“Il virus ha accelerato un cambiamento inevitabile: sta a noi dargli un segno progressista”. Parla Giorgia Serughetti

Tutto il mondo è rimasto con il fiato sospeso in attesa dell’ufficialità delle elezioni del nuovo Presidente degli Stati Uniti. Tutti consapevoli di trovarci di fronte ad un passaggio epocale: non si trattava solo di scegliere quale Presidente avrebbe guidato gli Usa ma anche che quale tipo di democrazia, quale modello di sviluppo e priorità dare al nostro futuro. Ne abbiamo parlato con Giorgia Serughetti, Ricercatrice in filosofia politica all’Università di Milano-Bicocca.

L’era Trump è finalmente archiviata ma non il trumpismo: il lavoro duro comincia adesso…

Sicuramente c’è stata una risposta importante dei democratici, che sono riusciti a mobilitare più che in passato. Adesso il loro compito è quello di ascoltare la società, tutte quelle componenti che si sono mobilitate per ostacolare la presidenza Trump. Ma bisogna anche essere consapevoli che l’incremento del numero assoluto di voti per Trump e l’incertezza fino all’ultimo dimostrano che dovremo fare a lungo ancora i conti con il trumpismo. La sua presidenza non è stata un errore passeggero: Trump lascia un’America profondamente divisa e una cultura innervata di suprematismo e machismo. Il suo progetto politico si è fatto portavoce delle pretese di una parte della popolazione – uomini bianchi e della classe media – che si sentono defraudati dei propri diritti a causa dell’avanzare delle minoranze e delle donne. E queste pretese non scompariranno con Trump.

La sinistra ha sottovalutato la forza di Trump nel cambiare la narrazione del Paese?

Non sono portata a pensare che le colpe siano da trovare solo all’interno della sinistra, come qualcuno ci vuole far credere. Penso ai liberal americani che accusano i democratici di aver smarrito la capacità di parlare ad una parte importante del suo elettorato, la working class, in un’ottica di bene comune, per andar dietro ai movimenti. Cioè non credo che l’errore della sinistra sia quello di essersi persa dietro alle esigenze delle minoranze e all’’identity politcs’. Io credo che si debba uscire da questo modo di impostare il dibattito: ci deve essere la possibilità di far coesistere le sacrosante battaglie delle minoranze oppresse con uno sguardo lungo su tutte le disuguaglianze. Bisogna tenere stretto il nesso tra diritti civili e sociali. Non è vincente un progetto politico progressista che non tenga insieme la ridistribuzione e il riconoscimento dei diritti.

Come siamo arrivati a questo punto? Come si è arrivati alla polarizzazione così brutale?

Il problema è da ricercare nella devastazione del tessuto sociale che è stata compiuta dal neoliberismo. Se c’è un errore della sinistra è piuttosto quello di aver ceduto su questo terreno. I populismi vanno letti in questo quadro di distruzione delle basi sociali delle partecipazione politica e della appartenenza sociale. Quello che fanno i leader populisti non è richiamare ad un senso del collettivo ma mobilitare parte della società, soltanto la parte a loro più affine per ideologia o interessi, e proclamarla come ‘popolo’ autentico, proclamando al contempo se stessi come gli unici in grado di dare risposte a questo popolo. In questa netta divisione, tutti gli altri, quelli che non la pensano come loro, sono nemici: lo sono quelli che vengono definite élite, ma anche quelli che sono ‘fuori dal popolo’, cioè gli immigrati. Ma non solo: anche i movimenti che possono minacciare le gerarchie sociali, per esempio di genere, sono un pericolo da stigmatizzare. Da cui l’avversione al femminismo.

Come e quanto ha influito la pandemia su questi processi di polarizzazione?

E’ stato abbastanza controverso l’effetto: da una parte sicuramente ha accelerato i processi. Pensiamo ai paesi dell’Est Europa: in Ungheria o in Polonia la pandemia è stata colta dai leader e partiti di governo come una possibilità per aumentare i poteri dell’esecutivo e attuare un piano già in atto di tipo illiberale. Per esempio una delle prima cose che ha fatto Orban è stata far passare un disegno di legge per impedire a chi cambia sesso la registrazione del nuovo genere sui documenti di identità. Cosa c’entra con l’emergenza sanitaria? Assolutamente niente: i poteri eccezionali sono stati sfruttati per imporre parti della propria agenda. La stessa cosa è successa in Polonia, con il colpo di mano del governo sull’aborto, fortunatamente in parte rientrato dopo le proteste di massa. Ma la realtà è che il virus ha anche messo alla prova i populismi. Sia Trump che Bolsonaro, per esempio, hanno dimostrato di non essere in grado di sconfiggere il virus nei termini del proprio progetto politico. Lo abbiamo pensato anche in Italia che siamo stati fortunati a non avere Salvini a gestire l’emergenza, proprio perché sappiamo che un certo tipo di politica muscolare, di forte polarizzazione e di risposta semplificata a problemi complessi, non può funzionare e non funziona.

Il Coronavirus sconfiggerà il populismo?

Il virus esige di costruire una forma di legame sociale e un senso di responsabilità collettiva, esattamente il contrario della narrazione populista che vuole invece polarizzare e creare antagonismi. Il virus non si sconfigge per decreto e non basta l’azione vigorosa di un leader; bisogna invece saper collaborare, affidarsi alla scienza, sopportare la frustrazione di un fenomeno che non è mai interamente nel nostro controllo, e rispondere invece alla frustrazione sociale, per evitare che si allarghi la forbice delle disuguaglianze. In estrema sintesi, il virus esige una politica che sia all’altezza della complessità e il populismo, per definizione, non è all’altezza.

Ci troviamo proprio nel mezzo della Storia. Dopo che l’emergenza sarà finita ci sarà un prima e un dopo diverso?

Sicuramente questo periodo ci ha insegnato molto. La crisi ha messo in luce e esasperato le criticità che già esistevano ma ci ha dato anche le direttrici su cui poter camminare in futuro. Tutta la retorica, ad esempio, sul servizio sanitario pubblico e il suo snellimento a favore del privato non può avere più posto nel dibattito politico. Ma non si potrà prescindere neanche dal ruolo della scuola, dalle protezioni per i lavoratori, dal welfare universale e dal protagonismo delle donne. Cose che sono ovvie ma che ci dicono chiaramente in quale direzione dobbiamo andare per avere un mondo più giusto. Se oggi la politica riuscirà a non alienarsi il consenso dell’opinione pubblica, mettendo in atto misure all’altezza dei problemi, allora la seconda fase, quella della ripartenza, potrà andare nel segno giusto. Se la politica invece, per difetti di gestione o a causa della profondità degli effetti della crisi, dovesse fallire, allora aprirebbe la strada alla possibilità di progetti di potere populisti o autoritari. Credo sia necessario esserne consapevoli per evitarlo. E’ esattamente sulla devastazione sociale che crescono i populismi. Un cambiamento è alle porte, ed è inevitabile. Sta a noi dargli un segno progressista, egualitario, inclusivo.