Il “virus” della parola
I

La scelta delle parole che si usano in una società è importante. Esse ci dicono molto sugli ideali, le idee, la visione politica e del mondo che si possiede. Lo sa bene chi si occupa di sociolinguistica, la branca della linguistica che studia la connessione che intercorre tra il linguaggio e la società: al mutare delle condizioni sociali (in senso diacronico o diastratico), il linguaggio si adatta.

L’Italia contemporanea, da quasi un decennio a questa parte, ha vissuto un periodo piuttosto uniforme da questo punto di vista. Solo di questi tempi si può scorgere una netta frattura: un prima e un dopo virus. Quali erano le parole del prima? Alcune circolavano da tempo raccogliendo forza e potenza come una valanga. Sembrano lontanissime, eppure erano la regola solo l’altro-ieri. Anti-establishment, per citarne una. Il “popolo” era contro l’“élite”, “italiani” contro “anti-italiani” (o burocrati di Bruxelles, o tedeschi, o francesi). Il linguaggio usato non era certo guerresco – troppo, troppo! –, piuttosto rappresentava una guerriglia portata avanti in modo scomposto e disordinato, ma con quella “vitalità barbarica”, declinata da Augias, che la rendeva efficace. I nemici erano identificati non proprio precisamente: gli immigrati (i giacobini lor seguaci sapevano essere più precisi: gli africani), l’Europa, la sinistra. Infine, il crollo, ma un crollo a metà, ancora disarticolato e scoordinato, condensato in una parola: Papeete. Soprattutto una tendenza diffusa: prendere una parola e tirarla, stracciarla, usarla fino allo sfinimento anche quando non entra più, per poi gettarla via. Consumismo lessicale.

Sembrava tutto ripreso, tutto più o meno riassettato. Poi, come una ghigliottina, il virus. Il colpo che ha temporaneamente disorientato e ammutolito tutto ciò che c’era prima. Quali le parole inserite nei dibattiti al tempo del coronavirus? I tecnicismi, certo, prima per lo più ignoti e ora presi in prestito da tutti, politici, giornalisti, cittadini: i tamponi (e un neologismo: “tamponare”), R0, misure di contenimento, terapia intensiva, mascherine (chirurgiche, FFP2, FFP3, con o senza valvola…). Ma della ormai fu Fase 1 non è questa la parte più interessante. I tecnicismi attengono al lessico specialistico e regrediranno quando l’argomento sanitario sparirà dai nostri interessi.

È interessante invece porre al centro un ridotto campione rappresentativo di parole rivolte alla società in questo periodo di reclusione forzata. Intanto “quarantena”, parola per indicare il confinamento domiciliare, abusata qui in Italia (in Francia confinement, analogamente in Spagna con confinamiento, negli Stati Uniti lockdown, termine che ha attecchito anche da noi): essa affonda le radici nella cultura biblica e indica il periodo di quaranta giorni di digiuno per purificarsi dal peccato. Molti lo pensano, qualcuno lo sostiene apertamente: il virus come punizione divina al peccato dell’uomo. Redimersi distruggendo il peccato. E cos’è, o chi è, il peccato? Sembrerebbe una campagna di una cricca di persone sovraeccitate che fanno fronte contro un nemico comune, eppure il fronte aperto è interno alla chiesa cattolica e coinvolge tutti: il governo, il Papa (nel mirino), i neofascisti di Forza Nuova e soprattutto il leader del partito con il più alto consenso in Italia ad oggi: Matteo Salvini (si veda “Chiese aperte” di Report del 20 aprile). Ma andiamo al decalogo delle regole da adottare: vietati gli “assembramenti”, parola per un gruppo di persone riunito con fare soldatesco, dunque ostile, pronto alla lotta, a nuocere chiunque si trovi sulla strada, e che ora indica qualsiasi gruppo di persone riunito. Tu, in gruppo anche occasionale, come in fila davanti alle poste o al supermercato, sei un criminale e, mi dispiace, devo segnalarti. Distanziamento “sociale”, non fisico. Ogni ponte sociale, comunicativo, interpersonale va tagliato, distrutto. Niente più sorrisi, coperti dalle mascherine, gli sguardi ruotano rapidi per cercare il malintenzionato, lo sconsiderato pronto a rompere la distanza di sicurezza; occhi delatori, si intende, pronti a denunciare qualsiasi atto di pericolo. Evitare gli atteggiamenti “promiscui”, parola che indicava, nel passato non tanto lontano della morale piccolo borghese, qualsiasi atteggiamento erotico non ‘naturale’ (in pubblico, adultero, omosessuale) e dunque carico di peccato, mentre ora ritorna – più vitale che mai – a designare qualsiasi approccio non distanziato e non neutro.

