Smart working, il lavoro agile prima e dopo il coronavirus
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Sono più di 15 anni che in Italia si parla di lavoro agile. E si prova in qualche modo a farlo. Abbiamo alle spalle anni in cui il lavoro agile era soltanto sperimentazione, terreno in cui si avventuravano solo le multinazionali più evolute. Io, nel Gruppo Nestlè, ho avviato una sperimentazione già nel 2005. Allora il lavoro agile, che ancora non si chiamava così, era una richiesta che veniva soprattutto dalle donne, dal loro difficile tentativo di tenere insieme vita privata e lavorativa. E per molti anni, infatti, questo modo di lavorare è stato visto essenzialmente come una modalità di conciliazione, un’azione di pari opportunità.

È grazie a questa connotazione, però, che il lavoro agile ha iniziato a ricevere attenzione, poi sostegno, trovando la sponda solidale dei sindacati, che lo hanno riconosciuto come strumento di benessere per lavoratori e lavoratrici. Sono quindi nati i primi accordi, come quello del Gruppo Nestlè, primo in Italia, nel 2012. Hanno poi iniziato ad interessarsene le istituzioni – io stessa da Assessora con la Giunta Pisapia ho lanciato la prima giornale del lavoro agile nel 2014 – di seguito sono arrivati i primi decreti nella pubblica amministrazione ed infine, nel 2017, è nata la legge.

Poi è arrivato il Coronavirus. E un decreto ministeriale che ha imposto il lavoro agile come modalità di lavoro obbligatoria. E tutti ci siamo trovati di colpo a doverlo fare.

Ora siamo in un presente di lavoro agile ‘costretto’.

Non stiamo beneficiando dei vantaggi insiti in questo modo di lavorare. Non abbiamo infatti altra scelta che non quella di lavorare da casa. È una sorta di lavoro agile ridotto o depotenziato. Siamo in un periodo di costrizione, viviamo una limitazione delle nostre libertà individuali e anche il lavoro agile vede ristretto il suo campo di azione.

Viene in pratica a mancare l’essenza stessa della parola agilità. Non riusciamo ad usare una ‘modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato … senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro.’, così come prevede testualmente la legge.

Il lavoro agile nella sua piena applicazione si fonda sul mettere al centro dell’organizzazione del lavoro la persona, che sempre in relazione con la sua azienda o ente, può liberamente decidere di modulare la propria giornata lavorativa, scegliendo tempi e luoghi da cui effettuare la prestazione.

E sui luoghi non esiste davvero limitazione – unico limite imposto dalla legge il buon senso individuale per evitare di mettersi in situazioni di rischio. Nella nostra vita pre Coronavirus questa libertà di scelta voleva dire poter lavorare da casa, ma anche recarsi in un coworking della propria città o in un‘altra sede della propria azienda; voleva anche dire lavorare da parchi o piazze cittadine o magari in piscina durante l’allenamento di un figlio.

La riduzione di campo del lavoro agile che stiamo vivendo ha reso evidente alcune difficoltà; stiamo sperimentando tutti che la condivisione dello spazio domestico con altre persone che lavorano o studiano può essere difficoltosa; che la presenza di bambini piccoli può essere assillante e assorbire il nostro tempo; che la commistione spazi privati e spazi lavorativi può pericolosamente annullare quella sana distanza che invece deve rimanere tra lavoro e vita personale. Sta emergendo in modo chiaro che questo lavoro agile costretto ha ripercussioni pesantissime soprattutto sulle donne, ricacciate con forza nell’ambiente domestico, con ancora alle spalle la quasi totalità del lavoro di cura e prospettive incerte di ritorno ad una vita normale nei prossimi mesi, vista la scarsissima attenzione posta a livello istituzionale ai bambini, alla scuola e a tutte le esigenze dell’infanzia. Di queste difficoltà dovremo prenderci cura.

Ma è anche vero che questo periodo ha fatto cadere, in una sola volta e per sempre, gli alibi.

