Smart working: una rivoluzione da cui dipende il futuro delle aziende italiane

È possibile aumentare l’efficienza del lavoro con una modalità operativa che concili tempo libero, dislocazione e maggiore responsabilizzazione dei dipendenti?

A quanto pare sì. Ne hanno recentemente parlato due economisti della Banca d’Italia, Paolo Sestito e Roberto Torrini, mostrando che nei mesi del lockdown, in un Paese costretto ad un corso accelerato di tecnologia ed organizzazione digitale del lavoro, chi ha saputo progettare un vero smart working, nella manifattura come nei servizi, ha riportato un forte aumento di produttività.

Produttività che è cresciuta non con uno sfruttamento più intenso del lavoro, bensì con una nuova combinazione tra tecnologia, organizzazione e ritrovata centralità delle persone, che hanno modificato i propri stili di vita razionalizzando al meglio il tempo a loro disposizione.

Dalle prime indagini effettuate si possono estrarre già alcuni dati interessanti: in primis il fatto che un aumento di produttività nell’ordine del 15% è raggiungibile lavorando in modalità blended working, ovvero alternando la presenza fisica in ufficio con il lavoro in modalità “agile”.

Questo rende obsoleta la classica visione del lavoro strutturata in maniera gerarchica e basata sul controllo visivo dei dipendenti.

Lo smart working non è telelavoro, ovvero non si tratta di un mero spostamento presso il proprio domicilio delle mansioni lavorative svolte in ufficio. È un vero e proprio ripensamento dei compiti e dei ruoli che parte dalla responsabilizzazione e dall’autonomia dei dipendenti, finendo per concordare con loro risultati attesi e tempi di svolgimento delle varie attività.

Ovviamente, senza un buon management il lavoro in remoto diventa un processo di ‘cottimizzazione’ di massa, di controllo elettronico dei lavoratori anche all’interno dell’intimità della casa causando deprivazione e senso di oppressione. È quindi necessario che le classi dirigenti siano in grado di raccogliere questa sfida senza preconcetti e cercando di promuovere un dialogo costante con i dipendenti, facendoli sentire protagonisti di un progetto di crescita individuale e collettiva.

Non è finita qua. Il processo di lavoro va riorganizzato anche in modo radicale, sulla base di un’alternanza pianificata tra presenza e distanza. La richiesta ai collaboratori di essere sempre presenti fisicamente in azienda è una assicurazione contro l’incapacità dei capi di organizzare il lavoro.

Questo trend va ovviamente invertito, non è più consentita l’improvvisazione, è tempo di avviare una progettazione organizzativa che aumenti in maniera definitiva e permanente la produttività e l’efficacia del lavoro.

Un ruolo fondamentale può essere rappresentato dal training online: oltre il 60% delle imprese in Italia investe nella formazione del personale ed il dato è sicuramente destinato a salire. L’esperienza di questi mesi si deve trasformare in un grande reskilling del personale basato sulla capacità di integrare i processi di apprendimento sia in presenza che soprattutto a distanza, con i dipendenti sempre più attori diretti nella co-definizione degli interventi e nella scelta delle strategie di crescita sia individuale che collettiva.

Le tecnologie digitali, come già detto in precedenza, danno enormi risultati solo se i lavoratori sono coinvolti, formati e responsabilizzati a condizione, però, di dare spazio alla contrattazione decentrata, per territorio e per azienda. Per semplificare, il livello territoriale servirà per coordinare i ritmi delle aziende con i servizi pubblici, le scuole e gli asili, l’alta formazione, i trasporti. Il livello aziendale per ridisegnare i processi interni. Ci sarà bisogno di minore burocrazia e di condizioni favorevoli per stipulare nuovi contratti di lavoro.

Lo smart working va, quindi, ripensato: non è mero telelavoro, è una rivoluzione del modo di intendere il concetto di lavoro stesso. Serve un cambiamento di filosofia organizzativa e di gestione ispirato ad autonomia, fiducia, responsabilizzazione, dialogo. Una transizione che va monitorata e indirizzata attraverso un processo pluralistico e partecipato valorizzando i corpi intermedi più coraggiosi: associazioni d’impresa, sindacati, fondi interprofessionali, università, scuole di formazione, società di consulenza.

Si innescherebbe un circolo virtuoso che porterebbe, nel lungo termine, anche ad una riduzione degli spostamenti dovuti al lavoro con grossi benefici in termini di eco-sostenibilità.

C’è,  infine,  un ultimo fattore da tenere in considerazione: se il male del futuro, come ci dicono gli esperti, saranno le epidemie virali, questa idea consentirà di antropizzare in maniera più diffusa il territorio abbassando le concentrazioni di gente nelle grandi città, diminuendo il rischio di contagi.

Credo, in sintesi, che dalla corretta applicazione e disciplina dello smart working dipenda il futuro delle aziende italiane. Nella storia, ogni realtà  che  non ha saputo cogliere i mutamenti sociali in atto predisponendo le misure per rispondere ai cambiamenti, col tempo, ha finito per scomparire.