È accettabile che leader di regimi illiberali facciano parte dell’Unione europea? È accettabile che capi di Stato che disprezzano la divisione dei poteri, come in Polonia e Ungheria, dove la magistratura è serva dell’esecutivo, siano membri di una comunità politica i cui valori portanti sono la democrazia e il pluralismo? È accettabile che leader con chiara licenza dispotica decidano di soffocare l’attività del Parlamento con la scusa della pandemia, di discriminare chi non si allinea alle decisioni della maggioranza, di considerare ogni minoranza un fastidioso intralcio e le donne un gruppo di gradevoli reginette della casa da riporre al loro posto (in casa appunto)?
Solo questo basterebbe per cacciare l’Ungheria e la Polonia dall’Unione europea; e infatti la procedura di infrazione secondo l’art. 7 del Trattato dell’Unione è stata avviata da tempo e verrà a breve portata a compimento, se non fosse che l’eventuale espulsione, pure contemplata, richiede un voto all’unanimità da parte degli Stati Membri (e qui sta tutto il nostro fallimento come legislatori europei e tutta l’urgenza di modificare i Trattati).
Ma Orban e Morawiecki hanno voluto puntare ancora più alto, sfidare l’Unione laddove nessuno aveva osato arrivare e cioè mettere in discussione il rispetto dello stato di diritto, inserito come condizionalità per erogare i fondi del bilancio europeo e del Recovery fund. Il minimo sindacale che il Parlamento europeo ha chiesto, visto che Polonia e Ungheria ricevono ingenti quantità di finanziamenti da parte dell’Unione europea (rispettivamente 246 miliardi e 48 miliardi nello scorso bilancio pluriannuale, parti consistenti del loro PIL).
Per Orban e Morawiecki tutto questo è semplicemente troppo. Non vogliono intrusioni nelle loro regole interne, non vogliono che nessuno sguardo straniero si allunghi ad osservare se esiste ancora una parvenza di democrazia e se le loro regole sono congruenti con quelle di qualsiasi altro paese europeo; i soldi però li vogliono e subito! E hanno minacciato di bloccare la chiusura del bilancio settennale dell’Unione, il Recovery Fund e naturalmente la riforma delle risorse proprie, causando un terremoto, nel momento in cui i cittadini europei sono in ginocchio per una recessione a due cifre e combattono tra la malattia e in alcuni casi anche la morte.
Ed è sorprendente il silenzio assordante di soggetti come il Partito popolare europeo dove siede Berlusconi e dove siede ancora il partito nazionalista (Fidezs) di Orban, quello appunto dei veti sul bilancio, del filo spinato nei confronti dei migranti e delle leggi antidemocratiche contro giornalisti e media. Mentre Giorgia Meloni, a capo del partito dei Conservatori europei, è addirittura impegnata a difendere il PiS, il partito polacco di estrema destra e ipernazionalista che sta tenendo esso stesso bloccati in fondi per gli Italiani.
Il Parlamento europeo non intende mollare; l’Europa non eroga finanziamenti a mo’ di bancomat, non è un autobus su cui salire solo quando fa comodo: è uno straordinario processo di unificazione politica tra popoli che richiede il rispetto assoluto e rigoroso di valori fondamentali (democrazia, pluralismo, diritti, tolleranza, solidarietà).
Il prossimo 10-11 dicembre si riunirà ancora una volta il Consiglio europeo; e toccherà ancora una volta a Angela Merkel trovare un compromesso per sbloccare le risorse ed evitare che i governi europei perdano la faccia di fronte a tutto il mondo.
Noi d’altro canto come parlamentari europei dobbiamo però fare la nostra parte: chiedere con forza il rilancio della Conferenza sul futuro dell’Europa, per portare a casa almeno la limitazione della regola dell’unanimità in modo da ridurre il potere di veto di chi non potrebbe vietare proprio nulla e invece ricatta, blocca, minaccia, bluffa, gioca con la democrazia.
La democrazia è più forte di chi l’ha in dispregio e il bilancio può anche andare avanti senza Ungheria e Polonia; ma decidiamo una volta per tutte di non cadere più in uno stallo simile che mina alle fondamentale l’infrastruttura europea.