Siamo tanti e siamo affamati
È stato un pipistrello a fermare la globalizzazione?
Il virus che ha sconvolto il mondo, tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera 2020, ha infranto l’idea di un procedere scontato della storia per come l’abbiamo conosciuta in questi anni a cavallo dei due secoli, dal crollo del Muro di Berlino passando per le stragi dell’11 settembre per mano del fanatismo religioso islamico.
Al di là della provocazione, il pipistrello c’entra ben poco. È l’uomo al centro di questo profondo mutamento.
Il fatto che, a quanto è dato sapere oggi, tutto si sia probabilmente scatenato a partire da un wet market1 di Wuhan in Cina, dove si vendono animali selvatici spesso vivi, ci pone immediatamente la questione delle responsabilità umane nei comportamenti e del nostro rapporto con la natura.
«Il Covid-19 rispecchia ciò che le persone stanno facendo al pianeta» ha detto David Quammen, scrittore e divulgatore scientifico, autore di Spillover, un libro che nei fatti ha incredibilmente anticipato molto di quello che abbiamo purtroppo vissuto.
Certo, non si può sottacere che «ciò che stiamo facendo al pianeta» sia legato alla necessità di sfamare una popolazione mondiale oggi pari a circa 7,5 miliardi di persone e, peraltro, in continua crescita. Ma è altrettanto innegabile che il drammatico sfruttamento della natura per mano dell’uomo stia alla base della catastrofe del virus. E il cibo ne sia l’epicentro.
Un pipistrello, un pangolino, l’uomo, la pandemia. Questa è la sequenza essenziale. E i mercati alimentari sono gli anelli fondamentali di questa catena. L’illegalità diffusa in tante di queste realtà, dove animali selvatici vengono venduti per il consumo umano, è il gigantesco problema che si è aperto, non solo nel Paese della Grande Muraglia.
In Asia come in Africa o in Sud America questi mercati sono molto diffusi e soddisfano anche concrete esigenze alimentari di vasti strati della popolazione. Il punto è che migliaia e migliaia di animali vivi, agonizzanti e chiusi in gabbie, vengono commercializzati in condizioni estreme e dunque la possibilità di sviluppare virus letali è fortissima e la loro trasmissione da un pipistrello a un pangolino e infine all’uomo è più facile di quanto si creda, a partire dai momenti in cui si entra in contatto con quegli animali proprio al mercato.
Si tratta di un giro d’affari incredibile e per nulla nuovo, dato che anche l’epidemia di SARS2 del 2002 ebbe inizio proprio in uno di questi mercati. Un pangolino, catturato in Nigeria e venduto in Cina, può costare come un’auto nuova. «Parliamo del quarto mercato illegale del mondo che vale fino a 280 miliardi di dollari all’anno» sostiene Andrea Crosta di Earth League International,3 che da anni si batte contro i crimini ambientali.
Dunque, noi ci affanniamo a discutere di intelligenza artificiale e dell’ultima generazione di tecnologie per i nostri cellulari, ma abbiamo ancora su questa terra vere e proprie bombe a orologeria come i wet market.
«La nostra specie è senza precedenti. Siamo tanti e siamo affamati. Ogni nostra decisione su cosa mangiamo mette pressione sul pianeta in tanti modi e questo riguarda tutti» ci ricorda ancora Quammen.
«Siamo come in guerra» è l’affermazione ricorrente che abbiamo sentito. In pochi giorni, la pandemia globale ha costretto tutte le nazioni del mondo a misure senza precedenti. Ha bloccato tutto e tutti: persone e merci, scuole e imprese, aerei, treni, navi, macchine, ciclisti e pedoni. Ha fermato le grandi multinazionali come l’artigiano, l’operaio come il magnate miliardario. La manifattura, il commercio, i servizi. Il lavoro agricolo. I pescatori.
Tutti. Anche se non allo stesso modo. Perché il virus non è per nulla democratico. E d’altronde sarebbe assurdo pretendere dalla natura l’applicazione di questo principio politico. Colpisce chiunque, certo, ma allarga le faglie tra i deboli e i forti della società, situazione di partenza che invece dipende dalla politica. Attacca maggiormente le generazioni più anziane e socialmente più fragili. Infatti, espone prima di tutto chi non ha mezzi di spostamento privati, e mette maggiormente a rischio una cassiera del supermercato, il cameriere di un ristorante, la commessa di un negozio o l’autista di un mezzo pubblico. E fa esplodere le differenze anche a casa, dato che stare per due mesi in una villa con giardino non è come essere costretti a rinchiudersi per lo stesso tempo in una casa popolare da pochi metri quadrati.
