Sviluppo del territorio e falsi nuovi miti: ci può essere un post-Covid senza pre-Covid?

Il recente dibattito sul futuro dei territori nell’era post-Covid sembra essere entrato nel vivo con il piede sbagliato. Da molti ambienti, sia essi specialistici sia quelli più alla portata di tutti, non si fa altro che parlare e riflettere sulle conseguenze spaziali della pandemia. Abbiamo assistito ad una serie di osservazioni, fatte spesso a caldo purtroppo, che hanno cancellato in pochi attimi decenni di studi e riflessioni in merito. Esperti ed opinion leader hanno puntato il dito contro l’attuale organizzazione spaziale italiana – come se ce ne fosse una unica e indissolubile capace di rappresentare tutto il contesto nazionale – quale ragione principale dell’espandersi della pandemia. A loro dire, l’eccessiva concentrazione di persone in determinate aree del paese ha determinato un incremento incontrollato del contagio asserendo quindi, che la soluzione fosse quella di accantonare tale modello di organizzazione spaziale preferendo un modello diffuso dove la distanza tra le persone possa essere garantita nel rispetto del distanziamento fisico. Per molti quindi, la prospettiva che ogni abitante possa contare sull’iconografica e novecentesca villa con giardino rappresentata quale ultimo baluardo alla pandemia, offre un’occasione abbastanza chiara e allettante anche dal punto di vista economico, conoscendo bene i meccanismi di rendita edilizia che si profilerebbero in presenza di nuova urbanizzazione.  

Ciò che però spesso essi si dimenticano di considera è l’importanza: dei dati, delle preferenze dei cittadini e della volontà politica. Sebbene l’apparentemente inconfutabile associazione ‘densità abitativa/maggiore contagio’ non lasci spazio a ulteriori considerazioni, ricercatori di tutto il mondo invece stanno dimostrando come sia vero il contrario.

In breve, le principali ricerche in merito sottolineano come all’alta densità di popolazione corrisponda anche una maggiore densità di servizi di qualità (assistenza sanitaria, in questo caso); una migliore e più rapida organizzazione capillare dei pronti intervento; un più efficace presidio territoriale a parità di unità di forze dell’ordine ecc. Inoltre, quello che i dati dimostrano è che a contribuire maggiormente all’incremento del contagio non è la densità di abitanti quanto invece la densità di relazioni.

Osservando il contesto italiano, infatti, è indubbio che a soffrire maggiormente del Covid19 siano stati i piccoli e piccolissimi comuni situati nella prima cintura produttiva delle grandi agglomerazioni urbane più esposte al pendolarismo rispetto al cittadino milanese o romano che vive in centro, per esempio. Ma questo tuttavia non basta a dimostrare fino in fondo le ragioni del contagio se non consideriamo che sono proprio quei territori emarginati ma allo stesso tempo sovra-sfruttati che hanno sofferto maggiormente dei tagli sistematici operati alla sanità negli ultimi decenni. Quando si parla di fuga verso le campagne ci si dimentica sempre di ricordare in quale stato versino le campagne o le aree periferiche italiane che sono stati oggetto di tagli sistematici, indiscriminati e strutturali da almeno quarant’anni. In sostanza e per assurdo, quelli che sostengono un ritorno alla campagna stanno esattamente sostenendo e promuovendo come risolutoria quella modalità di organizzazione territoriale che ha già ampiamente dimostrato di essere più esposta e quindi più fragile nell’eventualità di una nuova pandemia.    

Come si diceva, i fautori del ritorno alla campagna a tutti i costi non fanno i conti con le preferenze e le priorità dei cittadini. Esistono una serie di analisi e ricerche in merito – non ultima quella condotta dall’associazione Khora Lab di cui chi vi scrive è vice-presidente e co-curatore del rapporto – che dimostrano come invece i cittadini abbiano chiaro quali siano le loro esigenze. In particolare sottolineano come, diversamente da quanto recentemente veicolato, per loro sia essenziale ripensare la città in una ottica di maggiore senso comune aumentando i servizi di prossimità, integrando il sistema di trasporto pubblico amico dell’ambiente con una rete di servizi pubblici sia all’aperto sia al chiuso; tutelando e garantendo l’accesso agli spazi pubblici per tutti ecc. Tuttavia, lo sviluppo delle aree urbane non viene visto in maniera dicotomica rispetto al resto, ma in un’ottica integrata, valutando positivamente, il recupero delle aree rurali, dei borghi e dei centri storici con l’obiettivo di non consumare ulteriore suolo. Ovviamente dall’altro canto, il periodo di isolamento ha portato a galla questioni decennali quali la qualità degli immobili, l’abitabilità degli spazi domestici, i servizi di prossimità, la relazione lavoro-casa nell’era digitale, il senso di comunità e la ricerca di nuovi significati anche antropologici e politici dello spazio pubblico. Tutte domande e considerazioni che, sebbene non definitive, dovrebbero far riflettere sia gli esperti sia i decisori politici.

