Qualunque cosa accada, e comunque vadano le cose: testa alta, schiena dritta. E con un libro in mano: “Studiate ragazzi, perché studiando si apre la testa e si capisce quello che è giusto e quello che non lo è”. Così amava dire Felicia Bartolotta Impastato a quel continuo via vai di ragazzi che andavano a trovarla per cercare da lei delle risposte su come, anche loro, avrebbero potuto combattere la mafia.
“Anche” loro, sì, proprio come aveva fatto lei – ce lo racconta senza dimenticare nemmeno per un momento il dolore in una bellissima intervista di qualche anno fa, rilasciata in occasione del 25° anniversario della scomparsa di Peppino – quale fu il momento in cui decise che non avrebbe voluto trasformarsi semplicemente nella mamma di una vittima di mafia, e scelse con orgoglio di cominciare a lottare contro quel nemico che le aveva ucciso Peppino, per essersi impegnato in prima linea per estirparla. Quella mafia che aveva sentito tra le mura di casa, con i suoi articoli e le sue dirette da ‘Radio Aut’.
Prima c’era stata la paura, poi la tragedia: il 9 maggio 1978, una data emblematica nella storia sociale e politica del nostro paese, Peppino era stato barbaramente assassinato. Il suo corpo, adagiato sui binari della ferrovia, era stato fatto esplodere con un carico di tritolo, quasi a simboleggiare la volontà di distruggere sia la sua l’immagine sia la lotta della quale si era fatto promotore. E dopo pochi giorni lei, Felicia, data in sposa ad un mafioso, aveva trovato un magistrato pronto ad aiutarla e aveva deciso di costituirsi parte civile, di credere che vi fosse chi avrebbe operato a servizio della legalità per garantire la giustizia. E di lottare affinché venisse fatta chiarezza e venissero arrestati i responsabili della morte del suo Peppino.
‘Tu non devi parlare. Fai parlare me, perché io sono anziana, la madre, insomma non mi possono fare come possono fare a te’”, aveva detto all’altro suo figlio, Giovanni. Giovanni che, con la figlia Luisa, stessa dolcezza e determinazione di nonna Felicia, oggi porta avanti il ricordo di Peppino, il cammino con i “compagni” e soprattutto ‘Casa Memoria’, il simbolo di quei cento passi dall’abitazione del mafioso Badalamenti.
Il resto, ormai, è storia. La mafia “non si combatte con la pistola ma con la cultura”, anche questo amava dire Felicia, esattamente come amò fare Antonino Caponnetto. E con la bellezza, come diceva Peppino. Educare alla legalità è educare alla bellezza. Perché la bellezza è potente. Quella bellezza che trabocca nelle strade, nelle piazze, nelle chiese, nei palazzi, nei musei, nelle tradizioni delle nostre città. Quella calpestata e vilipesa nelle forme più selvagge e criminali, di cui a volte resta solo il ricordo.
Se conosciuta, quella bellezza è in grado di infiammare i cuori: si trasforma in un’arma potentissima contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. La più potente per ribellarsi, per smascherare le ingiustizie e i soprusi di chi rapina e deturpa il nostro Paese. Alla bruttezza ci si abitua, ci si rassegna, ma chi ha conosciuto la bellezza non potrà mai rassegnarsi a restare in silenzio. Qualcuno ha detto che ogni qual volta si pronunciano i nomi di Peppino Impastato e di Felicia Bartolotta un pezzetto del castello della mafia crolla.
Ed oggi, dopo 42 anni, quei nomi fanno sempre più paura.