“Mai passivo. Con un punto di vista originale sul mondo. Uno sguardo ribelle a cui si univa una profonda conoscenza della musica, una sensibilità e una capacità di comunicazione unica. Scriveva ogni giorno le sue partiture, con una passione mai sopita. E naturalmente il grande amore per la moglie e per la famiglia. Il tutto condito di ambizione e caparbietà. Un vero compositore”.
Questo era lo spartito della sua vita e questo è, in estrema sintesi, Ennio Morricone nelle parole di Alessandro De Rosa, scrittore, compositore e amico del maestro con cui ha realizzato l’autobiografia in conversazione dal titolo “Inseguendo quel suono”. Lo stesso Morricone definì il testo come “il miglior libro che mi riguarda, il più autentico, il più dettagliato e curato. Il più vero”.
Per andare oltre agli omaggi, agli aneddoti e ai retroscena più conosciuti, per andare oltre ai coccodrilli redazionali, spuntati a grappoli nel web, dopo l’annuncio della morte del premio Oscar, Alessandro De Rosa ci guida, proponendoci lo spirito più autentico dell’uomo che, anche nell’atto finale della sua vita (scriversi da solo il necrologio), sceglie di essere ricordato per il suo lavoro e non come protagonista.
Eppure protagonista lo è stato. Protagonista con le sue musiche nel nostro panorama di memoria collettiva condivisa. Da “Per un pugno di dollari” a “Mission”, da “C’era una volta in America” a “Nuovo cinema Paradiso” fino a “Malena”, Morricone (o meglio la sua musica per film) appartiene di fatto ad un bagaglio emozionale che condividiamo anche con chi non conosciamo. Ed in questo Morricone riuscì in uno dei suoi intenti: rendere il mondo un posto con meno barriere e più ponti. De Rosa ha avuto il privilegio di condividere dal 2011 in poi tante chiacchierate con l’autore delle colonne sonore più belle del cinema italiano e mondiale. Conversazioni sull’attualità, sulla musica, sulla morte, sulla vita.
“Era soprattutto un pioniere, uno sperimentatore. Ennio – ci racconta De Rosa – amava ricordare il film ‘Un tranquillo posto di campagna‘. Il regista Elio Petri gli promise da subito che, al di là di come sarebbe andata, avrebbero lavorato insieme solo a quel film, ma naturalmente non fu così.
Ennio rischiò tutto, e non solo propose a Petri il suo brano ‘Musica per 11 Violini‘, una partitura rigorosa che arrivava dalla sua produzione di ‘musica assoluta‘ e realizzata con le tecniche permutate dal serialismo integrale su cui aveva cominciato a riflettere maggiormente dal ’58, al suo ritorno da Darmstadt in Germania, dove si tenevano, e si tengono i Corsi Estivi di Nuova Musica, ma portò per la prima volta il ‘Gruppo d’Improvvisazione Nuova Consonanza‘ nel cinema, in cui militava già da tre anni. Il Gruppo ricercava vie sperimentali, cardine era l’improvvisazione, si fuggiva ogni cliché, smontando e ricavando anche dagli strumenti timbri inconsueti. E così ciò che venne fuori in quel film fu uno dei tanti cortocircuiti che Morricone rese possibile durante la sua vita.
Un cortocircuito non solo musicale, ma culturale, di situazioni sociali allora lontane e talvolta inconciliabili. Questo era l’aspetto di Morricone meno conosciuto, il Morricone che tra mille condizionamenti protendeva sempre ad una libertà superiore”.
“C’è moltissimo da scoprire su Ennio Morricone” prosegue De Rosa che ci spiega il concetto tramite la scena finale di un film, uno di quelli meno conosciuti. Fräulein Doktor è un film del 1969 diretto da Alberto Lattuada che racconta la storia della misteriosa spia tedesca, realmente esistita, durante la prima guerra mondiale – “Morricone condanna la guerra e le atrocità raccontate in quel film con una musica spesso dissonante e complessa. Ma poi, nella scena di chiusura quando la spia viene catturata e fatta salire in auto, si toglie la parrucca e mostra la sua follia tra pianti e risa, lui scrive una musica molto diversa e in grado di far scaturire in chi ascolta e guarda nuovi sentimenti. Morricone scava ancora più a fondo di ciò che l’immagine mostra e insieme alla follia del personaggio emerge un senso di compassione. Praticamente l’intero finale del film viene spostato. Questo era un esempio del suo sguardo autentico, sensibile e profondo capace di guardare oltre l’apparente”.
“Ma non pensate che tutto sia stato una passeggiata. Morricone ha lavorato tutta la sua vita per raggiungere i suoi traguardi, lottando, talvolta anche con se stesso, continuando a ricercare – aggiunge De Rosa che spiega come il suo mentore abbia combattuto con il suo lavoro chi voleva incasellarlo negli schematismi del cinema d’autore contro il cinema popolare, dell’allora cosiddetta ‘cultura alta e ‘bassa‘. – Bisogna pensare che soprattutto negli anni ’60 e ‘70 scrivere musica da concerto e al contempo scrivere arrangiamenti vincenti per canzoni popolari, così come lavorare al tempo stesso con Pasolini, Bertolucci e con Sergio Leone era considerato qualcosa di inconciliabile. Lo stesso Bertolucci venne accusato di aver tradito il cinema d’autore per il suo lavoro in ‘Cera una volta il west‘”.
“Mi ha fatto enormemente piacere quando nella prefazione del nostro libro ha scritto che il percorso compiuto insieme, e che in quel momento ci portava a quella pubblicazione, non era assimilabile al solo ricordo, ma ad un vero e proprio cambio di prospettiva su alcuni accadimenti ed eventi della sua vita – ci tiene a sottolineare De Rosa – lui, sempre concentrato, impegnato nel lavoro e proiettato verso il futuro, credo riconsiderò e rimise in prospettiva molte questioni che lo avevano preoccupato, anche sul rapporto tra “musica assoluta” e “musica applicata”. Riosservava la sua vita e si rendeva conto di non essersi fatto mancare nulla. Di essere il compositore che voleva essere. Un compositore che è stato in grado di toccare tutte le esperienze del suo tempo.
Era anche fiero di aver contribuito a quell’importante riscatto nei confronti del cinema e più in generale della musica italiana nel mondo. Teneva molto al fatto di essere nato e cresciuto in Italia. Mi riferisco anche agli arrangiamenti fatti per Gino Paoli, Gianni Morandi e tanti grandi artisti quando lavorava per l’etichetta americana RCA che premeva affinché il linguaggio fosse più vicino a quello della musica statunitense. Ecco, aggiungo che lui incitava le nuove generazioni alla curiosità, ma anche allo studio e all’innamorarsi della storia che ci ha preceduto e che ci ha portato qui. Tale curiosità è applicabile anche alla musica, esortava al non fermarsi ad una sola idea di musica. Non perché ci sia nulla di male in quella più ‘mainstream’, o ‘di consenso‘ come la definiamo nel nostro libro, ma perché questo non precluda la possibilità di assaporare una diversità che può renderci più completi, profondi, migliori”.
“Era un uomo dell’ora et labora, si definiva talvolta scherzando una sorta di monaco benedettino. Si svegliava presto la mattina e, dopo la ginnastica, scriveva musica. La sua vita e la sua musica non si possono scindere, perché erano di fatto fuse. Lui spesso parlava della continuità nel lavoro come nella vita e nell’amore e non del colpo di fulmine, elemento che ha portato avanti anche nel rapporto con la moglie Maria e con la famiglia. La potenza persuasiva della sua musica proveniva anche da questi ingredienti”. Una ricetta magica che rimarrà scolpita nell’eternità della nostra mente.