Il design della distanza
I

Tratto da Covid and the City. Le città che saremoserie POST sulle città dopo il coronavirus. Domande, appunti, proposte concrete.

Saremo capaci di trasformare una crisi globale in un’occasione di ripensamento delle nostre città e delle nostre vite? Riusciremo ad approfittare di questo stand-by collettivo per cambiare il lavoro, la scuola, il welfare, il nostro modo di organizzarci e di muoverci?


Dobbiamo fare i conti con l’incongruo. Con un’improvvisa inversione di marcia.Se il design degli spazi pubblici era stato concepito fino ad oggi per facilitare la prossimità, l’incontro e lo scambio, per favorire il comfort e le relazioni tra le persone, oggi è chiamato per la prima volta a dare forma alle loro distanze.Una parte di noi resiste a questa prospettiva, forse perché abbiamo alimentato finora il nostro immaginario sugli “spazi in comune” con i concetti di prossimità-vicinanza-compresenza di diverse popolazioni in uno stesso luogo. Quel nostro immaginario popolato di luoghi che tollerano bene le folle, le file, la calca; ciò vale sia per le grandi metropoli sia per i piccoli centri urbani. Proviamo a pensare al suo contrario.Tutta la filmografia e la letteratura degli ultimi decenni, distopiche e di fantascienza, quando vogliono mettere in scena l’uomo privato della sua interiorità, della sua anima, sterilizzato quasi a diventare un robot, lo rappresentano in uno spazio magari condiviso con altri uomini ma in assenza di prossimità. La percezione di due uomini nel medesimo luogo, senza prossimità, corrisponde a quella di due autòmi, come se allontanando forzatamente un essere vivente dall’altro, si perdesse la loro umanità.

Perché è la vicinanza fisica che rende l’essere umano, “umano”.
Nella narrazione fantascientifica, infatti, lo spazio del post-human è quasi sempre asettico, iperigienizzato, senza la minima promiscuità fisica.

Espatriati da Egitto, Siria e Libano in attesa dei controlli al loro arrivo in Kuwait
Protesta in Piazza Rabin a Tel Aviv contro la possibile alleanza tra Benny Gantz e Benyamin Netanyahu, 19 aprile 2020

Oggi che il design urbano è chiamato a progettare relazioni “a distanza di sicurezza” si trova di fronte due strade.
La prima accentua il carattere privato e individuale della città. Pensiamo ai dettami della cosiddetta shut-in economy (letteralmente: economia chiusa, tra confini): mondi privati, senza relazioni dirette, dove lo spazio collettivo perde significato in favore di relazioni di prossimità nel privato e di consumi personalizzati, on-demand, naturalmente on-line. Un ritorno massiccio al privato in nome della salute collettiva, sacrificando la questione ambientale.O pensiamo all’architettura difensiva, che negli ultimi anni è stata utilizzata in tante città europee per disincentivare l’uso degli spazi pubblici da parte di alcune categorie di persone.Panchine con braccioli che impediscono di potersi sdraiare, spunzoni anti-seduta disposti davanti alle vetrine, pensiline di autobus senza seduta in cui poter sostare solo pochi minuti evitando di bivaccare, dissuasori acustici che emettono un sibilo ultra-sonico fisiologicamente percepito dai soli ragazzi più giovani. In Francia li chiamano arredi disciplinanti: quelle soluzioni capaci di determinare i comportamenti delle persone negli spazi collettivi.In nome del controllo e di una presunta maggiore sicurezza dei luoghi si snatura uno dei caratteri più forti delle nostre identità urbane: la capacità di accoglienza e di integrazione.

Architettura ostile a New York

La seconda assume la distanza tra le persone (necessario e temporaneo stadio per mitigare l’impatto del virus) come occasione propizia per riscrivere la grammatica di alcuni spazi urbani. Ci riferiamo in particolare a quelli “connettivi”: i marciapiedi e le piccole strade – che oggi sono per la gran parte destinate alle auto, sia parcheggiate sia in movimento – le pensiline delle fermate di autobus e tram, le scale strette (mobili e non) delle metropolitane, le piazzette di quartiere, le piccole aree gioco dei bambini. Viali e grandi piazze saranno naturalmente più in grado, senza troppi sforzi, di garantire il distanziamento necessario.In questi luoghi di passaggio e smistamento, caratterizzati da una pur minima concentrazione sociale, il design urbano può muovere da immaginari differenti da quelli della costrizione e della norma. Può attingere al repertorio ormai ampio dell’urbanistica tattica, che sperimenta inedite potenzialità dei luoghi allestiti a funzioni temporanee; della fun theory, che lavora sulla emotività e creatività delle persone; del nudging, inteso come “l’architettura delle scelte”, che orienta debolmente i comportamenti umani, facendo leva sulla dimensione del gioco e del preconscio; della filosofia delle città-senza-auto che lavora su marciapiedi, piste ciclabili, corsie per i monopattini, facilitando ogni forma di mobilità lenta.L’abaco di possibilità – che abbiamo voluto richiamare in alcune delle foto a corredo – è ormai abbastanza ampio. Ma non è sulla singola scelta che vogliamo concentrare la nostra attenzione, quanto sul senso di questa direzione progettuale.L’immaginario di riferimento può essere quello del gioco di strada, che tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo sperimentato nella nostra infanzia. Segni sul terreno, frecce, linee, cantoni, quadri, facilitano un gioco che si fonda sulla distanza e sul coordinamento, sul movimento ma anche sulle relazioni. Ma soprattutto ci interessa il messaggio di fondo, subliminale, raccolto dall’intelligenza emotiva di ciascuno di noi: l’altro non è un nemico da temere, ma un cittadino che abita il nostro stesso spazio in modo coordinato, con quel rispetto reciproco dei tanti sportivi diversi impegnati sullo stesso campo di atletica. Un movimento regolato e suggerito da segni e regole di un gioco nuovo, che ci consentirà di guardarci, di parlarci e di interagire. 

Design e creatività avranno una missione difficile ma possibile: ricordare che il virus non coincide con il corpo degli altri.

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