Quale politica industriale per le Piccole e Medie imprese dopo la pandemia

Sembra un tempo sospeso, un tempo in apnea quello che stanno vivendo tantissime piccole e medie imprese nel nostro Paese. Non lo è e non lo può essere quello della politica.

In questi giorni di discussione sulle modalità di attuazione del Recovery Plan troppo spesso manca una discussione sui contenuti, in particolare sul presente e sul futuro del sistema industriale del nostro Paese, in particolare quello delle piccole e medie imprese.

Un paese che ha saputo fare del proprio ‘made in Italy’ l’asse portante di tantissimi settori e filiere. Ma la semplice narrazione del ‘made in Italy’ fondata sul ‘piccolo è bello’, che vive solo di se stesso non basta più, così come non basta più pensare e raccontare gli imprenditori e agli artigiani come degli eroi romantici che ce la fanno nonostante tutto, in una stoica solitudine.

Bisogna cambiare sguardo e prospettiva.

Il ‘made in Italy’ va ripensato, costruito e ragionato all’interno di un sistema di politica industriale per le piccole e medie imprese che sia un ecosistema produttivo ed industriale che sappia unire i propri assi portanti: il ruolo dei territori, della scuola, della formazione tecnico professionale, della pubblica amministrazione, il valore della sostenibilità sia produttiva che economica, abbassando i costi e rendendo il ‘made in Italy’ accessibile a una quota sempre maggiore di mercato e consumatori.

Per farlo in questo momento siamo obbligati ad avere un doppio sguardo, uno sguardo strabico, con un occhio rivolto al presente, alla salvaguardia immediata del nostro sistema di piccole e medie imprese ed un occhio rivolto al futuro.

Un futuro che non può rispondere alla domanda ‘quando torneremo come prima’ ma deve chiedersi ‘come vogliamo essere dopo’.

Ma tra il prima e il dopo il passaggio non è scontato o lineare, è un’apnea appunto. Non possiamo però far diventare questo tempo sospeso una tagliola tra chi ce la fa e chi non ce la farà, non possiamo più permetterci di ampliare ulteriormente la forbice tra gli inclusi e gli esclusi, tra i primi e gli ultimi, in una eterogenesi dei fini di una meritocrazia falsata.

Perché non avremmo solo imprenditori in meno ma perderemmo il valore aggiunto delle piccole e medie imprese nei nostri territori e nei nostri distretti, quello dell’aver saputo creare una ricchezza diffusa, aver saper attuare una redistribuzione della ricchezza nei territori dove sono insediate.

Vanno quindi attivati percorsi di sostegno all’imprese che vivono questo passaggio che sappiano salvaguardare imprenditori e lavoratori.

Molto ha fatto il governo con la politica dei ristori, ma va fatto un passo in più, il passo fondamentale, riconoscere la pluralità del mondo delle piccole e medie imprese e riconoscere il territori in cui vivono passando dalla mentalità dei codici Ateco a quella delle filiere.

Quando si parla delle piccole medie imprese parliamo di artigiani, commercianti, imprese manifatturiere, imprese creative ed innovative. Ognuna di esse necessita sì di azioni specifiche, ma che non siano pensate come monadi, spezzettate e pensate come misure a se stanti.

Va costruito quell’ecosistema senza il quale il fare impresa, alzare una serranda che sia di una impresa innovativa, di un negozio o di un artigiano continua a essere uno sforzo solitario.

Un ecosistema che non si ferma dentro i confini italiani ma guarda all’Europa, quell’Europa che, non senza difficoltà, oggi finalmente parla di sostegni economici, sicurezza e dignità del lavoro, azioni contro la concorrenza sleale delle multinazionali, equità fiscale a confronto con i big player della rete.

Ma il nostro paese deve fare la propria parte, costruendo quell’immediato futuro che salvaguardi le imprese, i lavoratori, quella ricchezza diffusa che ha fatto grandi i distretti italiani.

Va quindi sostenuta la transizione ecologica, la digitalizzazione, l’innovazione. Queste sono le tre priorità senza le quali interi settori produttivi rischiano di rimanere esclusi dalle dinamiche imprenditoriali e di mercato mondiali.

Priorità che non devono rimanere titoli generici ma vanno adattati e inseriti nel concetto di filiera. Per esempio parlare di digitalizzazione o sostenibilità nel tessile abbigliamento è molto diverso che parlarne per la meccanica o l’automotive.

Così come la digitalizzazione o l’innovazione sono concetti diversi per un commerciante o per un artgiano.

Sicuramente sono priorità che vanno accompagnate, con formazione e incentivi, per fare un grande passo avanti in termini di cultura imprenditoriale ma anche per sostenere quelle imprese che per dimensione o liquidità non riescono ad affrontare questo tipo di investimenti.

Va ampliato il concetto di formazione, non fermandosi solo a scuola e università ma investendo sulle ‘reti di formazione’ nei territori con uno scambio continuo tra pubblico e privato, sia per quanto riguarda la formazione di alto livello tecnologico sia per quella permanente, che aiuti i lavoratori a riqualificarsi per non rimanere esclusi dal mondo del lavoro. Si deve incentivare e promuovere il sistema degli ITS, per far si che esigenze del territorio e formazione coincidano sempre più.

Bisogna cogliere l’occasione della comparsa di segnali, seppur timidi, del rientro in Italia di produzioni che ormai erano considerate non più vantaggiose nel nostro paese attraverso politiche di sostegno al reshoring e agli investimenti di ‘ritorno’ dando certezze e opportunità agli investitori.

Si deve sostenere con forza la battaglia dei piccoli sull’accesso al credito. Non possiamo più pensare che l’accesso al credito sia legato solo al canale bancario, ma va incentivato l’investimento da capitale privato.

Così come va sostenuta in Europa una forte battaglia sul tema del rating, che rischia di comprimere ancora di più la nostre piccole e medie imprese.

Non da ultimo, ma anzi è un degli assi portanti da valorizzare, va sostenuta e incentivata l’imprenditoria femminile.

Il governo ha già previsto alcune importanti azioni in tal senso, grazie alle proposte messe in campo dal Partito Democratico, ma non basta. Vanno abbattuti tutti quegli ostacoli, sociali, economici e culturali che vedono anche in questo tema il nostro paese come il fanalino di coda.

Ho lasciato per ultimo il primo vero pilastro di cui un ecosistema produttivo ha bisogno: una pubblica amministrazione a misura di cittadino e impresa, che non veda il privato come perenna controparte. Senza che questo principio venga raccolto e fatto proprio non potrà esserci nessun ecosistema.

Tutto questo può avvenire solo se ogni componente di questo ecosistema si assume la responsabilità di esserlo. In primis la politica, ma anche le associazioni di categoria e gli stessi imprenditori.

Una responsabilità collettiva, anche conflittuale quando serve, ma che si fondi sul reciproco riconoscimento. Solo così nessuno si sentirà solo, nessuno sentirà l’apnea come soffocamento.

Non è solo una pura questione di metodo, ma uscire dall’incertezza e dalla solitudine è il vero punto di merito di un cambio di approccio.


Stefania Gasparini è Responsabile piccole e medie imprese del Partito Democratico