Regeni, la verità processuale non vuol dire giustizia. Ora tocca alla politica

Con la chiusura dell’indagini siamo arrivati all’ultimo atto di qualcosa che abbiamo chiamato a lungo collaborazione giudiziaria tra Italia ed Egitto sulla scomparsa di Giulio Regeni, ma che per la maggior parte del tempo è stata “collaborazione” solo sulla carta.

Una collaborazione prevista non solo dall’etichetta diplomatica, ma dalle stesse convenzioni internazionali di cui Egitto e Italia sono firmatarie.

Una collaborazione che è stata “tra virgolette”, perché caratterizzata da continue omissioni e reticenze. E da depistaggi dagli esiti talvolta tragici, come l’uccisione da parte della polizia egiziana di sospetti che non si trovavano nemmeno al Cairo il 25 gennaio, e talvolta grotteschi, con la consegna all’Italia dei video della metropolitana mancanti proprio dei minuti in cui Giulio doveva essere lì.

Se ci sono 4 indagati, coi loro nomi e cognomi, il generale Sabir Tareq, i colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal, il maggiore Magdi Sharif, e a ciascuno può essere contestato un reato (sequestro per tutti, e per il maggiore Sharif anche lesioni gravissime aggravate e concorso in omicidio aggravato) lo si deve alle capacità investigative e alla pervicacia del pm Sergio Colaiocco e del procuratore Michele Prestipino, del loro team di polizia giudiziaria e della collaborazione prestata dalla famiglia di Giulio Regeni e dalla loro avvocata.

Doti e pervicacia che in anni di sforzi certosini hanno saputo ritagliare i fragili contorni di verità intorno alle reticenze egiziane e hanno saputo trovare e ascoltare testimoni chiave, e individuare importanti elementi di prova, perfino nei pochi materiali forniti loro in questa grottesca collaborazione, da chi evidentemente non aveva degnato le nostre autorità nemmeno della considerazione necessaria per cancellare efficacemente tutte le prove presenti in quei video e in quei documenti.

Ma nonostante questo, l’ultimo atto di questa collaborazione all’insegna del grottesco e della mancanza di rispetto non poteva che concludersi esattamente come si è concluso: con uno schiaffo. Dopo aver in passato ucciso e tentato di far passare per colpevoli individui che nemmeno si trovavano al Cairo il giorno della sparizione di Giulio, i magistrati egiziani in questa occasione hanno ritenuto “non sufficiente” il quadro probatorio desunto con fatica dai loro omologhi italiani e si sono quindi rifiutati di consegnare alla procura italiana gli indirizzi degli indagati.

Un insulto a un lavoro certosino di anni condotto dalla Procura di Roma, lo SCO e i ROS che hanno saputo collegare i pochissimi elementi emersi da filmati, tabulati telefonici e testimonianze che l’Egitto ha fornito loro, con le testimonianze precise rese da testi indifferenti e non collegati tra loro.

A questo punto, a Roma si aprirà il processo, per arrivare alla verità processuale di quello che successe in quei giorni, tra il 25 gennaio e il 3 febbraio 2016.

Ma senza la presenza degli accusati, e soprattutto senza la minima ammissione di colpevolezza da parte di quelle autorità egiziane a cui tutti i sospettati emersi dalle indagini appartengono, la verità processuale non vorrà dire giustizia.

La Procura di Roma ha aperto la porta alla verità. Starà alla politica, al governo italiano decidere quale strada intraprendere per arrivare alla giustizia. Sarebbe imperdonabile se con il passare del tempo le relazioni con l’Egitto scivolassero in una consuetudine di rapporti simile a quella precedente all’omicidio di Regeni. Qui non si tratta solo dell’onore della patria, che pure non è poca cosa. Si tratta di realismo politico, di lucidità sulle conseguenze delle decisioni che si prendono.

Come ha detto il presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Regeni, Erasmo Palazzotto, “Uno Stato che non è in grado di proteggere un suo cittadino all’estero o di ottenere giustizia sulla sua morte, è uno Stato che perde credibilità e affidabilità.” Non condizionare il proseguimento delle nostre relazioni con l’Egitto all’ottenimento della giustizia su Regeni renderebbe la perdita di credibilità del nostro Paese inesorabile e fatale.
Richiamare l’ambasciatore non può essere l’unica e sola risposta. E’ stato utilissimo farlo durante i mesi del 2016 e del 2017 nei quali si è ottenuta la collaborazione con le autorità egiziane. Può servire farlo anche ora, come prima risposta. Ma occorre prendere atto che la mancata collaborazione dell’Egitto rappresenta un vulnus dell’interesse nazionale e che quindi servono azioni per tutelare l’onore della nostra nazione.

Va fatta piazza pulita di quel “realismo accattone”, come l’ha definite recentemente il professor Mario Del Pero, che continua a presentare la falsa separazione tra interesse nazionale e bisogno di giustizia nel caso di Giulio, così come in ogni altro caso dove un connazionale viene rapito, torturato e massacrato. Come se da un lato ci fossero gli interessi del paese e dall’altro l’esigenza di chiarire un fatto. Ma le due cose sono legatissime, perché il nostro vero interesse nazionale nel lungo periodo è solo uno: proteggere i nostri connazionali, chiarire che l’Italia e’ una nazione seria e che prenderla in giro ha serie conseguenze.