Chi ancora osteggiava il lavoro agile si è trovato, volente o nolente, a farlo; soprattutto a farlo fare ai collaboratrici e collaboratori, che magari lo chiedevano da tempo. Chi aveva diffidenza nei confronti della tecnologia ha sperimentato che davvero è tutto molto semplice: è facile collegarsi, è facile inviare documenti, condividere schermi, fare piccoli gruppi di lavoro o grandi plenarie on line. Tutti abbiamo capito come, dopo una piccola fase di disorientamento, sia in realtà molto facile organizzarsi, darsi appuntamenti telefonici, gestirsi in autonomia la giornata lavorativa.

Chi non credeva efficaci le riunioni da remoto ha sperimentato come sia invece semplice l’interazione tra tante persone, come sia aumentato l’ordine e l’ascolto reciproco, diminuite le interruzioni (se ci si parla adesso, come avviene nelle riunioni fisiche, banalmente non si sente più nulla).

E più in generale il Paese ha retto, la tecnologia ha reso possibile il fatto che tutti gli italiani (che possono farlo) abbiano lavorato in contemporanea, da remoto, senza grandi problematiche di connessione.

Credo alla fine che questo lavoro agile ‘costretto’ ci abbia convinti. Credo che siano più i vantaggi che gli svantaggi ciò che abbiamo vissuto in questi mesi.

È ora però il momento di pensare al futuro.

Sono personalmente convinta che il periodo che stiamo vivendo sia il passaggio – stretto verso una nuova evoluzione.

Le città silenziose, l’aria pulita, la nostra capacità di cambiare abitudini consolidate e vedere le cose con occhi nuovi, sono tutti preziosi risultati che non dobbiamo perdere. Portarli con noi nel nostro nuovo futuro è l’unico modo che abbiamo per giustificare le sofferenze che molti di noi hanno patito. Ritrovarci in un futuro evoluto l’unico senso di questo periodo tragico.

E nel bagaglio di cose positive da portarci dietro, il lavoro agile deve avere sicuramente un posto dominante.

Deve rimanere il modo di lavorare di tutti coloro che fisicamente possono farlo.

Potremo provare a lasciarci alle spalle per sempre la parola dipendente, riuscire a vedere i lavoratori e le lavoratrici come persone responsabili, uomini e donne che possono articolare la loro prestazione lavorativa nella massima flessibilità; che in autonomia, e in stretto coordinamento con le loro organizzazioni, costruiscono la loro giornata lavorativa nello spazio e nel tempo che più si confà ai loro bisogni, alle loro loro vite individuali, alle loro intime aspettative.

E quindi torneremo a parlare di lavoro agile pieno.

E beneficeremo allora dei vantaggi che il lavoro agile porta con sé, del suo impatto sul traffico e sull’inquinamento, della limitazione dei picchi d’uso dei mezzi pubblici, della socialità ritrovata nei quartieri, dell’effetto su scelte urbanistiche nel disegnare una città più flessibile e capace di accogliere nuove modalità di lavoro e di vita.

Un tema però resta centrale, nel passato, nel presente e nel nostro nuovo futuro: la fiducia tra persone. Forse è questo il più grande ostacolo al lavoro agile. La fiducia che le aziende devono dare alle proprie persone quando permettono loro di allontanarsi fisicamente dagli uffici; quella che deve permettere a capi ancora titubanti di rinunciare al controllo a vista; quella che deve lasciar sostituire nella mente di tanti imprenditori la cultura del risultato a quella del presenzialismo a tutti i costi.

E’ su questo aspetto che dovremo tenere la guardia ancora alta. Sarà solo una mancanza di fiducia quella che porterà, a lockdown finito, a ritrovarci tutti di nuovo negli stessi uffici, alla stessa ora, contemporaneamente.

Abbiamo capito in questo nostro strano presente quanto tutto ciò sia inutile.

Lavoriamo ora sulla fiducia reciproca perché il nostro nuovo futuro sia profondamente diverso dal passato che abbiamo lasciato alle spalle.

Chiara Bisconti è una manager, presidente di Milanosport Spa e già assessore al Benessere, Qualità della vita, Sport e Tempo libero del comune di Milano con la giunta Pisapia

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