Smart working, i numeri ci dicono che il cambio di paradigma è in atto

Secondo i dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano si stima che i lavoratori da remoto post pandemia saranno circa 5,3 milioni, in pratica poco meno di un quarto del totale della forza lavoro italiana. Si attestavano in poco più di 550 mila nel 2019, sono diventati quasi 7 milioni nel primo lockdown e sono rimasti stabili a poco più di 5 milioni da settembre 2020. Stando a questi dati, si potrebbe tranquillamente asserire che il cambio di paradigma a lungo auspicato pare realizzarsi.

Si prospettano, quindi, cambiamenti strutturali, sociali e culturali a partire dalla vita interna delle aziende e delle pubbliche amministrazioni interessate dal fenomeno. Si andrà verso un modello blended working, ovvero alternando la presenza fisica in ufficio con il lavoro in modalità “agile”.

Questo rende obsoleta la classica visione del lavoro strutturata in maniera gerarchica e basata sul controllo visivo dei dipendenti. Tutto ciò ci induce a ripensare l’utilizzo degli spazi di lavoro, con evidenti economie di scala, ma soprattutto cambieranno gli spazi esterni, a cominciare dai servizi creati per soddisfare le esigenze dei pendolari e cuciti addosso ai grandi centri urbani.

Dobbiamo ragionare su questi numeri, prendere consapevolezza che il cambiamento è già in atto e che schemi e abitudini che credevamo immutabili sono da rivedere e soprattutto da riprogettare. C’è necessità di nuovi strumenti: dall’urbanistica alla strutturazione dei servizi dell’indotto e della mobilità, alla contrattazione sindacale e alla definizione stessa di un’idea di lavoro nuova e maggiormente flessibile.

Lo smart working può rappresentare, altresì, un’opportunità per il rilancio dei piccoli borghi “morenti”, spesso lasciati al loro destino a patto di ripensare servizi, mobilità ed infrastrutture. Ripopolare un borgo significa attrarre investimenti anche nel green e nel km0: piccole attività commerciali torneranno ad esistere grazie anche al prodotto locale e a politiche incentrate sulla glocalizzazione.

Se saremo capaci di governare questo cambiamento che non è solo un ripensamento del modi di lavorare ma è anche e soprattutto un nuovo stile di vita meno frenetico e più “smart” potremo innescare un circolo virtuoso che porterebbe, nel lungo termine, anche ad una riduzione degli spostamenti con grossi benifici in termini di ecosostenibilità.

Occorre però, in primis, azzerare il digital divide ancora oggi presente fra centro e periferie potenziando la rete digitale rendendo così la connessione veloce fruibile a tutti ed investire nel Trasporto Pubblico Locale e nei servizi socio-assistenziali, veri punti deboli delle aree scarsamente antropizzate.

Un ultimo aspetto, da non trascurare: l’articolo del il Sole 24 ore parla di smart working come scudo anti-covd19 per le aziende. Se il male del futuro, come ci dicono gli esperti, saranno le epidemie virali, questa idea consentirà di antropizzare in maniera più diffusa il territorio abbassando le concentrazioni di gente nelle grandi città, diminuendo il rischio di contagi. Credo, in sintesi, che dalla capacità di ripensare il lavoro del domani dipenda il futuro dell’Italia stessa.