Sono stati presi provvedimenti senza precedenti contro un nemico invisibile che attaccando i nostri polmoni ha costretto il mondo intero all’isolamento.
Parole finora sconosciute a diverse generazioni, compresa la mia, sono entrate nel lessico di ogni giorno: quarantena, virus, infetto, immune, sintomatico, asintomatico, tampone, test, lockdown e così via. Si è scritto un vocabolario nuovo di emergenza per milioni di persone. E si sono affermati, nella dura realtà, modelli di vita diversi, mai vissuti. Con l’ingresso sulla scena di regole di distanziamento sociale e di differenziazioni nei comportamenti quotidiani a seconda delle età e dei territori in cui si vive.
Uno sconvolgimento che ha svelato l’importanza dell’utilizzo e della fruibilità massiva delle tecnologie e dell’innovazione: milioni di persone hanno scaricato per la prima volta app digitali per poter vedere parenti e amici almeno in video.
Un cambio d’epoca che, volenti o meno, ci ha fatto scalare anche le classifiche del lavoro agile, ridisegnando tempi e spazi della vita quotidiana, a casa e non solo. Ma una situazione dove abbiamo anche toccato con mano il nuovo fronte dell’ineguaglianza legata al divario digitale tra i territori e le famiglie, con ragazzi sempre connessi alla rete Wi-Fi e il notebook a disposizione, e altri invece senza mezzi, costretti a cercare di fare lezione usando il cellulare dei genitori e ricaricando una scheda telefonica.
Dall’oro nero al succo d’arancia
Siamo entrati, di colpo, nell’era dell’economia della distanza pur essendo in un mondo iperglobalizzato.
La pandemia ha portato l’economia in una crisi che non ha paragoni. Per la prima volta nella storia, le quotazioni del petrolio sono scese nella primavera del 2020 sotto lo zero, precipitando a 37 dollari. Le compagnie hanno pagato per disfarsene, dato che le aree di stoccaggio erano ormai piene e nessuno sapeva più dove stivarlo.
Lo sconvolgimento del valore delle materie prime è stato forte e ha cambiato la domanda e l’offerta globale di cibo. A un certo momento, nella primavera 2020, è stato calcolato che il valore di un litro di succo d’arancia sia stato di ben trenta volte superiore al valore di un litro di petrolio.
Sul mercato delle commodities4 uno strumento molto usato sono i futures,5 contratti attraverso i quali ci si impegna ad acquistare o a vendere una certa quantità di un bene entro una certa scadenza. Ebbene, proprio i futures con scadenza maggio 2020 venivano scambiati a circa 14 dollari al barile, unità convenzionale delle negoziazioni sul greggio (circa 159 litri). E nella primavera 2020 un litro (ipotetico) di petrolio costava meno di 8 centesimi. I prezzi del succo d’arancia, invece, sono trattati come prodotti congelati e concentrati. Sul mercato un future di succo d’arancia con scadenza maggio 2020 valeva circa 1,05 dollari alla libbra (equivalente di 0,45 chilogrammi circa). Usando genericamente l’equazione tra un chilogrammo e un litro, un litro di succo d’arancia verrebbe scambiato a 2,3 dollari. Trenta volte l’equivalente di un litro di petrolio. L’oro nero valutato meno di una bottiglia d’acqua. L’emergenza l’ha mandato a picco: meno auto per le strade, meno trasporto pubblico, meno consumi di energia e di combustibile. Un altro mondo.
Secondo il Fondo monetario internazionale, in tutto il 2020 sarà bruciato il 4,9% del PIL mondiale.6 Stiamo parlando di 9000 miliardi di dollari. In un solo anno. Più della somma delle economie di Giappone e Germania messe insieme.
