È ormai da un anno che prosegue il dibattito sul cosiddetto regionalismo differenziato, ovvero sulla possibilità concessa alle regioni dall’articolo 116, comma 3, della Costituzione, di poter ottenere maggiori forme e condizioni di autonomia, in determinate materie disciplinate dall’articolo 117. Ma si tratta di regionalismo differenziato o federalismo mascherato?
Si tratta di un dibattito acceso, che vede la dicotomia Nord-Sud inasprirsi sempre di più, in virtù di interessi notoriamente diversi, visto che i presidenti delle Regioni settentrionali richiedono di poter gestire in autonomia le risorse, mentre nel Mezzogiorno continua a essere incessante il grido di uguaglianza lanciato dagli accademici, i quali ricordano che senza il Sud non ci può essere Italia.
Lo sappiamo, il tema delle Regioni ha sempre infiammato il dibattito politico, fu così già all’Assemblea Costituente, dove al disegno regionalista di Gaspare Ambrosini vi fu l’opposizione di Nitti, Togliatti, Nenni e Croce.
Da lì la discussione sulle Regioni ha vissuto profonde evoluzioni che hanno dapprima portato ai decreti Bassanini e poi alla revisione del Titolo V.
Proprio da questa riforma il tema dell’autonomia – già posto dai predetti decreti – assunse una notoria importanza, fin ad arrivare ai due referendum del 2017 di Veneto e Lombardia, poi seguiti dall’approvazione dei patti preliminari con l’allora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni nel febbraio 2018, poi portati avanti dal governo giallo-verde e ora in mano al Conte bis.
A Veneto e Lombardia, si è poi unita anche l’Emilia-Romagna.
Gianluca Viesti l’ha definita la “secessione dei ricchi”, attraverso un esplicito riferimento al fatto che in queste tre Regioni si concentra il 50% del PIL italiano, quindi l’attuazione della possibilità prevista dalla Costituzione provocherebbe una separazione de facto della Repubblica, non più unica e indivisibile, ma divisa in “mini-stati federali ricchi” e regioni povere.
Inoltre, attraverso una minor ripartizione delle risorse si verificherebbero una lezione ai principi di solidarietà (ex art. 2 Cost.) e di uguaglianza (ex art. 3 Cost.) provocando una differenziazione dell’erogazione dei servizi, poiché un cittadino che vive al Sud riceverebbe una prestazione inferiore rispetto ad uno del Nord; inoltre le mancate entrate derivanti dalle trattenute del gettito fiscale delle regioni “autonomiste”, farebbe si che gli amministratori per far fronte alle ulteriori mancanze economiche svendano i beni pubblici, arrecando un ulteriore danno alla cittadinanza.
Oltretutto, la procedura attualmente in esame vede, ex post, l’approvazione dei livelli essenziali di assistenza e non ante, come dovrebbe essere, visto che si tratta di determinare la qualità dell’erogazione dei servizi legati ai diritti fondamentali dell’individuo, come ad esempio la sanità, dove abbiamo visto che la ripartizione regionalista è fallita.
Anziché avviare un federalismo mascherato, sarebbe ora di aprire un dibattito sull’utilità o meno delle Regioni, ridisegnando il Titolo V, inserendo di nuovo la clausola di salvaguardia nazionale e ricostituendo la Cassa Pubblica del Mezzogiorno, ma soprattutto approvando i LEP (livelli essenziali di prestazioni), cosicché nessun cittadino sarà lasciato mai più indietro.