Made in Italy a rischio per l’escalation dei dazi. Solo la Ue può salvarci

Nel difficile scenario globale, spirano venti di nuovi conflitti commerciali anche sulla rotta atlantica e un conto pesante rischia di essere pagato dal nostro settore agroalimentare, fiore all’occhiello del Paese e punto di forza del nostro export. Già nell’ottobre dello scorso anno la decisione americana di aumentare le tariffe del 25 per cento su alcune nostre produzioni agroalimentari di qualità, esportate oltreoceano, ha colpito in modo pesante il settore coinvolgendo beni per oltre mezzo miliardo di euro. Contro quei dazi si levarono voci anche da molte imprese statunitensi: in ventiquattromila inviarono agli uffici di «United States Trade representative» il loro parere contrario a costi aggiuntivi sulle loro attività e sui cittadini stessi nei conti delle loro spese alle casse dei supermarket.

Oggi l’ipotesi di una nuova escalation daziaria sui prodotti esportati coinvolgerebbe anche la stragrande maggioranza delle nostre produzioni, tra cui simboli del Made in Italy a tavola come vino, pasta e olio. L’impatto complessivo di questo scenario, solo per l’agroalimentare italiano, viene stimato in almeno 3 miliardi di euro. Una cifra pesante, una prospettiva che non possiamo permetterci e che occorre scongiurare. Certo da solo il nostro Paese può fare ben poco e l’unica possibilità, ancora una volta, si chiama Europa. Alla base c’è la partita che Usa, Cina e Unione Europea stanno giocando da tempo sul commercio internazionale e il conflitto sino-americano per la leadership globale.

Di certo, le regole Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, hanno urgentemente bisogno di una revisione poiché hanno mostrato limiti evidenti. Ce la farà questo consesso multilaterale a cambiare passo? È una domanda che non trova ancora solide premesse per azzardare una risposta affermativa. Certo, molto può dipendere anche dal voto americano di novembre. L’emergenza sanitaria ha reso più netta la necessità di nuove regole, facendo emergere tutta la fragilità delle catene globali del valore troppo lunghe e troppo dipendenti da pochi Paesi. Anche sul fronte agroalimentare. E ha ragione Giulio Sapelli a ricordare che non è affatto indifferente la concorrenza esistente fra interessi industriali e interessi agricoli di alcuni Paesi. Sono nodi che vanno affrontati con decisione.

I fenomeni di rilocalizzazione delle imprese sui territori nazionali, dopo la fase delle delocalizzazioni spinte a migliaia di chilometri di distanza magari per abbattere per i costi del lavoro, sono in atto da tempo anche per l’irrompere della tecnologia. È interessante ricordare, come ha osservato anche Milena Gabanelli, che negli ultimi cinque anni sono più di duecentocinquanta le imprese europee tornate nel continente per ragioni organizzative, per ridurre i tempi delle consegne o per sfruttare meglio il posizionamento sulla qualità dovuto, ad esempio, all’introduzione dell’obbligo di informazione in etichetta dell’origine della materia prima per le produzioni agroalimentari, come abbiamo fortemente voluto in Italia per filiere centrali come il grano, il latte, l’olio e la carne.

La storia si è già incaricata di rendere evidente che una spirale conflittuale fatta di barriere tariffarie e non tariffarie fra gli Stati non produce nessun vincitore e lascia sul campo problemi per tutti. Occorre investire su una nuova stagione diplomatica e superare gli errori commessi. C’è da augurarsi davvero che la lezione venga compresa proprio ora che il commercio globale rischia una caduta senza precedenti.

Maurizio Martina, deputato Pd, è stato Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali