Volti e risvolti della pandemia: dalla stratificazione dei rischi all’impatto sulle classi sociali

Da www.eticaeconomia.it

La nozione di co-pandemia è stata di recente introdotta dalla letteratura medico-giornalistica, con riferimento al fenomeno della stratificazione dei rischi che riguardano i soggetti affetti da Covid-19: la mortalità aumenta in presenza di malattie come diabete e obesità ma queste ultime si stratificano su quei soggetti che non hanno la possibilità di condurre una vita “salubre” sia in termini di dieta alimentare quotidiana sia in termini di accesso a cure mediche e servizi di prevenzione. Così, se in Italia la mortalità si concentra sugli anziani affetti da altre patologie, negli Stati Uniti le comunità colpite dal virus in modo molto più feroce sono quelle afroamericane e latine, al cui interno le sacche di disagio sociale e sanitario hanno un peso rilevante. Un discorso analogo vale per le comunità indigene dell’America Latina.

Sebbene la nozione di co-pandemia sembri riguardare esclusivamente i rischi sanitari legati a condizioni specifiche dell’individuo, inizia a farsi strada l’idea che sul fenomeno pandemico incidono molte condizioni sociali come quelle relative al lavoro e all’abitazione. Ciò è in linea con quanto suggerito dai recenti dati forniti dall’INAIL. Oltre ai lavoratori occupati nel settore sanitario, infatti, altre categorie, quali ad esempio gli addetti alla macellazione delle carni, hanno dovuto affrontare un livello di rischio sanitario significativamente superiore. Un’analoga asimmetria nella distribuzione dei rischi connessi alla pandemia (e dunque delle conseguenze sanitarie ed economiche) emerge se si guarda alle condizioni socio-familiari e abitative ovvero, in particolare per quanto riguarda le grandi città, alla stratificazione urbana. Il tasso di contagio più elevato è stato infatti registrato nelle aree urbane proletarizzate caratterizzate da elevata densità abitativa e da un intenso disagio socio-economico.

In questa nota, che si concentra sulla situazione italiana e muove dai risultati riportati ad Aprile su eticaeconomia.ittentiamo di motivare la necessità di guardare ai rischi sanitari e ai rischi sociali in modo interrelato, mostrando come elementi legati alla stratificazione e alle differenze di genere si concentrino su specifiche categorie occupazionali determinando un’eterogenea distribuzione dei rischi e delle conseguenze sanitarie e socio-economiche della pandemia. La prospettiva della stratificazione e quella dell’intersezione con la dimensione di genere permettono di cogliere in modo più completo la co-occorrenza di rischi di natura multidimensionale, altrimenti considerati separatamente. È possibile inoltre identificare il moltiplicarsi delle vulnerabilità che ricadono su specifici soggetti.

Il primo passo consiste nella distinzione tra occupazioni ‘telelavorabili’ e non. Tale distinzione si basa sulla misurazione della prevalenza, per ciascuna occupazione, delle attività che possono essere svolte da casa e di quelle che richiedono necessariamente il lavoro “in presenza”. Viene poi quantificato il numero di donne e di uomini collocati in ciascuna categoria ed analizzata la distribuzione del salario, delle caratteristiche socio-demografiche e del processo di lavoro che possono incidere sulla relativa ‘telelavorabilità’ nonché sulle implicazioni economiche, sociali e sanitarie associate al poter e al non poter lavorare da remoto. Tra gli elementi attribuibili all’organizzazione del lavoro vengono posti al centro fattori quali l’autonomia nello svolgimento della propria attività lavorativa e le competenze digitali di cui i soggetti dispongono.

Da qui muoviamo verso l’introduzione di tre diverse misure di rischio: rischio occupazionale, rischio reddituale, e rischio sanitario (si veda la descrizione che segue) definito come il rischio di contrarre malattie professionali e di incorrere in incidenti sul lavoro. L’analisi si basa sulla combinazione di tre fonti informative di natura campionaria riguardanti la forza lavoro italiana: la Rilevazione delle Forze di Lavoro condotta dall’ISTAT; l’Indagine Campionaria della Professioni condotta dall’INAPP in collaborazione con l’ISTAT; e i dati su malattie professionali e incidenti sul lavoro rilevati dall’INAIL.

Donne e uomini che possono o meno telelavorare. Distinguendo, come già menzionato, tra occupazioni telelavorabili e non (Figura 1),  risulta che la quota di occupazioni non telelavorabili si attesti al 67% per le donne e al 73% per uomini (dati Istat 2016). Tali percentuali, apparentemente simili, nascondono in realtà concentrazioni nelle macro-categorie occupazionali molto diverse: prevalentemente commercio, servizi e occupazioni non qualificate (quinto e ottavo gruppo della classificazione ISCO) per le donne; manifattura, artigianato e agricoltura (sesto e settimo gruppo della classificazione ISCO) per gli uomini.

