Dall’emergenza al rilancio. E’ questa la sfida che ha di fronte l’Italia a poco più di quattro mesi dall’inizio nel nostro Paese della pandemia Covid-19.
Se i numeri epidemiologici mostrano un sensibile miglioramento della situazione, non altrettanto può dirsi per quelli economici e sociali. Nel 2020 le stime di calo del PIL oscillano tra -8 e -13 per cento. Nel solo mese di maggio sono state autorizzate 849 milioni di ore di cassa integrazione, che equivalgono a 5 milioni occupati a tempo pieno equivalente. Un numero record.
Dal 4 maggio le attività produttive sono state progressivamente riaperte, ma nessuno è in grado di prevedere con certezza quanto tempo sarà necessario per recuperare le enormi perdite di questi mesi.
Dalla metà di marzo il governo ha varato tre decreti – Cura Italia, Liquidità e Rilancio – che nel complesso hanno messo in campo un ammontare di risorse senza precedenti per fronteggiare la recessione: 75 miliardi (4 punti e mezzo di PIL), che diventano 180 miliardi in termini di saldo netto da finanziare. Di questi, poco meno di 8 miliardi sono stati destinati al rafforzamento del sistema sanitario e della protezione civile; 27 miliardi al lavoro e alle famiglie (cassa integrazione, il contributo per autonomi e professionisti, i congedi parentali, il voucher baby sitter, le misure per aiutare i più poveri); 31 miliardi alle imprese, tra garanzie per la liquidità, contributi a fondo perduto, rinvii ed esenzioni fiscali, interventi per il rafforzamento patrimoniale e a sostegno dei settori più colpiti; 6 miliardi per gli enti territoriali; 3 miliardi per le altre misure.
Al di là delle polemiche più o meno strumentali dell’opposizione e delle proteste per la tardiva “messa a terra” di alcune misure, la manovra varata dal governo è stata di dimensioni superiori alla media degli altri paesi europei, con un mix di interventi molto simile, con una inevitabile prevalenza di interventi di carattere emergenziale.
Ora, però, è necessario cambiare passo, progettando un vero e proprio piano per la ripresa che permetta all’Italia di mobilitare tutte le risorse pubbliche e private – a partire da quelle, ingenti, messe a disposizione dalla UE – per riavviare un nuovo ciclo di sviluppo.
Il “recovery plan” non può essere scritto nel chiuso delle stanze di Palazzo Chigi o del MEF. Va fatto crescere e vivere nel Paese, con un dialogo sistematico con le organizzazioni economiche e sociali e le istituzioni territoriali. Le direzioni di marcia sono quelle indicate dagli Stati Generali: modernizzazione, transizione ecologica e inclusione sociale, territoriale e di genere.
La pandemia ci offre, in questo quadro, una serie di lezioni di cui dobbiamo tenere conto.
La prima: la sanità non può più essere considerata un costo da tagliare. E’ un investimento decisivo per il futuro del Paese.
La seconda è che la crisi rischia di aggravare le vecchie disuguaglianze e di crearne di nuove. L’Italia è entrata nella pandemia con una rete di protezione sociale piena di buchi. Milioni di dipendenti tagliati fuori dagli ammortizzatori sociali, nulla per gli autonomi, i professionisti e molti lavoratori precari. Lo sforzo per porre rimedio a queste lacune è stato lodevole. Ora, però, serve un passo in più, con l’introduzione di un ammortizzatore sociale universalistico, disponibile per tutti gli occupati e parzialmente a carico della fiscalità generale. L’accesso a Internet è uno dei nuovi fattori di disuguaglianza. Una quota non piccola delle famiglie ne è privo ed è rimasta tagliata fuori dall’apprendimento a distanza e dallo smart working. Completare rapidamente la realizzazione della banda è un punto decisivo non solo per la competitività economica dell’Italia, ma anche per il suo grado di coesione sociale.
Terza lezione: la pandemia ha evidenziato che la tempistica di attuazione delle misure di sostegno economico e sociale ha un’importanza decisiva. La fiducia nei confronti dei cittadini e delle imprese è la via maestra per semplificare le procedure della pubblica amministrazione e ridurre i tempi di implementazione. La jungla di controlli ex ante va radicalmente disboscata, imponendo come regola generale l’autocertificazione e rafforzando i controlli successivi. La “paura di firmare” di tanti funzionari pubblici va superata rivedendo e circoscrivendo fattispecie come l’abuso di ufficio e il danno erariale.
La quarta lezione per il futuro investe la sostenibilità ambientale del nostro modello di sviluppo. Al di là del dibattito aperto su una possibile connessione tra l’inquinamento atmosferico e la diffusione della pandemia, l’emergenza sanitaria ha evidenziato con ancor più forza la necessità di fare della conversione ecologica della nostra economia un punto chiave per il futuro.
Dobbiamo accelerare, perché su diversi fronti siamo in ritardo. Non sarà semplice: gli interessi in gioco sono enormi e la transizione verso un’economia a basse emissioni non sarà una passeggiata di salute. Se non ora, però, quando?
Antonio Misiani, viceministro dell’Economia