Lavoratrici e lavoratori dello spettacolo, che fare (ora)?
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La crisi funziona sempre come un amplificatore delle disfunzionalità di sistema. Il trauma interrompe il tessuto della quotidianità e della “normalità”, ma cosa fare della interruzione sta alle vittime del trauma stesso.

Sta a loro, difatti, decidere se trasformarla in un’effettiva opportunità di cambiamento, una concreta discontinuità rispetto al passato quindi un laboratorio di costruzione del futuro, o viverla semplicemente come un’attesa del salvifico ripristino.

Come diceva Sartre “libertà è quello che facciamo di quello che ci è stato fatto”. A noi, dunque, sta la scelta su cosa fare dell’attuale frangente storico che ci accomuna.

Quello che stupisce in senso positivo è rilevare come l’emergenza abbia finora catalizzato, come mai in precedenza, non solo l’interesse dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo verso i sistemi di tutela dei propri diritti, ma anche quanto li abbia spinti a collaborare in vista di proposte e soluzioni condivise, quindi a concepirsi più vicini.

Nel settore lavorano specifici professionali molto diversi, da quello artistico a quello organizzativo fino ai vari comparti tecnici, e mai come in questo momento le voci più lucide interne al mondo del lavoro del settore hanno compreso l’importanza della rivendicazione condivisa, dell’unità.

L’orientamento ideologico del nostro mondo globale, la spinta individualista del capitalismo post guerra fredda, sembrava destinata a non esaurirsi.

Ancor più in questo nostro settore, particolarmente articolato e opaco, era evidente il vasto sistema di solitudini incomunicanti: un arcipelago di realtà divise e su molti aspetti ridotte alla vicendevole diffidenza, quando non alla sorda ostilità.

Serviva quindi una battaglia comune da affrontare, un interesse condiviso. Il terrore della desertificazione che la pandemia fa balenare davanti ai nostri occhi ha compattato, per la prima volta, le fila di un mondo – quello delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo – stolidamente ripiegato, da decenni, sul proprio particulare.

Ma la preziosa dote non è eterna, e dissipare l’occasione data dalla storia è molto facile.

L’unico strumento utile alla causa dei lavoratori e delle lavoratrici del settore è la sinergia fra tutte le categorie interne, da quelle artistiche a quelle tecniche.

Tutti abbiamo preso coscienza dell’esistenza di una limitazione dalla quale sono generati molti dei problemi materiali attuali delle professionalità dello spettacolo: la mancanza di riconoscimento del settore come un valore.

Un valore si difende e si tutela. Su un valore si investe e si fanno le riforme strutturali necessarie perché possa adeguarsi e rilanciare la propria spinta catalizzatrice al passo coi tempi. Un valore non è un settore problematico, non è un comparto critico a cui è necessaria assistenza. Non è un’appendice, un corpo parassitario da curare per bontà d’animo. Un valore culturale è una parte essenziale del funzionamento sociale, un elemento fondamentale per il benessere comunitario e il virtuoso procedere delle relazioni sociali. Questo deve essere, credo, il focus delle richieste e delle rivendicazioni di chi lavora nello spettacolo: il riconoscimento del valore culturale di un mondo che crea benessere, crea sviluppo intellettuale, crea economia. Se questo riconoscimento sussiste, allora si può organizzare il salto dalla vacua e momentanea filantropia verso i disperati “lavoratori che tanto ci fanno divertire e appassionare” – foriera inevitabilmente soltanto di logiche di intervento paternaliste e assistenzialiste – alla vera tutela e al vero rilancio di quello che è a tutti gli effetti un polmone produttivo del Paese.

Messo questo punto fermo alla base del discorso, si può ragionare sulle direzioni da prendere, concretamente, per i provvedimenti necessari alle varie categorie delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo.

Una breve introduzione allo scenario attuale è necessaria. La previsione riguardo le perdite degli impianti pubblici e delle strutture private nel settore dello spettacolo dal vivo è orientabile attorno al 70 per cento rispetto alla passata stagione. Basti considerare un mix di mancati incassi e spese aggiuntive per la sanificazione e la formazione sanitaria dei dipendenti, il tutto fra limitazioni spaziali dovute al distanziamento sociale e assorbimento dei voucher di recupero della scorsa stagione.  

È facile immaginare come un simile scenario recessivo sia sovrapponibile anche alla realtà della musica dal vivo e al lavoro nell’audiovisivo, pur stante la teoricamente maggiore facilità di ripresa dei lavori per quest’ultimo (le incognite date dall’enorme difficoltà nel trovare coperture assicurative per i set di nuova apertura rappresentano, infatti, uno scoglio difficilmente valicabile per produzioni cine televisive di qualunque ordine di importanza e grandezza). A questo si aggiunga il tema decisamente problematico della paura dello spettatore davanti all’ipotesi di recarsi in luoghi chiusi come i teatri, i cinema o gli auditorium.

Per riuscire a dare risposte davvero efficaci non ci si può, dunque, limitare ai pur necessari interventi attuali in favore di artisti, tecnici e operatori dai contratti “atipici”. Servono interventi radicali, e quelli sui quali ritengo essenziale attivare da subito i rispettivi processi legislativi sono due: l’attuazione del CODICE DELLO SPETTACOLO (le cui linee generali furono già approvate nel 2017, senza che poi venisse dato corso ai rispettivi decreti attuativi) e la definizione di un CODICE DELL’ “INTERMITTENZA”, su modello francese o belga, per la regolamentazione strutturale delle tutele per i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo del settore (fronte, quest’ultimo, sul quale all’interno del sindacato si è mossa un’ampia e produttiva riflessione).

