Fondazioni di origine bancaria: per un nuovo modello di relazione con la comunità Paese

Alessandro Di Nuzio e Diego Gandolfo, I Signori delle città (editore “Ponte alle Grazie”), hanno svolto un pregevole lavoro di indagine sul sistema delle fondazioni di origine bancaria, che alla luce della necessità impellente e molto concentrata nel tempo (qui e ora) di trovare le risorse indispensabili per impostare un nuovo modello economico e sociale nel dopo Covid-19, assume una valenza ulteriore.

Ma procediamo con ordine. Il lavoro di inchiesta ha in primo luogo il merito di aver ricostruito la vicenda storica, relativamente recente, delle fondazioni di origine bancaria: nate nel 1990 e destinate ad essere, nelle intenzioni di Giuliano Amato che ne fu artefice,  creature transeunti, nel cui grembo collocare le azioni delle banche di rispettivo riferimento, sino a compimento del processo di privatizzazione del sistema bancario italiano.

Tuttavia, come spesso accade nei processi biologici, la vita degli organismi si riproduce al di là e talvolta a dispetto dell’apparente fragilità. Così, le fondazioni non solo in diversi casi si sono addirittura rivoltate, e hanno resistito lungamente, alla stessa ragione per la quale erano nate: intervenendo e condizionando i processi di scomposizione e ricomposizione del sistema bancario italiano, giocando alla fine il ruolo di azionisti “attivi”, con esiti in non pochi casi poco lusinghieri, che il libro racconta in maniera chiarissima; ma si sono alla fine inserite strutturalmente, con modalità del tutto peculiari, nel sistema dei poteri locali, diventandone molto spesso snodo essenziale, soprattutto a fronte delle declinanti disponibilità finanziarie dei Comuni e delle Province.

La natura giuridica “privatistica” delle fondazioni bancarie consente peraltro alle fondazioni, come evidenziano molto bene gli autori del volume, di gestire le risorse a loro disposizione con considerevoli margini di discrezionalità, tanto sul fronte della distribuzione dei contributi finalizzati a sostenere progetti di varia natura, quanto sul versante riguardante i meccanismi di affidamento di lavori, forniture e servizi. Naturalmente, l’indagine evidenzia correttamente come questa condizione giuridica di partenza non abbia assunto ovunque le stesse declinazioni pratiche.

Diversi sono i casi in cui le fondazioni si sono date regole trasparenti, o tendenzialmente tali, circa le modalità di erogazione dei contributi, di affidamento degli appalti, del rapporto tra la quantità di risorse spese per il sostegno alle attività culturali e sociali delle comunità locali di riferimento e quelle invece impiegate per il funzionamento delle strutture e degli organi. Ma non mancano certo, e sono evidenziati nel lavoro, i casi anche clamorosi nei quali intorno alle fondazioni si sono venute organizzando lobbies di potere, tendenti ad autoperpetuarsi, rigenerandosi fino a quando possibile negli organismi delle fondazioni stesse o in quelli di soggetti di varia natura a loro volta, in non pochi casi, costituiti dalle fondazioni stesse.

Il risultato di queste dinamiche è duplice: da un lato la nascita e il consolidamento di un ambito di governance delle politiche locali non determinato direttamente dai meccanismi di legittimazione democratica, che interessano invece gli enti locali elettivi; e nel contempo collegato al sistema dei “poteri locali” e sovra locali, mediante percorsi di nomina che coinvolgono diversi soggetti, istituzionali e non, nei quali gioca un ruolo non secondario la leva della cooptazione esercitata dagli organismi già in carica. Insomma, un intrico di procedure formali e informali che tendono inevitabilmente a favorire il replicarsi di una sorta di élite tendenzialmente stabile, che si autolegittima anche attraverso il controllo impermeabile dei meccanismi di successione.

Il lavoro di Di Nuzio e Gandolfo evidenzia i  molteplici casi nei quali le dinamiche testé sommariamente evidenziate non hanno impedito alle fondazioni, grazie all’azione di gruppi e personalità particolarmente illuminate e portatrici di una visione lungimirante, di svolgere attività largamente positive per lo sviluppo dei territori di insediamento. Ma, al tempo stesso, mette in luce sull’altra faccia della luna: le molte ombre di un sistema che appare talvolta disposto a favorire l’arroccamento di gruppi di potere, la distribuzione immotivata di prebende in forma di erogazione di risorse a progetti di dubbia utilità e, spesso, destinati a favorire posizioni di gruppo o personali, l’immotivata larghezza nella determinazione dei costi di gestione, ivi comprese le indennità elargite ai componenti gli organi direttivi e gestionali.

Gli autori evidenziano bene come la natura delle fondazioni costituisca, di per sé, ostacolo a un più efficace controllo su queste istituzioni: soggetti privati in punta di diritto, detentori al contempo di una forza di orientamento e condizionamento delle politiche pubbliche divenuta sempre più decisiva. Si apre proprio su questo punto la più dirimente delle questioni: quella del rapporto tra l’essenza giuridica, pienamente privata, delle fondazioni medesime, e la finalità, altrettanto pienamente “comunitaria” della loro attività. Va in questo senso la sentenza n. 300 del 2003, con la quale la Corte Costituzionale ha riconosciuto ribadito al tempo stesso la natura “privatistica” dell’istituzione e il vincolo della destinazione “pubblica” delle sue iniziative. Puntando in questo modo: da un lato a preservare le fondazioni dall’ingerenza della “politica”, dall’altro a ribadire l’interesse generale cui deve puntare la loro azione.