Si tratta della prima vera crisi di carattere planetario, con ricadute in tutti i Paesi, grandi e piccoli, ricchi o poveri, globalizzati o meno. Una crisi che ha incrociato, come mai era accaduto, emergenza sanitaria ed emergenza economica e che rende più complicato anche pensare le possibili e necessarie vie di ripresa. Ci troviamo di fronte a un conflitto senza precedenti tra lavoro e salute. E i protagonisti assoluti sono l’uomo e il suo senso del limite.
È una crisi che ha sconvolto tutti i settori, dalla finanza alla manifattura, dal commercio alle materie prime, stravolgendo intere catene di approvvigionamento. Certamente anche quelle del cibo.
È la geopolitica agricola e alimentare nella sua totalità a uscirne profondamente mutata, dimostrando che si può correre il rischio di una crisi alimentare anche con raccolti abbondanti e ampie riserve. Perché il connubio tra restrizioni protezionistiche, interruzione dei trasporti e turbolenze dei prezzi può essere micidiale.
Si stima che 3 miliardi di persone nel mondo saranno a maggior rischio povertà nel prossimo periodo. Sono numeri che rendono l’idea di come il diritto al cibo e alla sicurezza alimentare sia un’emergenza nell’emergenza.
Conflitti, crisi climatica e pandemia rischiano di essere in tante aree del pianeta un trittico devastante e fonte di catastrofi umane e alimentari. «Siamo a un passo da una pandemia di fame» ha detto David Beasley, direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale (PAM), in una drammatica testimonianza al Consiglio di Sicurezza dell’ONU nell’aprile 2020. Nel giro di poco tempo si potrebbe passare da 135 milioni a oltre 250 milioni di persone a rischio fame a causa della crisi.
Per l’emergenza alimentare il Covid è stato un pauroso acceleratore. Già prima della pandemia il 2020 sarebbe stato l’anno peggiore dai tempi della seconda guerra mondia le per le crisi umanitarie. Le guerre in Siria e in Sud Sudan, in Burkina Faso e nella regione del Sahel, l’invasione di locuste in Africa, la crisi in Libano, le emergenze in Congo ed Etiopia. Una lunga lista di criticità aggravate drammaticamente dal virus.
Una vera e propria nuova guerra asimmetrica, ibrida rispetto alle altre, ma più subdola e micidiale. «È una tempesta perfetta che si può fermare solo se si sostiene subito con almeno 2 miliardi di dollari la tenuta delle catene di approvvigionamento nelle realtà più esposte» ammonisce sempre il direttore del PAM.
Anche in Italia abbiamo vissuto una situazione delicata: il blocco delle attività ha aumentato i costi della spesa alimentare per le famiglie, e al tempo stesso troppe persone sono entrate in difficoltà e hanno avuto bisogno di essere sostenute per sfamarsi.
Parliamo di migliaia di famiglie che senza questa emergenza non avevano mai avuto bisogno di sostegni di prima necessità per mangiare. I numeri emersi all’indomani del lancio del primo intervento del governo italiano a favore dell’assistenza alimentare, con lo stanziamento ai comuni di 400 milioni di euro dedicati a questo, fotografano concretamente uno scenario in cui, a entrare in difficoltà, sono state famiglie e persone monoreddito che prima della quarantena prolungata riuscivano, seppure a fatica, a reggere.
Un dato emblematico: nella mia città, Bergamo, quando il comune ha aperto i centralini per raccogliere le domande di aiuto alimentare, ben l’80% delle duemila telefonate ricevute proveniva da cittadini che non avevano mai usufruito prima dei servizi sociali dell’amministrazione pubblica.
Nella penisola il virus ha messo in crisi filiere agroalimentari importanti come il settore ittico, parte di quello lattiero-caseario e zootecnico, le raccolte di frutta e verdura, gli agriturismi. Ha «congelato» i mercati anche delle nostre produzioni simbolo come il vino.
Sono stati necessari supporti immediati, per agricoltori, allevatori e pescatori, al reddito e alla liquidità, usando anche le risorse disponibili nella Politica agricola europea con pagamenti diretti alle aziende, per sviluppare azioni per una gestione migliore dei magazzini e degli stoccaggi, evitando di sprecare produzioni impossibili da immettere sul mercato e attivando piani straordinari per la promozione e la tutela delle produzioni di qualità.
