Aldo Moro, le sue idee e le nostre responsabilità
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Chi appartiene alla mia generazione ha un ricordo netto di quel 9 maggio 1978. Ricorda la tragedia di quell’assassinio, ricorda la Renaut rossa in via Caetani e ricorda l’angoscia di un paese che si è sentito improvvisamente orfano, non di un capo, ma di un leader, dalla cui intelligenza storica e abilità politica si sentiva in qualche misura protetto, rispetto alle drammatiche insidie di quella stagione.

Mi capita spesso di sentire qualcuno affermare “ci vorrebbe Moro”, “per fare che?”, “per tirarci fuori da questa situazione”. Non v’è dubbio che attorno alla sua figura si sia cristallizzata, e imprevedibilmente consolidata nel tempo, l’immagine di un demiurgo capace di guidare il paese nei momenti più difficili. La sua capacità di comporre e guidare era vera, ma oggettivamente non era senza limiti, come tutte le esperienze umane. Se Moro fosse ancora presente oggi (tra l’altro avrebbe più di cento anni) non riuscirebbe a fare miracoli: possiamo, semmai, immaginare che se non fosse stato ucciso quanrantadue anni fa, e non fossero immaturamente scomparse altre figure decisive di quell’epoca come Enrico Berlinguer, probabilmente il nostro sistema democratico non sarebbe giunto a questo punto di fragilità. Ma che senso ha dire questo? Le persone nascono e muoiono e le leadership appaiono e scompaiono, naturalmente. Diciamo che quella stagione era molto diversa dall’attuale e non ha senso alcun rimpianto: questo è il tempo che ci è dato e che richiede intelligenza, responsabilità e risposte nuove, a noi.

Personalmente preferisco ricordare che Aldo Moro, oltre che politico e statista di primo piano, era uno studioso, un ideatore e costruttore di scenari sempre nuovi e all’altezza dei tempi, al cui magistero di pensieri “duraturi” continua ad essere in parte possibile attingere anche oggi, senza immaginare che ai problemi di oggi si possano dare risposte pensate quasi cinquant’anni fa. Da questo punto di vista lo statista democristiano continua a rappresentare un vero e proprio giacimento di idee, ovviamente storicamente situate, che possono ancora suggerire riflessioni suggestive.

Ne voglio proporre un paio, che considero particolarmente utili per il presente.

La prima: “Divisi – come siamo – da diverse intuizioni politiche, da diversi orientamenti ideologici, tuttavia noi siamo membri di una comunità. La comunità del nostro Stato e vi restiamo uniti sulla base di un’elementare, semplice idea dell’uomo, la quale ci accomuna e determina un rispetto reciproco degli uni verso gli altri” (intervento all’Assemblea Costituente, 13 marzo 1947). Probabilmente anche altri alla Costituente hanno espresso concetto analogo, ma mi interessa riportarlo, perché a me sembra che questo valutazione allora largamente condivisa oggi non lo sia più. E ciò rappresenta oggettivamente un certo fallimento per la nostra democrazia, un fallimento che di fatto le rende terribilmente difficile la sua vita stessa. Quando non c’è più un idem sentire degli italiani rispetto al valore della dimensione umana della vita civile, quando scompare o si attenua il riconoscimento del e nel valore delle istituzioni dello Stato, quando il valore del proprio personale interesse soverchia – sino a estinguerlo – il valore stesso del bene comune, quando si misconosce il dato della responsabilità individuale rispetto alla comunità cui si appartiene, vuol dire che qualcosa di importante si è spezzato, sino a far emergere l’angosciante interrogativo se ci si riconosca ancora nel metodo democratico.

La seconda: “Io credo all’emergenza, io temo l’emergenza. La temo perché so che c’è sul terreno economico sociale…C’è la crisi dell’ordine democratico, crisi latente con alcune punte acute…Io temo le punte, ma temo il dato serpeggiante del rifiuto dell’autorità, rifiuto del vincolo, della deformazione della libertà che non sappia accettare né vincoli né solidarietà…Ma immaginate cosa accadrebbe in Italia, in questo momento storico, se fosse condotta fino in fondo la logica dell’opposizione, da chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se questo paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno alla prova di una opposizione condotta fino in fondo?” (discorso ai gruppi parlamentari della DC, 28 febbraio 1978).

Altri tempi, altro tipo di crisi, si dirà. Vero. C’era allora una grave crisi economica, l’inflazione al venti per cento, il terrorismo, una certa “solitudine” a livello internazionale, una situazione parlamentare che non sembrava in grado di esprimere maggioranze di governo, e una discussione parallela all’interno dei due maggiori partiti, la DC e il PCI, che si esprimeva più o meno negli stessi termini: “piuttosto di, andiamo all’opposizione”.

Non c’è più Moro, non c’è più Berlinguer.

Ci siamo noi e le nostre responsabilità.

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