“Il deserto sociale dei nostri ragazzi si combatte con la cultura”. Parla il Pojana, Andrea Pennacchi
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“Stasera porto Pojana alla Festa dell’unità”. Così scriveva su Twitter, mentre viaggiava da Trento a Modena in questa sua “estate molto movimentata” Andrea Pennacchi, attore teatrale che il grande pubblico italiano ha ormai imparato a conoscere e ad amare. Un personaggio atipico nel panorama artistico del nostro Paese ma che sicuramente, grazie a quel suo atteggiamento così genuino e al suo modo di comunicare così pop (nel senso di popolare, essenzialmente popolare), è riuscito a fare breccia nel cuore di tanta gente.

L’abbiamo incontrato e ne è venuta fuori una bellissima chiacchierata che ci ha aiutato a guardare la realtà con occhi diversi. A capire quanto, al di là degli slogan e delle frasi di circostanza, la cultura possa davvero aiutare una società come la nostra, attraversata, come gli ultimi fatti di cronaca hanno drammaticamente dimostrato, da inquietudini, spesso alimentate ad arte da una certa politica e da una certa stampa, che sfociano in odio e violenza.

Andrea Pennacchi, è un grande piacere conoscerti. Innanzitutto come hai vissuto questa strana estate del 2020, sia a livello personale che professionale?

“Di corsa. E’ stata, per fortuna, un’estate inaspettata. Pensavamo che tutto sarebbe rimasto chiuso e invece la riapertura delle attività ha fatto sì che ci fosse molta richiesta di spettacoli. Mi ha fatto molto piacere perché in realtà io non vedevo l’ora di tornare sul palco. Ovviamente siamo tutti molto attenti all’andamento di questo maledetto virus, ogni giorno di questa estate arrivavano notizie diverse. Credo che in tempo di pandemia sia così. E’ bello però, in tutto questo magma di voci, avere dei punti di riferimento sani e seri, che magari non danno necessariamente buone notizie, ma che sono comunque rassicuranti”.

Com’è fare teatro, tra mascherine, igenizzanti e distanziamento sociale?

“All’inizio è scioccante, è strano vedere il pubblico distanziato, cambia proprio l’alchimia tra te e il pubblico. Tutto questo però è compensato dalla gioia di poter condividere con la gente il piacere di fare la cosa che ami. Devo dire che per gli spettacoli all’aperto non senti neanche tanta angoscia, è solo una cosa strana. Al chiuso senti un po’ di paura in più, percepisci che anche il pubblico è più inquieto. Spesso in teatro senti tossire, una volta era solo un fastidio, adesso tutti si guardano in giro preoccupati. In questo senso, voglio dire che però ammiro doppiamente lo spettatore, che oltre a non rimanere a casa a vedere Netflix, ora vince anche le proprie paure. Per questo si crea qualcosa di speciale con il pubblico”.

Parliamo di te e del tuo lavoro. Mi è piaciuta molto una definizione di un collega giornalista che ha parlato della tua maschera, il Pojana, come di un personaggio molto locale, ma al tempo stesso molto “universale”. Perché secondo te un veneto così smaccatamente veneto piace tanto anche fuori dalla sua regione?

“Sicuramente questa è una cosa che cerco di ottenere. Amo molto la poesia di Caproni. Lui dice una cosa bellissima, cioè che il poeta è quello che scava nella propria autobiografia finché non arriva in fondo e trova quella roba che lo tiene in contatto con tutto il resto dell’umanità. Io credo che dovrebbe essere sempre così ed è per questo che credo di poter fare bene il mio lavoro solo partendo dal mio mondo, dal mondo che conosco e che mi ha cresciuto. Mi fa molto piacere vedere che a volte ho scavato talmente a fondo che scaturiscono delle reazioni bellissime, come quando leggi sui social un sardo che scrive ‘questo qui è veneto ma potrebbe essere il mio vicino di casa’ oppure un altro che dice che ‘ci vorrebbe un Pojana in Calabria’. Io dico sempre, un po’ scherzando un po’ pensandolo, che il Pojanistan confina con l’Alabama. In questo senso l’Italia, anche se qualcuno lo vuole negare, è il posto perfetto per avere questa molteplicità ma anche questa permeabilità di lingue, di culture, di abitudini”.