Infine, è importante chiedersi se e che ruolo debba ricoprire la volontà e l’azione politica nell’Era post-Covid19 in merito alle politiche territoriali, ed in particolare, a quello che interessano l’organizzazione spaziale. È innegabile che questo periodo storico richiami la politica al suo ruolo originario e più alto, responsabilizzando gli attuali interpreti più di quanto mai fatto in passato. In tal senso, abbiamo avuto modo di leggere su Immagina l’intervento dell’architetto Fabio Poggioli, in cui si sostiene che “L’organizzazione spaziale è l’esito di un rapporto dialettico e ogni atto di pianificazione è politico, e per farlo serve il supporto della disciplina urbanistica”: nulla di più vero sebbene troppo spesso disatteso. Non sfugge certamente al lettore che ad oggi, molte decisioni politiche sono anticipate da una proliferazione di strutture semi-decisionali (task force) o commissariali dietro alle quali si annida l’incapacità di prendere delle decisioni politiche di lungo periodo. Ad onore del vero, non è esente da responsabilità neanche la dimensione tecnica del governo del territorio che pare aver perso il senso del ruolo che ricopre disconoscendo implicitamente o esplicitamente la dimensione politica nel suo agire. In questo senso, indubbiamente serve un cambio di passo sia in termini di responsabilità politica che tecnica verso una maggiore integrazione dei due saperi mantenendo ben chiaro, nel contempo, quali siano invece i loro ruoli di fronte alle trasformazioni.

In sunto, governare il territorio implica decidere di trasformalo oppure no.  In entrambi i casi la decisione non è mai neutra ma implica scelte che possono produrre effetti di lungo periodo. Ecco perché la volontà politica non basta ma deve essere accompagnata da una azione costante e duratura nel tempo diventando così l’unica alternativa all’immobilismo e nel peggiore dei casi, ad una trasformazione insostenibile del territorio. In questo senso, un recente lavoro pubblicato da ricercatori internazionali con il titolo “Which Future for Cities After Covid 19” individuano alcune linee guida per una buona integrazione tra decision e policy makers quali: un maggiore coinvolgimento integrali degli attori nel processo decisionale (istituzioni, ricerca, investitori e società civile) e l’introduzione di modelli di governance integrati ed efficaci tra i diversi livelli territoriali. 

Infine, tornando alla domanda se possa esserci post-Covid senza pre-Covid, ovviamente la risposta è no – fortunatamente. L’illusione di fare tabula rasa e ripartire da zero è bene che rimanga tale finché non ci sarà una piena consapevolezza delle trasformazioni indotte dalla pandemia. È inequivocabilmente vero però, che la pandemia ha reso evidente ciò che molti, ma purtroppo non abbastanza, sostenevano da tempo e cioè che non siamo soli in questo pianeta e le risorse sono finite. Preso coscienza di questo, ora serve una nuova stagione dove far ammenda degli errori commessi e prendere le misure con la realtà post-Covid19 ma, soprattutto identificare pochi ma chiari obiettivi che possano intercettare le esigenze delle prossime generazioni, coscienti, tuttavia, che qualsiasi decisione sarà presa avrà ripercussioni sul territorio, che di volta in volta andranno valutate attentamente.

In tal senso, il ruolo del pubblico non può che essere centrale con uno sguardo interessato alle esperienze più efficaci nella tutela ed uso del territorio. Dall’altro lato, la tecnica deve contribuire a non cadere e smascherare quelle soluzioni facili che spesso nascondo e/o offrono spiegazioni parziali a problemi complessi.   


Erblin Berisha, Assegnista Post-Doc presso il Politecnico di Torino   

https://www.khoralaboratory.eu/wpcontent/uploads/2020/07/Report_Territorio-e-SARS_Khoralab.pdf