L’Organizzazione mondiale del commercio (World Trade Organization, WTO) ha stimato una riduzione fino al 32% degli scambi nel 2020. Un altro mondo. Paesi come la Giordania hanno chiuso le loro esportazioni per la preoccupazione di dover gestire pesanti tensioni sociali interne, memori delle rivolte per il pane che diedero avvio alle Primavere arabe.
Russia e Kazakistan hanno ridotto le esportazioni di grano facendo schizzare i prezzi del 10%. Anche il riso, l’alimento più importante del pianeta, ha subito restrizioni da parte di Cina, Vietnam e India.
Abbiamo avuto un assaggio di quello che potrebbe essere il mondo dei porti chiusi, anche in uscita.
Tutto ciò deve imporre una nuova strategia per il modello agroalimentare. In particolare, per l’Europa e per l’Italia. Siamo un Paese trasformatore ed esportatore e non possiamo farci cogliere impreparati, come cercheremo di dire nelle pagine di questo libro. Da una parte, un modello molto orientato alle esportazioni come il nostro può rischiare di non essere pienamente resiliente. Dall’altra, sarebbe miope rifugiarsi nel ritorno a teorie autarchiche per un Paese con le nostre vocazioni e con 60 milioni di abitanti. Ma questo non significa affatto non porsi il sacrosanto problema di come essere più autosufficienti su materie prime essenziali. In particolare, su alcune produzioni come grano, soia, latte, carni. L’Italia importa ogni anno 5 miliardi di euro di cereali, 6,5 miliardi di carni e animali, 6 miliardi di prodotti ittici, 3,3 miliardi di oli, quasi 1 miliardo di latte.
Bisognerà incrementare il più possibile l’organizzazione dell’offerta agricola nazionale insistendo su strumenti come le filiere e i progetti cooperativi per avere massa critica. Tornerà di grande attualità lo spirito mutualistico che ha percorso la storia del nostro Paese facendolo grande e che ha una delle sue radici essenziali proprio nel lavoro della terra.
Il rapporto stesso tra persone e cibo prenderà nuove vie: muterà il tempo a disposizione per scegliere un prodotto dallo scaffale di un negozio ed è prevedibile che assisteremo rapidamente a processi di concentrazione e semplificazione dell’offerta da parte dell’industria alimentare di trasformazione prima di tutto.
Aumenterà la preferenza per prodotti conservati rispetto ai freschi, aumenterà il commercio online, le vendite assistite al banco si potrebbero ridurre a vantaggio dei prodotti confezionati.
Pensate a questo dato. Nei primi tre mesi del 2020 il numero degli acquirenti attivi online è cresciuto del 40%, i ricavi online del 20%, il traffico digitale è aumentato del 16% e la spesa media del 4%. Si stima che, dopo la pandemia, negli USA la percentuale di acquisti in e-commerce rimarrà attorno al 10%. In Cina le vendite sono cresciute del 6% nei primi tre mesi dell’anno e a febbraio 2020 ben 30.000 negozi al dettaglio hanno iniziato a vendere su Taobao, la più importante piattaforma di commercio online sotto la Grande Muraglia.
In Italia i passi in avanti sono stati ancora più netti. Tra il 23 e il 29 marzo 2020, nel pieno dell’emergenza, le vendite online sono aumentate del 162% rispetto all’anno scorso, anche se da noi il mercato e-commerce alimentare nel complesso è ancora fermo all’1,4%, a fronte di una media europea tra il 4 e l’8%. In questo quadro, il nostro tradizionale punto di forza nel sistema delle produzioni di origine certificata come le DOP e le IG, di cui siamo leader indiscussi, andrà supportato prima di tutto nel mercato nazionale.
Dunque dovremo lavorare molto per avere più organizzazione dell’offerta agricola nazionale, investimenti sul sistema delle qualità a partire dal mercato interno, tracciabilità e massima valorizzazione del requisito essenziale della sicurezza delle produzioni.
Proprio i temi della food safety, ovvero della sicurezza sanitaria e della salubrità di ciò che mangiamo ogni giorno, assumeranno sempre più centralità, inevitabilmente integrati ai temi della massima informazione possibile al consumatore, alla tracciabilità integrale dei prodotti, alla certificazione dell’origine di tutte le materie prime lavorate. L’innovazione digitale e il balzo tecnologico anche da questo punto di vista saranno forti.