Altra definizione che mi ha molto colpito: “Un rugbista prestato al teatro”. Trovo questa descrizione molto bella perché restituisce molto del Veneto profondo, del suo legame con uno sport nobile e sanguigno come il rugby. La definizione prosegue con un’altra frase: “Uno che in una rissa vorresti sempre avere dalla tua parte”. Purtroppo in questi giorni, appena sentiamo la parola “rissa” il pensiero corre ai fatti di Colleferro e alla tragica morte del povero Willy. Cosa pensi di tutta questa vicenda?

“Guarda, due cose. La prima è: ‘Hai voglia di dire che non c’entra il fascismo’. Non si tratta di ideologia politica strutturata, ma siamo davanti ad una situazione in cui in quattro persone pestano uno e questo per me è fascismo nel senso letterale del termine, è squadrismo, punto. Sono bande che vanno a pestare e a terrorizzare. E’ il fascismo che invece delle camicie nere usa le camicie a fiori, i tatuaggi, i piercing. Detto questo, da rugbista e marzialista, sono sconvolto dal dibattito sulla necessità di chiudere le palestre. E’ una follia, le palestre sono per il 99,9% presidi di civiltà, comprese quelle di MMA, dove nessuno ha il mito di pestare una persona in quattro. C’è una superficialità incredibile e manca la volontà di affrontare i veri problemi che riguardano i nostri ragazzi, affetti da una schizofrenia impressionante. In questo momento il vero nemico è questa polarizzazione continua, questo continuo urlare tra tifoserie che il più delle volte non sanno neppure di cosa parlano”.

Ancora una volta torniamo quindi alle contraddizioni del Paese profondo e capiamo bene quanto sia labile il confine tra la positiva semplicità della provincia da una parte e l’arretratezza, l’abbandono, il dramma della periferia, intesa come status umano e sociale prima ancora che fisico, geografico o materiale. Una situazione che alimenta inquietudini che poi spesso sfociano in odio e violenza, spesso anche alimentate ad arte da una certa politica o da una certa stampa. E allora come si combatte tutto questo?

“Ci sono tante cose da fare. Ma il vero dramma è che mantenere, curare, prevenire purtroppo non porta voti. Il sono un narratore, non sono un politico. Ma ogni volta che ho fatto un progetto sociale ho visto dei risultati straordinari. Ho fatto sei anni di Teatro Carcere che sono stati incredibili: persone che pensavano di essere solo dei criminali e che invece scoprivano di non essere solo questo, il lavoro che garantisce meno recidive. Tutte cose documentate, non ‘pippe buoniste’. Numeri, statistiche. E invece vedi che a questo tipo di attività si preferisce pensare alla repressione che non porta alcuna sicurezza. Non che una cosa debba escludere l’altra, ma il degrado generale si combatte dicendo la verità e facendo le cose semplici. Cura, prevenzione e manutenzione delle cose esistenti dovrebbero essere la priorità, altrimenti lasciamo il deserto dietro di noi. In questo senso la cultura, il teatro possono aiutare molto”.

Per chiudere il cerchio e tornare al teatro: è possibile pensare che la cultura possa davvero aiutare a combattere questo dramma dilagante? E’ una frase che sentiamo spesso, ma poi, davanti alle vite reali, alle esperienze di tutti i giorni che vivono soprattutto i nostri giovani, come si applica a livello pratico?

“Allora io ti parlo del mio lavoro. Io credo che chi fa laboratori di teatro nelle scuole, nelle carceri, negli ambienti più difficili debba essere pagato tanto quanto chi fa questo lavoro nei teatri o in televisione. L’abbiamo visto: quando ai ragazzi porti qualcosa di bello, fatto con il cuore, magari in maniera anche nuova ed originale, provochi uno shock positivo, un dissodamento del terreno grazie al quale dalle erbacce possono crescere dei fiori bellissimi. E’ un lavoro che deve essere supportato, è il lavoro dell’orto: se non lo aiuti, muore. Se lo aiuti, consegna dei frutti buonissimi. Quello che serve è creare nuove storie per immaginare e provare a garantire un futuro migliore ai nostri giovani, e quindi alla nostra società”.

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