Il 6 aprile scorso è stato celebrato il dodicesimo anniversario dal terremoto che ha devastato L’Aquila e molti borghi abruzzesi, causando oltre 300 vittime. Come sempre la scadenza simbolica, oltre alla commemorazione, è servita a tracciare un bilancio del percorso della ricostruzione. Niente più di una calamità naturale forma una linea nella vita della comunità, che si trova da quel momento sospesa tra il prima e il dopo, ovvero il naturale e irrinunciabile sguardo al futuro, che passa dal ripristino della normalità e quindi dalla ricostruzione.
Tra i numerosi che periodicamente colpiscono il nostro Paese, dal territorio in larga parte a rischio sismico, il terremoto dell’Aquila rappresenta un caso particolarmente complesso. Accanto al tessuto dei paesi limitrofi venne colpita una città popolosa, capoluogo di Regione, caratterizzata da un centro storico di pregio e di dimensione estese.
Il processo di ricostruzione è stato perciò particolarmente difficile. Oggi, si può dire, si vede almeno in parte la luce. Nella città dell’Aquila i lavori privati sono terminati all’85 per cento, mentre la quota pubblica è meno avanzata, all’incirca al 50 per cento. Nei Comuni del resto del cratere siamo a circa metà del percorso, includendo però nel conteggio oltre ai cantieri conclusi anche quelli solamente avviati. Andando oltre la contabilità, si segnalano problemi e contraddizioni.
Nelle cosiddette piastre del Progetto Case, i moduli antisismici realizzati su forte impulso del governo Berlusconi, vivono ancora 7000 persone (nei momenti di picco si è arrivati anche a oltre il doppio), e sono stringenti i dubbi e gli interrogativi sul riuso o sulla demolizione, almeno parziale, di un patrimonio di difficile gestione, stante anche il progressivo svuotamento. La ricostruzione delle scuole, nonostante i significativi passi avanti nel processo negli ultimi anni, è notevolmente in ritardo.
Il cosiddetto cratere aquilano si sovrappone in parte a quello del terremoto del Centro Italia, una situazione difficile anche se molto diversa, dove rispetto al caso del capoluogo abruzzese sono maggiori le dimensioni del territorio coinvolto ma anche la dispersione della popolazione. Solo nell’ultimo anno, si può dire, quindi a quattro anni dalle prime scosse sismiche, la ricostruzione ha conosciuto nel Centro Italia un’indispensabile accelerazione, grazie alla nuova struttura commissariale: analogamente, a questo proposito, alla situazione aquilana, dove gli ingranaggi della macchina hanno cominciato a girare solo molto tempo dopo la tragedia.
Ferma restando l’assoluta priorità del lavoro sul versante della prevenzione e dell’adeguamento sismico, sono da segnalare i rischi di una tale consuetudine. Gettare le popolazioni colpite dalle calamità in una interminabile fase di emergenza senza dare loro per lungo tempo la prospettiva dell’avvio della rinascita, significa negare il diritto alla speranza. Va perciò fatto tutto il possibile perché si superi l’usuale collo di bottiglia che si forma sempre nella fase successiva alla calamità, dove ogni volta anni vengono spesi per la costruzione delle strutture e delle procedure.
L’unica strada possibile è quella di fare in modo che vi siano meccanismi, ove possibile, standardizzati, a cui fare affidamento di volta in volta. Un provvedimento legislativo nazionale di riferimento è in questo senso, credo, indispensabile, e vi dovrebbero concorrere tutte quelle esperienze positive che hanno saputo, dopo anni di difficoltà, avviare e proseguire il cammino della ricostruzione.
L’Aquila e da poco il Centro Italia sono per molti versi tra questi.
Lo scorso anno un importante passo fu compiuto con l’assegnazione al Dipartimento Casa Italia delle competenze in materia di ricostruzione e di rinascita dei territori colpiti da grandi calamità naturali, con “l’intento di uniformare la risposte operative e giuridiche che provengono dai territori”. Quel percorso deve arrivare a compimento.