Nuovi strumenti per tempi insoliti
Quando l’Italia ha avviato le misure antivirus a fine febbraio 2020, alcuni Stati europei hanno chiuso le frontiere impedendo le esportazioni e chiedendo folli certificazioni antivirus. Si è trattato di uno dei livelli più bassi della storia europea recente. Ma questi episodi hanno svelato chiaramente una fragilità profonda di tutto il sistema alimentare europeo.
Sarà decisivo passare dalla vecchia politica agricola a una nuova strategia agricola e alimentare, che assicuri piena sostenibilità, un’equa distribuzione del valore e la fine delle pratiche sleali ancora presenti. Solo così si potrà provare ad assicurare a tutti cibo sano, sicuro, sufficiente e sostenibile anche nelle crisi. Con l’Unione europea garante degli approvvigionamenti necessari, pronta a intervenire per assicurare gli spostamenti di merci e lavoratori.
Quello che è certo è che tra febbraio e maggio 2020 abbiamo toccato con mano l’insufficienza di due teorie. Quella dei «globalisti» e quella dei «sovranisti».
Entrambe queste categorie appaiono dannatamente insufficienti per trovare la giusta via di una ripresa economica e sociale che ci aiuti anche a realizzare un modello di sviluppo più equo, più giusto, più consapevole dei nostri limiti.
La realtà, come sempre, si è incaricata di dimostrare che le questioni sono molto più complesse di certa propaganda. Verrebbe da dire davvero che quando la propaganda incontra la realtà, diventa subito una bugia.
Compito di un sostenitore convinto delle relazioni aperte, cooperative e multilaterali, come chi scrive, deve essere quello di indagare, senza reticenze, i limiti e le debolezze della globalizzazione che abbiamo vissuto fino a qui per combattere derive nazionaliste e divisive che, al dunque, si rivelerebbero ancora più pericolose.
Comprendere l’evoluzione della geopolitica del cibo globale era dunque necessario prima della pandemia. Ma diventa ancora più indispensabile oggi, alla luce di ciò che è accaduto.
Perché le rotte del cibo sono e saranno sempre di più assi strategici decisivi in un mondo mutato rispetto a quello che stiamo vivendo. Bisogna porsi il tema del limite dell’uomo e trovare nuovi equilibri. Bisogna tornare a progettare idee per uno sviluppo condiviso, armonico, integralmente sostenibile. Uno sviluppo, appunto, a misura d’uomo.
Secondo Walter Scheidel, docente di storia a Stanford, nei grandi eventi traumatici come le guerre, il fallimento degli Stati, le rivoluzioni e le epidemie c’è un effetto inatteso: si riducono le disuguaglianze fra esseri umani. La sua teoria spiegata nel libro La grande livellatrice10 sembra offri- re una consolazione.
C’è davvero da augurarsi che sia così. Noi di certo non possiamo assistere inermi al corso della storia e aspettare che qualcun altro agisca per noi. Bisogna costruire una diversa prospettiva di sviluppo e mettere in discussione vecchi e nuovi tabù.
La globalizzazione con regole deboli ha mostrato tutti i suoi limiti, ma il mondo nuovo non potrà essere una riedizione degli egoismi e dei nazionalismi.
Il totem della neutralità dello Stato nel mercato sempre e comunque, l’esaltazione del mito del cittadino-consumatore come arbitro in qualsiasi condizione e il fanatismo della logica del prezzo come unico criterio di scelta vanno rivisti.
I fatti si sono incaricati di raccontarci un’altra verità, disvelandoci fra l’altro, come cercherò di dire più avanti, la profonda contraddizione esistente fra il punto di vista del consumatore e quello del lavoratore, sempre più spesso coincidenti nella medesima persona.
«Ci troviamo in una situazione senza precedenti e le regole normali non si applicano più. Non possiamo ricorrere ai soliti strumenti in tempi così insoliti» ha detto António Guterres, segretario generale dell’ONU, alla fine di marzo 2020 nel pieno dell’emergenza. Tradurre queste parole in azioni, a partire da come l’uomo sfama sè stesso, rappresenta una delle sfide cruciali di questo tempo.