Quello che intanto sta già accadendo, la sinergia delle varie articolazioni professionali del settore e la ricerca di soluzioni “dal basso” per la creazione di opportunità di lavoro, va disciplinato attorno a proposte concrete e immediatamente praticabili.

Sul fronte dello spettacolo dal vivo – la cui riapertura reale non coinciderà di fatto con quella statuita dal Comitato Tecnico Scientifico per l’emergenza Covid – una possibilità individuabile sarebbe forse l’istituzione di coordinamenti territoriali, su base regionale, per l’organizzazione e il censimento degli “spazi teatrabili nel rispetto delle norme di sicurezza sanitaria” indoor e outdoor (spazi anche finora non utilizzati a fini performativi); coordinamenti i quali dovrebbero essere composti da strutture accomunate da un modello virtuoso di progettazione della prossima stagione teatrale attraverso bandi (indetti da Comuni o teatri istituzionali) per la fornitura di piccoli budget produttivi, spazi di prova e recite, in modo da costruire nel breve termine opportunità di lavoro per artisti e professionalità tecniche. Strada praticabilissima, questa, anche senza passare per l’istituzionalizzazione di detti coordinamenti e bandi – al Governo si dovrebbe chiedere, e con la massima urgenza, la creazione della possibilità di percorrere questa buona praxis attraverso la dotazione, in capo ai Comuni, di risorse per la sanificazione degli impianti teatrali e musicali (magari recuperate attraverso i fondi europei per la spesa sanitaria d’emergenza): sono questi, fra gli altri problemi, gli oneri che rischiano di bloccare l’attività dei teatri minori e di inficiare anche quella delle strutture più grandi.

Questi sarebbero, credo, interventi “dall’alto” e “dal basso” concretamente consequenziali a una vera e radicale attribuzione di valore al settore.

Quanto alla responsabilità nuova cui sono chiamati i lavoratori e le lavoratrici, è evidente che un iter come questo, un complesso di interventi tanto articolato, non possa essere condotto per iniziativa personale, prescindendo da una sana e organizzata interlocuzione con la rappresentanza sindacale delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo. Quanto di necessario ci si pone di fronte è un’assunzione integrale di responsabilità, il che significa smettere di rivendicare tutele e riforme particolari e condurre il confronto con istituzioni e corpi produttivi con un fronte unitario, in cui una parte non prevalga sull’altra nel rapporto con i corpi intermedi e con le istituzioni.

Non è più il tempo di chiedere cosa il sindacato abbia fatto per noi, ma è il tempo di fare noi qualcosa per il sindacato, perché solo un percorso di legittimazione della rappresentanza sindacale può garantire forza ai tavoli di contrattazione. Il dibattito fra le varie associazioni o coordinamenti di categoria deve essere spostato all’interno del sindacato, almeno in questa fase emergenziale senza precedenti. Il tempo del discredito e della dissociazione arriverà eventualmente dopo, se si valuterà che da parte del sindacato non si saranno condotte con sufficiente forza le battaglie necessarie. Non ha senso reclamare la mancanza di forza di una realtà di rappresentanza sulla cui forza non si è mai scommesso, alla quale noi lavoratorx finora non abbiamo inteso dare alcuna importanza.

Che fare, dunque: forse, intanto, domandarsi se questi non possano essere dei punti di partenza coerenti per una politica di rivendicazione di valore forte e credibile.

Gli artisti sono lavoratori e lavoratrici. Il rispetto della responsabilità civile che questo comporta deve di certo diventare chiaro per noi, prima che il riconoscimento che pretendiamo possa esserci legittimamente dato.

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2 COMMENTI

  1. Lei auspica un’accelerazione del processo di istituzionalizzazione del settore dello spettacolo, avviato vent’anni fa e poi congelato nei lunghi anni della grande crisi, e contemporaneamente, un’azione collettiva consapevole del valore di cui lavoratrici e lavoratori dello spettacolo sono portatori. E si augura che ciò che non è stato possibile fare nei venti anni passati possa essere avviato con vigore in questa emergenza che ci ha reso tutti orfani del piacere di incontrarci per ascoltare musica o partecipare a eventi teatrali. Purtroppo io non sono tra quelli che pensano che la pandemia possa essere anche un’occasione per realiizzare ciò che di buono in questo paese si sarebbe potuto fare e non si è fatto. Sono un’anziana pofessoressa di sociologia e il mio mestiere, ma anche l’esperienza di questi giorni mi, inducono a non farmi troppe illusioni. Anzi, mi infastidisce un po’ la retorica che accompagna il racconto degli eventi luttuosi cui assistiamo.
    Ma apprezzo il suo ottimismo e soprattutto la sua capacità di vivere il suo mestiere in maniera meno individualistica di altri suoi colleghi. E non solo in questa circostanza. Le auguro di cuore che la sua iniziativa abbia almeno un poco del successo che sta avendo il suo lavoro artistico di questi anni.

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