“I Signori delle città” racconta come, al momento, nessuna delle due condizioni risulti soddisfatta. Sul versante della governance, la sottrazione al condizionamento della politica viaggia solo, e neppure completamente, sulla superficie delle procedure: mentre i fiumi “carsici” delle relazioni partitiche viaggiano in sotterranea, attraverso dinamiche la cui regia è spesso affidata a personalità di lungo corso politico, semplicemente passate di campo. Mentre sul fronte dell’attività, lo scudo “privato” agisce a proteggere l’insindacabilità delle scelte, con risultati che talvolta hanno prodotto disastri, come nel caso di investimenti temerari di cui le cronache hanno dato ampio conto e che hanno prodotto la dilapidazione di miliardi di euro.

Si potrebbe continuare a lungo con l’elencazione dei problemi aperti. Vale tuttavia la pena tentare di mettere in relazione l’ingente dotazione di risorse a disposizione delle fondazioni di origine bancaria con i drammatici problemi aperti dalla pandemia e dalla necessità di ricostruire, nel dopo Covid-19, un tessuto economico e sociale più robusto e in grado di superare le fragilità evidenziate dal nostro sistema nel corso di questi mesi. Immaginando una serie di azioni che, per primo, potrebbe essere il Ministero dell’Economia e delle Finanze a promuovere

Cominciando sul fronte della vigilanza e sottoponendo a più stingente verifica l’attuazione del protocollo d’intesa sottoscritto nel 2015 con l’ACRI, avviando il processo di una sua revisione e attualizzazione, al fine di renderlo più aderente al nuovo quadro di esigenze: ai segnali di ulteriore sobrietà che è necessario pretendere da un soggetto istituzionale che, comunque, si pone di propria iniziativa come un soggetto “pubblico” nel quadro della vita comunitaria; alla necessità di disboscare la proliferazione di società e altri soggetti generati dal grembo delle fondazioni, la cui utilità risulta in molti casi dubbia in rapporto alle finalità statutarie e, talvolta, appare come orientata solo a costituire ulteriori posizioni preminenti; all’accostamento delle regole ivi vigenti per l’assunzione del personale e per gli appalti a quelle valide per il settore pubblico; all’obiettivo di stabilire una modalità di relazione più trasparente con il sistema dei poteri politici locali e nazionali, fondata su precisi ambiti di concertazione e cooperazione.

Quest’ultimo punto ci appare decisivo in questo delicatissimo tornante della vita nazionale. La dotazione considerevole di risorse che le fondazioni di origine bancaria possono mobilitare richiede un salto di qualità, in grado di qualificare la loro azione orientandola alle priorità cui l’Italia deve dare risposta, al fine di preservare speranza nel futuro. Gli aiuti che arriveranno da Recovery Fund, MES, Sure, e da tutti gli altri strumenti di derivazione europea, costituiscono certo un contingente molto rilevante. Insieme ad essi, la coraggiosa politica di “nuovo debito” perseguita in questi mesi dal Governo consente di poggiare su basi di discreta solidità il lavoro che ci attende.

Al tempo stesso, sappiamo che tutto ciò, anche per le gravi condizioni di partenza del Paese, i suoi ritardi in molti campi, la particolare durezza con la quale l’epidemia l’ha colpito, non consente di stabilire un complesso di risorse sotto il quale scrivere: basta così! Anche perché tutto ciò che non arriverà a fondo perduto andrà restituito, seppure a tassi di interesse bassissimi o nulli. Le risorse delle fondazioni di origine bancaria possono pertanto risultare decisive, in particolare nei campi dell’istruzione e del welfare: dove si stagliano all’orizzonte problemi giganteschi che, di frequente, è più facile cogliere e specificare nella dimensione locale, propria di queste istituzioni.

ll modello che parrebbe utile proporre sta a metà strada tra la suggestione, a mio avviso fallace, di un “ingabbiamento” decisionale di carattere centralista, non solo incompatibile con il vigente quadro normativo ma anche poco utile a inquadrare le esigenze concrete misurabili sul campo delle comunità locali, e l’idea, all’opposto altrettanto sbagliata, di un proseguimento inerziale sulle attuali dispersive modalità, in base alle quali ognuno fa ciò che gli pare. Più interessante, e proficuo, sarebbe invece tutelare l’autonomia di ciascuna istituzione, incanalandola tuttavia nell’ambito di un processo di concertazione, di cui il MEF potrebbe essere regista, in grado di individuare gli assi prioritari d’azione lasciando alle realtà locali le specificazioni di progetto e intervento.

Come in molti altri campi, insieme alle tragedie causate, il Covid-19 e l’uscita dal suo “incubo” potrebbero aprire il sistema delle fondazioni di origine bancaria, ormai diventate a smentita dei propositi iniziali un elemento strutturale delle nostre comunità, a una stagione nuova di proficua collaborazione per il rilancio del Paese.


Daniele Borioli è un componente della Direzione nazionale del Partito Democratico