Figura 1: lavoratori e lavoratrici “da casa” secondo la classificazione adottata in Cetrulo et al. 2020. ICP-RCFL

(Per ulteriori dettagli si veda Cetrulo, A., D. Guarascio, & M.E. Virgillito (2020). The privilege of working from home at the time of social distancing. Intereconomics, 55, 142-147).

Quanto alla distribuzione del reddito (Figura 2), le donne che non possono svolgere la loro attività lavorativa da remoto tendono a percepire un salario più basso rispetto agli uomini che non possono tele-lavorare (panel di destra). Tuttavia, il divario salariale di genere si estende anche alle occupazioni che possono essere svolte da remoto, come mostrato dal panel di sinistra.

Figura 2: distribuzione del salario mediano distinguendo tra occupazioni a prevalenza femminile, e occupazioni telelavorabili e non.

Quali sono le caratteristiche del processo di lavoro che permettono di tele-lavorare? Adottando l’analisi fattoriale dell’ICP svolta in Cetrulo et al., 2019, emergono significative eterogeneità che intrecciano sia la dimensione di genere sia la distinzione tra occupazioni telelavorabili e non. E’ il caso del fattore “Power” che misura il grado di autonomia nel processo di lavoro, la capacità di definire le proprie scadenze, ma anche di poter esercitare autorità, influenza e controllo sugli altri. Sebbene questo attributo sia chiaramente più pervasivo nelle occupazioni telelavorabili – in linea con la segmentazione già illustrata nel contributo di cui sopra tra occupazioni ad elevato posizionamento gerarchico e ad alto salario, maggiormente rappresentate nel gruppo di coloro che possono svolgere l’attività da remoto, ed il resto della forza lavoro – emerge anche un forte divario di genere. A fronte di un analogo grado di telelavorabilità, infatti, le professioni a prevalenza femminile godono di meno autonomia e potere rispetto alle restanti occupazioni per quanto riguarda i processi decisionali e l’organizzazione del lavoro.

Figura 3: distribuzione del potere distinguendo tra occupazioni a prevalenza femminile, e occupazioni telelavorabili e non.

Un’altra determinante di interesse è la distribuzione delle competenze digitali. La Figura 4 mostra che le occupazioni telelavorabili richiedono, in linea con le aspettative, maggiori conoscenze digitali rispetto a quelle che non lo sono. Tuttavia, all’interno di entrambi i gruppi si osserva una significativa eterogeneità con occupazioni a bassissimo tasso di competenze digitali anche tra quelle che possono essere svolte da remoto. Rispetto alla distinzione di genere, per quelle telelavorabili emerge una maggiore concentrazione su bassi livelli di conoscenza di ICT laddove la quota femminile tende a prevalere.

Figura 4: distribuzione di conoscenza ICT distinguendo tra occupazioni a prevalenza femminile, e occupazioni telelavorabili e non.

Rischi multidimensionali e stratificazioni. In un lavoro prossimo alla divulgazione in forma di working paper (Cetrulo, A., D. Guarascio, & M.E. Virgillito (2020). Working from home and the explosion of enduring divides: income, employment and safety risks. Forthcoming, LEM WP Series), ci occupiamo di stimare le co-occorrenze tra tre tipologie di rischi, distinti per occupazioni telelavorabili e non:

  1. rischio di natura occupazionale definito come la transizione di un individuo dallo stato di occupato a quello di disoccupato durante l’anno di osservazione;
  2. rischio di natura reddituale definito come l’incidenza di retribuzioni collocate nel primo quartile della distribuzione del reddito;
  3. rischio di natura sanitaria, definito come l’incidenza di malattie professionali (quali malattie osteomuscolari, nervose, respiratorie, oncologiche) e di incidenti sul lavoro.

Guardando alla co-occorrenza delle tre-tipologie di rischi, ossia alla probabilità dell’intersezione di tre eventi alternativamente distinti, riusciamo a profilare quelle occupazioni in cui i tre rischi si stratificano, distinguendo rispetto ad occupazioni telelavorabili e non, e alla quota di donne, al 4-digit di disaggregazione. La Tabella 1 mostra come le occupazioni che registrano una co-occorrenza di rischi (i.e. caratterizzate da un livello elevato di rischio in tutte e tre le categorie) siano collocate nella parte più bassa della classificazione ISCO e prevalgono nelle occupazioni del sesto, settimo e ottavo gruppo, tutte non-telelavorabili. Tra queste, vi sono professioni quali gli intrattenitori turistici, i camerieri ed i commessi, ma anche gli artigiani e gli operai tessili in cui la presenza femminile è molto significativa. Si tratta di professioni altamente eterogenee dal punto di vista delle funzioni svolte ma simili per quanto riguarda il grado di relativa vulnerabilità e l’impossibilità di svolgere la propria attività da remoto.

