Il silenzio della città stretta
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Ricorderemo il silenzio. Perché questa città il silenzio non lo conosce proprio, se non in alcuni quartieri nelle domeniche di un agosto che probabilmente non tornerà prima di diversi anni.

Questa, sapete, è una città stretta. Si è allargata nel tempo, ha spostato i confini divorando maligna campagne e marine, arrampicandosi e discendendo colline e mangiando un fianco di montagna, indifferente alle lezioni di una storia facilmente dimenticata fatta di lava e invasioni. Una città che è rimasta stretta, vicoli e traverse inventate, balconi asimmetrici aperti nei fianchi di palazzi austeri che dormono un inquieto disagio a trovarsi soffocati da altre piccole invadenti costruzioni, loro che erano nati per stare da soli a guardare il mare. Una città stretta ma estesa, fatta di sovrapposizioni e di invisibili confini, che si attraversano inconsapevolmente passando da un mondo all’altro, altra lingua e altro cibo, altro teatro e altre canzoni.

Ne abbiamo viste tante, nei vicoli della città stretta. Povertà, miseria, guerre, lotte, rivalità, mercato emerso e borsa nera, immigrazione e intolleranza: ma mai ci avevano detto di non toccarci. Mai ci avevano detto di non avvicinarci, di non parlare. Mai ci avevano detto che era inutile perfino sorridersi, e che anzi un sorriso nascosto da una mascherina dà luogo a uno strizzare di occhi che sembra, senza poter vedere la bocca, un’occhiata diffidente.

Il silenzio è la grande novità della città stretta. Un silenzio sconosciuto e infido, che è solitudine e quindi osservazione di se stessi. Il silenzio di questi tempi ti fa sedere su una sedia in una stanza vuota di fronte al giudice più impietoso e meno incline al perdono: lo specchio.

Il silenzio, nella città stretta, è fatto soprattutto di paura. Non della malattia: per quanto sembri incredibile e ad alcuni addirittura fastidioso, perché non prevedibile e infatti mai previsto, l’epidemia ha solo sfiorato questa regione e soprattutto l’immensa città stretta. Si pensava che avremmo avuto morti a migliaia, per l’inadeguatezza delle strutture, per la poca o nulla responsabilità civica di questo popolo, per le titubanze di una classe politica mai del tutto legittimata, per una sanità traballante che veniva da dieci anni di ottuso commissariamento. E invece.

Invece i vertici istituzionali hanno mostrato una leadership decisa e lungimirante, imponendo normative restrittive quando altrove si insisteva a ignorare quello che stava accadendo.

Invece il popolo ha subito compreso che ci si giocava la pelle, e che per una volta ci si doveva uniformare a quello che dicevano i generali e fare i soldati con intelligenza e obbedienza.

Invece negli ospedali sono venute fuori le eccellenze, e hanno indicato strade e percorsi validi e coerenti superando con assoluta competenza le obiettive carenze strutturali.

Non è quindi dalla malattia che proviene questo senso di dolorosa sospensione, questa oppressione terrorizzata che si vive nel respiro della città privata della folla e del rumore. Perché né le istituzioni, né le eccellenze né la coscienza popolare potranno proteggere la città stretta dal futuro che l’aspetta.

L’ipocrita economia raccontata nelle aule universitarie e nei ministeri non tiene conto della realtà. Questo è vero ovunque, ma nella città stretta tutto viene peggiorato dal consolidamento di un universo che si muove secondo leggi che in parlamento si finge di non conoscere.

Nessuno fa presente che delegare alle banche l’operatività dell’assistenza alle aziende significa riservare gli aiuti a una minima percentuale di chi ha davvero bisogno, e che costituisce il tessuto reale dell’economia. Molte aziende hanno già linee di credito pienamente utilizzate, e il merito è ampiamente esaurito; le istruttorie dovranno essere effettuate con una velocità e una tempestività che gli istituti di credito non saranno in grado di garantire; gli utilizzi dovranno mantenere una tracciabilità che spesso, soprattutto per le piccole aziende, non appartiene alla realtà commerciale.

Gli assegni postdatati, modalità di pagamento illegale e formalmente inesistente ma assolutamente consolidata che esprime la quasi totalità delle transazioni a scadenza, arriveranno all’esazione con inesorabile puntualità perché i fornitori non avranno la forza di ritirarli e prorogarli. I fitti dei locali, forti di contratti a lunga scadenza, non saranno abbassati perché rientranti in vasti patrimoni familiari. I lavoratori a giornata, i commessi, gli impiegati di livello più basso saranno licenziati senza pietà da imprenditori che sventoleranno con gioia la bandiera della crisi e della recessione, col sostegno e nell’acquiescenza di una classe politica precaria e sensibile ai poteri più forti che ne determinano il destino. E i lavoratori del turismo e dell’accoglienza, che era diventata l’attività essenziale di un territorio abbandonato dall’industria e dalla trasformazione, vanno capendo che quella bella corrente ininterrotta di visitatori è destinata a restare un magnifico ricordo per troppo tempo: molto più di quello che passerà prima che i figli abbiano di nuovo fame.

E’ questa la paura che determina il silenzio della città stretta. L’incombenza di un futuro spaventoso e imprevedibile, e non di un presente assurdo ma in via di superamento.

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