Vivere in un ambiente sostenibile è un diritto universale, serve un nuovo modello ecologista

Il 12 dicembre 2015 è stato approvato l’Accordo di Parigi, il primo accordo universale e giuridicamente vincolante sulla crisi climatica, che impegna gli Stati membri della Convenzione Quadro delle nazioni Unite sui cambiamenti climatici a mantenere l’aumento della temperatura globale “ben al di sotto di 2 °C e proseguendo l’azione volta a limitare tale aumento a 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali.” (articolo 2.1 dell’Accordo di Parigi).
Negli ultimi 150 anni il clima della Terra è cambiato in modo significativo a causa dei gas serra e della perdita di foreste e zone umide, conseguenze delle attività dell’uomo. 2 gradi è fissato come il confine ultimo e invalicabile per le politiche climatiche. Cifra che secondo il gruppo di scienziati dell’IPCC (Pannello Intergovernativo sul Cambiamento Climatico) porterebbe comunque sulla soglia di irreversibilità l’esistenza di molti equilibri naturali e ecosistemi terrestri. Perché, secondo gli scienziati, a livello naturale il clima è cambiato di massimo un grado centigrado nell’arco di 150 anni.
Ad oggi, secondo Climate Action Tracker, solo il Marocco e il Gambia hanno presentato degli INDC (Contributi Determinati a livello nazionale) in linea con il raggiungimento degli Accordi di Parigi.
Sicuramente la mancanza della leadership americana durante i quattro anni di presidenza Trump ha pesato nel processo di attuazione degli accordi, e la centralità che la campagna di Biden ed Harris hanno saputo dare a questo tema fa ben sperare.
In Italia, son ancora presenti i sussidi pubblici ai combustibili fossili, tra 17 e 19 miliardi all’anno secondo Legambiente e questi vanno sicuramente superati, come è più volte emerso anche nei lavori preparatori al progetto per il Next Generation EU.
Tuttora non esistono sanzioni per chi non rispetta gli accordi, e la loro riuscita è legata alla volontà politica di ciascun Paese.
Anche per questo, è particolarmente importante che questo tema sia centrale nel nuovo percorso dell’Unione Europea, nei piani di ripartenza post pandemia e nei progetti dell’Italia per quei piani.
Dobbiamo costruire un transizione equa. Una “Equalogica” che metta l’equità tra i Paesi, l’equità intergenerazionale e l’equità tra le fasce sociali ed economiche come elemento chiave del nuovo modello ecologista. E che sviluppi una “Panecologia” come risposta alla pandemia, che veda nel pensiero e nella azione transnazionale il cuore del processo. Gli egoismi nazionali, il sovranismo, le inuguaglianze sono elementi chiave e concause della crisi climatica ed ecologica.
Dobbiamo sempre di più affermare che è un diritto universale dell’uomo quello di vivere in un ambiente sostenibile. E che a pagare il prezzo più alto per la crisi climatica saranno sempre di più i Paesi in via di sviluppo, che hanno contribuito in maniera minore alle emissioni ma che soffrono del pesante sfruttamento delle risorse da parte dei Paesi più ricchi. L’Africa ad esempio è responsabile di meno del 4% delle emissioni globali di gas che impattano sui cambiamenti climatici, ma ben 27 dei 33 paesi più vulnerabili al mondo agli effetti negativi dei cambiamenti climatici si trovano proprio in Africa.
Nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite il contrasto alla crisi climatica passa attraverso il contrasto all’analfabetismo e alla povertà, e dall’epowerment femminile. Infatti, esiste una forte sinergia tra pensiero progressista, giustizia sociale ed ecologia.
In cinque anni, anche grazie alle mobilitazioni dei giovani a livello globale, è sicuramente cambiata la sensibilità su questi temi, portando miliardi di persone a sentirsi una piccola parte di un cambiamento molto più grande, e facendo sentire la propria voce ai leader globali.
È questo urgenza che ci fa dire sempre di più che la Politica di oggi e di domani o è ecologica o non è.