«Per conto mio, l´impegno ossia il cosiddetto engagement non è questione di necessità esterna, per cui, in determinate circostanze, lo scrittore deve cessare di scrivere e deve invece impegnarsi nella politica, bensì di vocazione interiore: ci sono scrittori impegnati anche in tempi di distensione politica e ci sono scrittori disimpegnati anche in tempi di turbolenza politica. Quanto a dire che in ambedue i casi si tratterà di vedere se lo scrittore si sentiva chiamato a deperire come scrittore. Che utilità può ricavare infatti qualsiasi società da uno scrittore che volontaristicamente si snatura e rifiuta se stesso per far piacere alla società stessa?» Moravia, Impegno controvoglia
Una settimana convulsa, fra lo smantellamento dei seggi, la sanificazione delle strutture, l’aumento dei casi Covid-19; mentre si riprende l’attività scolastica; proprio nel bel mezzo della resa dei conti fra partiti e movimenti, che si sono affrettati a fare il punto sull’esito della tornata elettorale, sugli indugi, sulle sconfitte (sempre misconosciute) e sulle vittorie (ognuno ha ragioni per cantarne una propria); si consumano audizioni al COPASIR e Consigli europei straordinari, senza troppo rumore o scalpore, ripensiamo a Moravia.
Trent’anni fa, in un 26 settembre di scirocco, con un cielo fermo e pesante (piovve sabbia), ci lasciava uno degli intellettuali più lucidi, intelligenti e coerenti della civiltà italiana ed europea, noto in tutto il mondo, ove aveva viaggiato incidendo una profonda traccia, con la sua scrittura chiarissima e acuta; dal 1907, aveva, inoltre, attraversato – controvoglia – il secolo breve, osservando e incontrando uomini e donne comuni, poeti e scrittori, capi di stato e dittatori.
Moravia è lo scrittore più politico e impegnato del XX secolo: la sua vita, i suoi viaggi e i suoi scritti lo dimostrano! Tutto è politica in lui, nonostante non abbia mai preso parte ad una tornata elettorale (breve la parentesi al Parlamento Europeo), e la politica in quanto tale non gli sia mai piaciuta, perché, ribadiva: «non mi piacciono i mestieri male esercitati. Se si scrivessero libri, se si costruissero case, si esercitasse la professione del medico, così come si fa politica, allora i libri sarebbero delle porcherie, le case cascherebbero, e i medici manderebbero all’ altro mondo tre quarti dei loro pazienti. La politica, sia quella esercitata nell’ ambito della costituzione, sia quella praticata dalle bande armate, è pessima in Italia.» Si riteneva, comunque, un animale politico: il suo primo romanzo lo aveva intitolato Gli indifferenti in una prospettiva antifrastica, richiamando, invece, quell’idea gramsciana di odio verso l’indifferenza.
Mosso da impazienza e curiosità miste ad una straordinaria capacità di penetrare i meccanismi del reale, di interpretare le vicende storiche e politiche, senza fanatismi o faziosità, con l’urgenza di capire e di sceverare ciò che è autentico dalle finzioni e dagli impostori: ecco l’immarcescibile merito della sua scrittura, in qualsivoglia forma sia stata praticata: romanzo, racconto, saggio, opera teatrale, articolo giornalistico, reportage di viaggio, recensione cinematografica o critica letteraria, intervista. In ogni suo testo limpidamente la ricerca si fa analisi, e l’analisi metodo, per monitorare e denunciare le criticità psicologiche, sociali e le falsificazioni economiche della società di massa.
Un’esortazione costante a cercare di conoscere e poi agire razionalmente, consapevoli, quando rivelate, delle contraddizioni e delle ingiustizie insite in ogni sistema politico, se messo al vaglio della condizione umana. Dalla parte degli Illuministi, di Freud e Marx, degli intellettuali-filosofi della Scuola di Francoforte e della logica di Wittengstein: Moravia ha avversato le ideologie manipolatorie e tutte le strutture e sovrastrutture gerarchiche che tendono a ridurre l’uomo ad oggetto, opponendosi a tutto quel che coopera a distruggere sul nascere la coscienza critica e a fomentare l’oppressione e la sottomissione, perché: «L’intellettuale – ha scritto – è come il bambino della favola, che rivela all’imperatore la sua nudità.» Pertanto la diagnostica moraviana sulla modernità non può che essere impietosa: dal fascismo fino alle armi atomiche, dalla civiltà dei consumi fino al neocoloniasmo, dall’alienazione alla consapevolezza di ogni meccanica disumanizzante non c’è aspetto al quale l’intellettuale del Conformista non dedichi le sue energie, incoraggiato da una intrepida consapevolezza: l’uomo come fine. Valutare sempre e comunque che il fine di ogni azione, scelta, impegno politico è l’essere umano.
Oggi rileggere, riflettere e provare ad imparare qualcosa, ad esempio, dagli aforismi del suo Diario politico (14 gennaio 1945), aiuterebbe ad aprire gli occhi su convergenze e divergenze, ma soprattutto sulla conflittualità paralizzante e sul vero male che affligge Italia e italiani: la desolante e deprecabile commistione mescolata di nazionalismo e di populismo. In uno egli scrive: «Difenderemo la nazione fino all’ultimo uomo. Non sarebbe meglio difendere gli uomini fino all’ultima nazione». Sembra che Alberto risponda, da quel lontano 1945 e a trent’anni dalla morte impoliticamente, a tante maniacali, quasi ossessive e psicotiche distorsioni destrorse e sovraniste. E forse potremmo rileggere il risultato del referendum e delle ultime elezioni alla luce di quest’altra massima (Quaderno politico – 6 settembre 1945): «Esistono dittature borghesi e dittature proletarie. Ma esistono anche democrazie borghesi e democrazie proletarie. La dittatura, prim’ancora di essere un mezzo, è una condizione psicologica e di costume».
Ancora ragionevolmente Moravia.
Angelo Fàvaro è docente all’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
Grande ricordo di un Maestro che non va dimenticato