Codice 4-digit Professione Donne (%)
8143 Personale non qualificato addetto ai servizi di pulizia di uffici ed esercizi commerciali 74
5222 Addetti alla preparazione, alla cottura e alla distribuzione di cibi 72
5122 Commessi delle vendite al minuto 67
8141 Personale non qualificato addetto alla pulizia nei servizi di alloggio e nelle navi 66
5223 Camerieri e professioni assimilate 61
8142 Personale non qualificato nei servizi di ristorazione 61
3413 Animatori turistici e professioni assimilate 57
7281 Operai addetti a macchine confezionatrici di prodotti industriali 55
6532 Tessitori e maglieristi a mano e su telai manuali 52
6332 Artigiani delle lavorazioni artistiche a mano di tessili, cuoio e simili 52
8431 Personale non qualificato delle attività industriali e professioni assimilate 36
8311 Braccianti agricoli 32
5221 Cuochi 29
7275 Assemblatori in serie di articoli in legno e in materiali assimilati 28
6531 Allevatori e agricoltori 28

Tabella 1: Professioni a 4-digit non telelavorabili in cui co-occorrono rischio di natura salariale, occupazionale e sanitario, ordinate per quota di lavoratrici sul totale dei lavoratori.

In conclusione. Una vasta letteratura economica e sociologica, accademica e non, si è interrogata negli ultimi trent’anni sulla fine delle classi sociali. Ipotizzando il superamento di quest’ultime, sono state proposte le più disparate rappresentazioni della società: liquida, della conoscenza, liberata dalla subordinazione (in particolare quella relativa alle strutture gerarchiche in ambito lavorativo). Tuttavia, la pandemia sta mostrando con grande evidenza come la divisione in classi esista e si esplichi in varie forme e gradi, a partire dalla possibilità o meno di lavorare dal proprio salotto senza incorrere nel rischio di perdere lavoro, reddito, o di contrarre malattie. In aggiunta e in relazione a ciò, si conferma come le opportunità occupazionali, i rischi, il grado di autonomia di cui si dispone nello svolgere il proprio lavoro nonché la disponibilità di conoscenze digitali siano asimmetricamente distribuite tra uomini e donne con quest’ultime esposte a una significativa penalizzazione rispetto ai primi.

In tempi di pandemia e di crescita di vecchie e nuove forme di diseguaglianza, dunque, nozioni quali la divisione in classi, la stratificazione sociale e urbana, l’intersezione dei rischi socio-economici con la dimensione di genere, diventano lenti imprescindibili per studiare i processi socio-economici in atto. Da questo punto di vista, se la relativa vulnerabilità dei lavoratori può essere misurata in modo preciso considerando congiuntamente la dimensione occupazionale e le caratteristiche socio-demografiche degli stessi lavoratori, anche le politiche pubbliche dovrebbero essere selettive e indirizzate prevalentemente a favore dei soggetti che subiscono le conseguenze più dure della co-pandemia.

In primo luogo, quando si evoca il telelavoro quale facile soluzione per mitigare i rischi occupazionali e reddituali che gravano su milioni di lavoratori è bene tenere a mente sia la limitata praticabilità di tale soluzione, sia le significative disparità che sussistono tra chi può e chi non è nelle condizioni di lavorare da remoto (oltre che all’interno di quest’ultimo gruppo).

In secondo luogo, le misure adottate dal governo italiano per contrastare l’emergenza pandemica, confermano che è scarsa la capacità di proteggere adeguatamente la componente precaria, femminile, giovanile e autonoma del mercato del lavoro, o piuttosto irregolare.  Ci si chiede pertanto per quale ragione, laddove risulta possibile identificare i “volti” su cui stanno ricadendo i maggiori costi sociali della pandemia, le politiche pubbliche, in particolar modo quelle di sostegno al reddito, tardino ad intervenire selettivamente e con l’adeguata generosità. Tra i risvolti di tali ritardi si annovera un crescente conflitto sociale che comincia a divampare anche a causa del perverso connubio di insufficienti protezioni sociali e radicale limitazione delle relazioni sociali.