Ma le parole sarebbero molte. Tantissimo è stato scatenato sulla parola “congiunti”; non possiamo più leggere runner senza immaginare, e la farsa ha del tragico, elicotteri impegnati nell’inseguimento (in diretta televisiva); “state a casa” è stato tutto: hashtag, appello accorato o accompagnato da un gingle in tv, imposizione governativa, insulto gridato dai balconi. Infine, aggiungerei anche Tinder, la app di incontri più usata, interessante per un elemento: i profili degli italiani, nella descrizione personale, segnalano quasi sempre in apertura “profilo creato per vincere la quarantena”, come se in fondo sapessero che essere lì è un peccato – ci risiamo! –, ed è necessario addurre una giustificazione.

Sia chiaro, fare un’analisi stilistica o comunicativa nel mezzo della crisi sanitaria, sociale, economica più grave degli ultimi sessant’anni è insensato, almeno in questa fase. Non si è voluto fare questo. Ma il virus, e in generale le crisi, funzionano come un enorme filtro tirato su dai fondali della società. Nelle maglie strette resta tutta la parte solida, la parte sostanziale di solito spersa nei fluidi delle vite troppo veloci, troppo impegnate, troppo distratte. Dalle parole di questa emergenza è emerso il modello culturale e sociale in cui l’Italia, la nostra cara e appesantita Italia, è ancora inceppata. La situazione è più grave che in passato perché all’orizzonte non si vedono vie di fuga, nel senso che non c’è modo di battersi perché non c’è energia (se un giovane sente la necessità di giustificare la presenza su un social di incontri frequentato da altri giovani, quale energia ha da contrapporre al mondo?). Manca la forza, manca la vitalità, lo spirito; tutto è ammantato di retorica, anche e soprattutto la cultura, ed è la cosa più grave.

Il tempo della riflessione è finito. Sono vent’anni che ci imponiamo di riflettere. Questa società è figlia diretta degli anni del terrorismo iniziati nel 2001. Questa società ha già attraversato l’epocale crisi del 2008. Questa società ha fallito il suo percorso facendosi trovare impreparata e troppo vecchia alla crisi del 2020. Non ci avviciniamo alla fine di un’epoca, già ci siamo dentro da tempo: il modello sempre più seguito è lontano dalle democrazie da noi intese (Putin, Orbán, Trump); le crisi economiche e sociali ci funestano ai primi segnali di ripresa da quella precedente; ciò che ritenevamo stabile e proiettato verso il futuro si sbriciola su sé stesso e non per semplice disattenzione.

Ciò che è stato costruito dai nostri bis-nonni, all’indomani della Seconda Guerra mondiale, non regge più in piedi da solo. Basta cantare le loro canzoni il 25 aprile affacciati alla finestra? Basta dichiararsi antifascisti? Basta continuare a credere di essere dalla parte giusta e farsi beffe di chi si fa raggirare dalla retorica sovranista? Non dobbiamo mettere noi in discussione il sistema, è il sistema che già si è messo in discussione, da tempo ormai. Essere all’altezza di questo momento di passaggio fondamentale non è cosa da poco. La pandemia, e ciò che è emerso da essa, ce lo ricorda con prepotenza e accelera notevolmente questo processo. Una cosa è certa: se non ne prendiamo coscienza ora – e già il ritardo è evidente – come saremo in grado anche solo di provarci?


Luigi Bianco – Studente dell’Università di Roma “Tor Vergata” e blogger

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