10 anni dalle Primavere arabe: che cosa è rimasto di quelle proteste?

Sono passati dieci anni dallo scoppio delle così dette Primavere Arabe e alla luce dell’attuale difficile situazione dei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, bisogna interrogarsi su quali siano stati i cambiamenti effettivi intercorsi nelle aree attraversate da quelli che, nel dicembre del 2010, sembrarono dei moderni moti rivoluzionari democratici e su cosa l’Italia e l’Europa dovrebbero fare per confrontarsi con il contesto odierno.

Il 17 dicembre 2010, Mohamed Bouazizi, un giovane commerciante tunisino, si suicidò dandosi pubblicamente fuoco a seguito dell’ennesimo sopruso subito da parte della Polizia; quel giorno in Tunisia scoppiarono proteste di piazza che si propagarono a tutti gli altri paesi arabi del Mediterraneo con una velocità incredibile, grazie ai social network che fecero da cassa di risonanza e permisero a tutti quei gruppi, che erano stati inizialmente solo anomici, di mettersi in contatto.

In quei momenti, gran parte dell’opinione pubblica occidentale sembrava concordare sul fatto che finalmente anche per i paesi arabo-musulmani stesse iniziando quel processo di democratizzazione sperimentato in Europa nel Novecento. Per quanto tutto ciò stesse cominciando in modo prorompente e violento, l’ottimismo – dovuto anche all’autonomia con cui questi processi stavano prendendo forma – prevalse tanto da far definire quel periodo storico incipiente “Primavere Arabe”. Quell’ottimismo però, nei pochi anni successivi, dovette lasciare il posto a una realtà ben diversa. Se in alcuni paesi come Marocco, Algeria, Tunisia e Giordania, le proteste rientrarono più o meno pacificamente, non si poté dire altrettanto di paesi come la Libia, lo Yemen e la Siria, governati da regimi più irreprensibili.

Senza dover ripercorrere nello specifico l’evolversi delle singole situazioni, è evidente quanto nei paesi sopra citati, le proteste abbiano generato solamente violenza, morte e distruzione.

Libia e Siria, esempi emblematici, sono diventati il terreno di scontro di fazioni locali ed esterne che hanno causato centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi e sfollati e a distanza di dieci anni, la Libia resta un paese diviso dalla guerra civile, mentre in Siria, Assad, dopo aver represso i ribelli prima e sconfitto l’ISIS poi, è rimasto saldamente al suo posto. In Yemen la guerra civile è andata avanti per anni, con enormi danni per la popolazione che ancora soffre la fame.

Viene da chiedersi quindi: perché quelle proteste, che sembravano muoversi verso la democratizzazione dei paesi arabo-musulmani, non hanno ottenuto l’effetto sperato? Perché in gran parte di quei paesi o si è ripristinata la situazione quo ante o si è avuta un’escalation senza sosta di violenza e distruzione che non ha portato a nessun effettivo miglioramento delle condizioni di vita?

Per poter abbattere un regime autoritario e sostituirlo con una Democrazia, non basta che scoppi una protesta di massa, c’è bisogno di molte altre premesse, come ad esempio: una base sociale solida, che poggia su fondamentali pilastri economici, politici e soprattutto culturali, un’informazione libera, una dialettica politica pacifica e costruttiva, il rispetto dei diritti umani e della parità di genere, la non-ingerenza dei gruppi di pressione/interesse come gli apparati religiosi o l’Esercito, le speranze in una prospettiva di miglioramento generale etc.; senza tutte queste premesse non ci sono le basi per lo sviluppo della Democrazia e quindi, qualunque protesta porterà a due soli scenari: una protesta perpetua (o guerra civile) oppure il ripristino delle condizioni precedenti (si veda il caso dell’Egitto). Chi credeva che sarebbe bastato tagliare la testa al tiranno di turno, così come gli Americani hanno abbattuto la statua di Saddam nel 2003 proclamando l’Iraq un paese libero e democratico, si sbagliava.

Quale potrebbe essere dunque la soluzione a un problema tanto grave, che per motivi anche solo geografici ci riguarda direttamente? L’azione coordinata dei paesi europei del Mediterraneo, che potrebbero sostenere le élite culturali ed economiche che credono nei valori della Democrazia (e possono diffonderli), permetterebbe non solo di avviare programmi economici di cooperazione, impedendo la depredazione da parte delle multinazionali straniere e dei signorotti locali, ma potrebbe anche favorire scambi culturali e permettere agli studenti di frequentare le università europee e viceversa, creando una sorta di programma Erasmus che abbracci indistintamente tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

Si potrebbe dunque pian piano stabilizzare la situazione dei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, portandovi la pace senza ricorrere alle armi. Solo così facendo potremmo mettere seriamente in pratica quel tanto reiterato – quanto sterile – leitmotiv del “aiutiamoli a casa loro”.

Tutto ciò andrebbe non solo a beneficio di quell’area e di quelle popolazioni, ma consentirebbe una gestione dei flussi migratori africani più sicura e esule dalla violenza e dai pericoli attuali; flussi che, è bene chiarire, sono naturali e inarrestabili, poiché da che mondo è mondo, le persone – così come le idee – si muovono, viaggiano e si spostano, per una serie infinita di motivi, ed è impossibile, ingiusto e anche inutile, cercare di fermarle o di impedirgli di arrivare. I paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo hanno oggi una responsabilità importantissima in questo processo e dovrebbero agire unitamente sotto l’egida di strutture sovranazionali come l’Unione Europea o le Nazioni Unite, non solo per dare un segnale di unità di intenti e di capacità di cooperazione, quanto perché finché ogni paese (come Italia, Francia, Spagna etc.) continuerà a perseguire i propri interessi particolari a seconda dell’area di influenza, non si troverà mai una soluzione né congiunta né efficace. I paesi europei, democrazie mature, per quanto con mille difficoltà, possono e devono cooperare per portare la Pace nel Mediterraneo, far cessare le inutili guerre e impedire che migliaia di persone continuino a perdere la vita imbarcandosi in viaggi pericolosi e disperati.

Lo dobbiamo a Mohamed Bouazizi, a Giulio Regeni e a Patrick Zaki, affinchè i giovani di quei paesi possano liberamente intraprendere un’attività economica, portare avanti studi e ricerche o semplicemente dichiarare la propria appartenenza politica, religiosa o sessuale senza rischiare ingiustamente per ciò di perdere la libertà o, nel peggiore dei casi, la propria vita.