Dal debito pubblico alla ricostruzione europea. Ecco come fare

La crisi sanitaria del Covid-10 ha richiesto di creare immediatamente la liquidità necessaria per evitare che le attività economiche e l’occupazione collassassero una dopo l’altra. Il settore pubblico dovrà trovare enormi risorse – che prima o poi dovrà anche ripagare – e quanto dovrà ripagare dipenderà anche dal tasso d’interesse che riuscirà a scontare. Ed è quindi del tutto giustificata l’azione intrapresa, soprattutto da parte dei governi con il debito pubblico più elevato, per cercare di ottenere dei prestiti con tassi d’interesse calmierati, come quelli che potrebbero offrire le istituzioni europee.

In questa fase emergenziale, tuttavia, non si dedica sufficiente attenzione su un aspetto che dovrebbe invece essere scontato: come e chi pagherà i debiti? Come avviare la ricostruzione?

Il Fondo Monetario Internazionale ha previsto una caduta del PIL mondiale del 3% e del 7,5% nell’Eurozona nel 2020, che sarebbero solo parzialmente compensati da una sostenuta crescita nel 2021. Tali previsioni si basano sull’ipotesi di una costanza nella crescita, in altre parole assumendo che la composizione tra pubblico e privato e quella tra i vari settori industriali restino invariate.

Purtroppo, l’Eurozona è uscita più tardi di altri paesi dalla crisi del 2008 e, se non si prendono drastiche misure, rischia di essere anche quella che più tardivamente si riprenderà dalla crisi sanitaria del 2020.

La ragione per cui l’Eurozona ha rimbalzato meno nell’ultimo decennio è dovuta alla caduta degli investimenti privati, che è stata più rilevante che altrove e che non è stata sufficientemente stimolata dagli investimenti pubblici. Secondo le stime della Banca Europea degli Investimenti, nel 2019 l’Unione Europea aveva raggiunto solamente il 75% del livello degli investimenti pre-2008. Nonostante ci siano stati, grazie alla Banca Centrale Europea di Mario Draghi, una politica monetaria espansiva e tassi d’interesse che, da una prospettiva storica, risultano bassissimi. Il rischio, dunque, che la necessaria liquidità immessa nel sistema economico da istituzioni nazionali ed europee non sia di nuovo sufficiente a innestare la ripresa è del tutto reale. Se così fosse, ci ritroveremo ancora una volta a pagare un volume maggiore di debiti e, oltretutto, con una contrazione delle entrate fiscali associate alla caduta del PIL.

Come se ne esce? L’Unione Europea deve agire ancora più coraggiosamente di quanto stia facendo e provvedere ad un piano di investimenti sollecitati direttamente dall’operatore pubblico. Per uscire dalla Grande Crisi del 1929, Franklin D. Roosevelt si affidò a specifiche agenzie che organizzarono lavori pubblici e crearono milioni di posti di lavoro. Qualcosa del genere deve oggi fare l’Europa.

Ma sarebbe vano pensare che si possa uscire dalla crisi investendo solo nei settori tradizionali. Ciò significherebbe sancire una volta per tutte l’eurosclerosi e rendere il vecchio continente subalterno agli Stati Uniti e alla Cina. Occorre che l’Europa faccia un piano di investimenti nei settori emergenti dell’economia – genetica, tecnologie ambientali, intelligenza artificiale, tecnologie dell’informazione – tali da renderci competitivi a livello globale. Ciò richiederebbe anche la creazione di nuove grandi imprese capaci di competere con i colossi americani (Amazon, Google, Apple, etc.) e con i loro concorrenti cinesi (Alibaba, Baidu, Huawei, etc.) con una innovativa governance pubblica e privata. Se i paesi europei pensano di risolvere il problema solo con le loro imprese nazionali, hanno perso la battaglia prima ancora di cominciarla.

Daniele Archibugi, economista, è direttore dell’Irpps-Cnr a Roma ed è Professore di Innovation, Governance and Public Policy all’Università di Londra, Birkbeck College