti, quale quella di lavori atipici, quasi che il solo lavoro tipico e socialmente accettato possa essere quello subordinato, erogato secondo modalità fordiste. Anche per questo, in verità, da più parti si sostiene la necessità di rivedere le regole del lavoro, correlandole modularmente al fatto stesso di lavorare e non invece alla tipologia contrattuale di cui si è parte. E ciò è ancor più vero oggi dal momento che  la pandemia ha messo in evidenza la debolezza dell’universo dei lavoratori autonomi e l’urgenza di individuare meccanismi di tutela in caso di crisi, sia a beneficio degli autonomi che prestano la loro attività in realtà organizzative complesse e a carattere imprenditoriale, sia a tutela dei lavoratori autonomi che operano nel libero mercato, coinvolgendo a tal fine anche le casse previdenziali.

Non si tratta di assimilare in una notte indistinta l’universo del mondo del lavoro. Ma semmai di dare piena attuazione all’art. 35 della Costituzione che tutela il lavoro in tutte le sue forme e manifestazioni. Il lavoro, appunto, non il contratto di lavoro.


. Antonio Viscomi Deputato Pd Commissione Lavoro Pubblico e Privato